Alyssa Battistoni è postdoctoral fellow all’Harvard University Center for the Envitornment. È coautrice di A planet to win: why we need the Green New Deal. Jedediah Britton-Purdy insegna alla Columbia Law School e la sua ultima pubblicazione è This Land is our land: the struggle for a New Commonwealth. Il pezzo che segue è stato originariamente pubblicato su “Dissent” (Winter 2020).

Se siete preoccupati per la democrazia, il cambiamento climatico certo non vi farà sentire meglio. Da decenni, ormai, il cambiamento climatico e la crisi ecologica in generale vengono portati come prova schiacciante del fatto che la democrazia non sia in grado di risolvere i nostri problemi più impellenti. Oggi sono molteplici le sfide che abbiamo davanti: agire nel campo climatico richiede un impegno nazionale a beneficio di popolazioni straniere, e sacrifici nel presente a beneficio di generazioni future, il tutto fondato su basi scientifiche che restano ancora sufficientemente complesse da consentire ai negazionisti di proporre appassionanti contro-narrazioni. Semplicemente, secondo chi sostiene queste argomentazioni, le persone non si daranno volontariamente dei limiti severi, tantomeno a beneficio di sconosciuti/stranieri.
A riprova di questo, gli scettici della democrazia citano le proteste contro ogni misura politica volta all’aumento del costo dei combustibili fossili, da quelle dei gilet jaunes francesi a quelle dei manifestanti ecuadoregni.
Si aggiunga a tutto questo, l’ostilità, o la repulsione, verso le imposte sui carburanti in luoghi disparati come l’Australia o lo Stato di Washington, o l’elezione di presidenti decisamente anti-ambientalisti negli Stati Uniti e in Brasile, due delle democrazie più grandi al mondo.
Nel “Financial Times”, affidabile barometro del pensiero elitario, un redattore si è recentemente domandato: “La democrazia può sopravvivere senza il petrolio?”. La risposta non è facile: “Nessun elettorato voterà mai per ridimensionare il proprio stile di vita. Non possiamo certo incolpare i politici cattivi o le corporation. È colpa nostra: preferiremo sempre la crescita al clima”.
Persino i meglio disposti, a sinistra, non possono non preoccuparsi di quello che un drastico cambiamento delle condizioni materiali di vita potrebbe comportare per il destino della democrazia. Nel suo libro Carbon Democracy, lo storico Timothy Mitchell sostiene che “le politiche democratiche si sono sviluppate grazie al petrolio con un particolare orientamento verso il futuro; il futuro era l’orizzonte infinito della crescita”. Ora sappiamo che quell’orizzonte si sta restringendo.
Dunque, siamo davvero noi il problema? Quali sono le prospettive per una “no-carbon democracy” nel Ventunesimo secolo?

Una breve storia della democrazia climatica
L’attuale preoccupazione per il rapporto tra democrazia e ambiente ha diversi precedenti. Già agli albori delle politiche ecologiche, negli anni Settanta, lo scienziato politico William Ophuls cercava di immaginare cosa sarebbe avvenuto qualora la crescita economica fosse giunta al termine -una previsione comune sia ai radicali sia ai centristi dell’epoca. Ophuls sosteneva che la scarsità fosse un’ineluttabile condizione umana, e che la politica fosse l’altrettanto ineluttabile lotta per assicurarsi tali carenti risorse. È per questo che Thomas Hobbes, il primo teorico moderno della politica, insisteva sulla necessità di un sovrano assoluto per tenere l’ordine politico: così da metterci al riparo dagli insaziabili e avidi appetiti dei nostri simili.
Il tratto distintivo dell’età moderna, e in particolare della prima metà del Ventesimo secolo, era la convinzione che si potesse sfuggire alla condizione di carestia -e che la ricchezza potesse diventare non solo abbondante, ma illimitata.
La crisi ecologica si è rivelata l’occasione perfetta per mettere in discussione quel pensiero e tutti i sistemi politici costruiti su di esso. Secondo Ophuls, un futuro ecologicamente sostenibile sarebbe dovuto essere “più autoritario” e “meno democratico”. I notabili dell’ecologismo avrebbero preso in carica la gestione delle risorse comuni in modo appropriato: il sovrano ecologico ideale si sarebbe incaricato della corretta gestione delle risorse comuni. Questo sovrano sarebbe stato una combinazione di Platone e Hobbes, con un innesto di John Muir -avrebbe cioè combinato l’esperienza del re-filosofo con la sovranità assoluta, il tutto condito con la giusta dose di consapevolezza ecologista.
Verso la fine degli anni Ottanta, gli esperti di politica iniziarono a vedere una soluzione differente: l’ambientalismo di mercato, per cui la risposta ai problemi ambientali stava non in una minore crescita, ma in “più mercato”, sapientemente calibrato per “internalizzare” le “esternalità” industriali, inserendo il costo dell’inquinamento nel prezzo delle risorse (la tassa sulla CO2 è una versione di questa idea). Gli economisti facevano così notare che la minaccia rappresentata dall’inquinamento da clorofluorocarburi (Cfc) allo strato d’ozono era stata risolta facilmente e con poca spesa con un sistema di permessi di emissione “commerciabilizzabili”. (In Europa la soluzione era avvenuta attraverso un divieto, e questo suggeriva l’idea che i Cfc non fossero allora così insostituibili o inevitabili). Comunque, se funzionava per i Cfc, così recitava questa logica, poteva funzionare anche per la CO2. Secondo la teoria economica in voga tra le élites dell’epoca, la via maestra era la soluzione di mercato.
Il miglioramento in campo ambientale sembrava combinarsi perfettamente con la teoria sulla fine della storia: capitalismo, democrazia e aria pulita, ora e per sempre assieme. La “curva di Kuznets ambientale” sosteneva che l’inquinamento aumentava nelle prime fasi dell’industrializzazione, per poi precipitare una volta che gli elettori della classe media decidevano che si potevano permettere anche acqua e aria pulite. Questa era l’evoluzione della distribuzione del reddito, nell’ottimistica teoria dell’economista Simon Kuznets.
La versione di democrazia implicita in questo pensiero era evidente: gli scienziati politici tenevano traccia dei progressi democratici e dei “consolidamenti”, che includevano i “diritti di proprietà”; parliamo insomma di un sistema di mercato capitalistico. Era una democrazia più incline a identificarsi con le prerogative del capitalismo, piuttosto che a sfidarle.
Negli anni Duemila, tuttavia, è iniziato a risultare evidente che quel “progresso” non si stava verificando in maniera sufficientemente veloce. Il cambiamento climatico si rivelava un problema più grave di quanto molti avessero previsto, e forse era anche di altra natura. Il lasso ottimismo “democratico” cominciava a recedere. Dal punto di vista della teoria della scelta razionale, il cambiamento climatico si presentava come esempio da manuale dei problemi di un’azione collettiva: era sì interesse di ciascuno arrivare a una soluzione, ma lo era altrettanto la defezione, il free-riding, cioè il continuare a inquinare. Nessuno avrebbe compiuto alcun sacrificio, a meno che non l’avessero fatto tutti. E ciascuno aveva un incentivo personale a scaricare il proprio fardello sugli altri e, in ultima analisi, sulle future generazioni.
La stessa teoria della scelta razionale era sotto attacco da parte degli economisti comportamentali, che dimostravano come in realtà il modo con cui prendiamo le nostre decisioni tutto può essere definito fuorché razionale. Con l’uscita di libri di grande successo, come Freakonomics-Il calcolo dell’incalcolabile, o l’opera semi accademica Nudge, la spinta gentile, dell’economista dell’Università di Chicago Richard Tahler e del professore di diritto di Harvard Cass Sunstein (già capo dell’Office of Information and Regulatory Affairs di Barack Obama), le èlites politiche degli anni Zero potevano far riferimento a un nuovo vocabolario per descrivere la natura umana.
L’economia comportamentale spiegava la questione dell’azione collettiva a modo suo: il problema non è solo che i nostri interessi sono mal allineati; piuttosto, è che non riusciamo quasi a capire quali essi siano. “Perché il cervello non è green?”, era il titolo di una cover story del New York Times Magazine del 2009 che cercava di catturare il nuovo zeitgeist. Il problema erano i “pregiudizi automatici” che distorcevano i processi cognitivi. Le azioni delle persone sono tarate sul breve periodo, mentre il cambiamento climatico è un problema che si dipana nel lasso dei secoli. Sbagliamo il calcolo dei rischi; reagiamo diversamente alle stesse misure politiche se ci vengono presentate diversamente -tutti odiano le “tasse” sulla CO2 e al contempo apprezzano i cosiddetti “offsets” (compensazioni). Non ci piacciono i cambiamenti; siamo avversi al rischio. Facciamo fatica a comprendere la minaccia del cambiamento climatico, perché non è un atto violento immediatamente visibile come lo è ad esempio una guerra.
Forse il cambiamento climatico non è colpa della democrazia in sé, ma certo c’è qualcosa nel demos -nei popoli stessi, nei nostri cervelli- che non è adatto a comprendere e ad affrontare un problema simile.
L’esito di questo ragionamento è che non siamo attrezzati per l’auto-governo in un mondo segnato da problemi complessi, di lungo periodo. Le persone devono essere in qualche modo ingannate, mosse da “spinte gentili”, per scegliere il meglio per il proprio interesse. Ciò che non viene detto ma è implicito, sia qui che nell’analisi della scelta razionale, è un’analisi fondamentalmente individualista e a-storica del cambiamento climatico.
Non importa chi abbia davvero provocato le emissioni di anidride carbonica, o quali fossero i sistemi economici e politici. Noi umani, in fondo, siamo tutti uguali, e il modo in cui siamo ci rende molto difficile invertire processi già in movimento.

Se prima la colpa veniva data alla stupidità delle persone e ai difetti intrinseci delle istituzioni, in questi ultimi anni a essere biasimato è soprattutto il potere delle multinazionali dei combustibili fossili. I soldi sporchi degli interessi particolari -ma anche molto denaro pulito- sono stati usati per negare il cambiamento climatico, affossare le tassazioni sulla CO2 e il settore delle energie rinnovabili, e deregolare il settore energetico.
Questa svolta in direzione di una storia politica delle politiche energetiche si è concentrata in particolare sui difetti e le disgrazie del processo politico statunitense, dalle spese politiche pazze alle vicissitudini delle negoziazioni alla Casa Bianca negli anni Ottanta -“Il decennio in cui abbiamo quasi fermato il cambiamento climatico”; così l’aveva definito Nathaniel Rich in un lungo articolo apparso sul New York Times nel 2018.

Mentre il catastrofismo apocalittico rimpiazza il trionfalismo delle teorie della fine della storia, le ultime quattro decadi del pensiero “politico” sul clima ci appaiono ben poco politiche. O forse possiamo meglio dire che le riflessioni sul clima di quei decenni sono anch’esse sintomo dell’anti-politica allora imperante, una politica delle idee (la teoria dell’attore razionale, l’economia comportamentale) e delle istituzioni (l’industria del combustibile fossile, le banche di investimento, il Partito democratico di Bill Clinton e Robert Rubin) che non si presentavano come politica, ma piuttosto come “expertise”, come scienza, e lavoravano per schiacciare ogni politica che volesse andare oltre un generalizzato pessimismo riguardo gli esseri umani, o un pari ottimismo sulle istituzioni e la tecnologia.
L’elefante nella stanza in queste narrazioni sulla democrazia e il cambiamento climatico è il capitalismo.
Il capitalismo è al centro della sfida sul clima. Si fonda sulla premessa di una crescita infinita, crescita che il pianeta non può permettersi. Ogni forma di capitalismo fin qui nota all’uomo è stata estrattivista, e ha tratto la sua energia e molta della propria ricchezza dalla Terra, con modalità distruttive e non rinnovabili. Nessuna forma nota di capitalismo è mai riuscita a riconoscere i danni ambientali prodotti, in primis l’inquinamento provocato dalle emissioni dei gas serra. L’estrattivismo e l’inquinamento sono al cuore delle economie ambientali tradizionali: tipicamente sono descritte come problemi di “esternalità” e “capitale naturale”, e solitamente la soluzione proposta è “rendere conto pienamente dei costi” per incorporare bonus e malus ecologici nei fogli contabili delle imprese e dei consumatori.
Questa narrazione riduce tutti i problemi a questioni tecniche, ma sin dalla sconfitta del 2010 della proposta di legge Waxman-Markey, è risultato chiaro come le sfide -apparentemente tecniche- al dominio politico-economico dei combustibili fossili richiedano invece maggioranze che si mobilitino per combattere e salvare il mondo. La tecnocrazia non scavalca la politica, semplicemente la ignora, ma poi ne viene presa alla sprovvista. Fare i conti col concetto di crescita indefinita dovrebbe essere un compito basilare, ma l’economia convenzionale per lo più ha evitato di farlo.
Le politiche climatiche si sono sviluppate nel periodo dell’egemonia neoliberista, quando il concetto di un controllo democratico sull’economia era fuori discussione e inconcepibile. L’anti-politica degli ultimi decenni ha lavorato per proteggere i mercati dal tipo sbagliato di distorsione politica. Facendo arretrare le politiche democratiche, o scavalcando i limiti imposti democraticamente sul capitale -incluse le regolazioni ambientali degli anni Settanta- il neoliberismo ha reso più difficile affrontare i problemi ambientali sistemici del capitalismo.

Se vogliamo parlare di democrazia e cambiamento climatico, dobbiamo discutere anche di democrazia e capitalismo. Invece quasi tutte le discussioni in questo ambito hanno dato per scontato un tipo di democrazia che non può mettere in discussione le condizioni basilari del capitalismo, o che non ha bisogno di farlo. La maggior parte delle politiche climatiche effettivamente attuate, fino a poco tempo fa, sono state portate avanti su questi identici termini.
Fino al 2016 a troppi osservatori sembrava che il neoliberismo avesse trionfato sulla democrazia, e che l’economia avesse completamente soggiogato la politica.
Ma alla fine la politica è tornata.
Tuttavia una politica viva, vitale, deve porsi una serie di domande scomode. Può davvero la democrazia sconfiggere, o almeno contenere, il capitalismo, in un’epoca in cui la prima appare così indebolita e il secondo invece in crescita? E quali sarebbero le possibili strade per la democrazia, in un mondo il cui clima sta cambiando? Sostenere che i mala tempora in cui ci troviamo siano l’esito di un mondo profondamente non democratico non significa necessariamente che una democrazia più forte renderebbe più facile migliorare la situazione.
Siamo giunti a una certa chiarezza sulla nostra condizione, ma al prezzo di aver sostituito un problema storico e globale (il cambiamento climatico) con due problemi storici e globali (conquistare la democrazia e risolvere il cambiamento climatico).
Quali sono le dimensioni di questo nuovo problema? Come si relazioneranno o collideranno democrazia e cambiamento climatico negli anni a venire?

Incolpare la democrazia del cambiamento climatico
Partiamo dall’idea classica secondo la quale per sconfiggere il cambiamento climatico bisogna andare oltre la democrazia. Il fantasma del despota illuminato che governa per il bene del pianeta e dei suoi abitanti -un ibrido tra Platone, Hobbes e Muir- ricorre quasi regolarmente.
Il fatto che un  simile regime non sia mai esistito e che sembrino mancare le condizioni per cui potrebbe realizzarsi, non ha impedito ad accademici e giornalisti di citare in continuazione lo scienziato di turno che suggerisce che la democrazia potrebbe non essere all’altezza del compito, laddove questo sia combattere il riscaldamento climatico. Dove i regimi autoritari sono ef­fet­tivamente al potere, non governano certo in nome dell’ecologia!
Paradossalmente, la Cina occupa una posizione schizofrenica in questo immaginario: da un lato, si dice che può vanificare ogni azione climatica intrapresa dagli Stati Uniti, data la sua crescita e le sue inarrestabili emissioni; dall’altro viene citata per esemplificare il potenziale “ambientalista” di un regime autoritario, capace di costruire ferrovie ad alta velocità o di interrompere da un giorno all’altro una produzione di carbone.
Cionondimeno, non è ancora ora di mandare la democrazia nel dimenticatoio. Laddove è stata praticata anche solo per pochi decenni, sarà difficile liberarsene completamente, a dispetto della paranoia liberista sul suo smantellamento.
Naturalmente la democrazia può recedere o erodersi dall’interno. Qualche volta, come recentemente avvenuto nel Rojava o a Hong Kong, può essere violentemente repressa. Rimane sotto attacco in varie parti del mondo -basterebbe citare gli oligarchi razzisti della Bolivia o il regime nazionalista di destra in Turchia.
Nel parlare delle forze che minacciano la democrazia, inoltre, più che delle “masse”, dovremmo essere preoccupati dei “liberal” delle classi medie -i veri sostenitori dell’idea che il popolo non sarebbe in grado di autogovernarsi. Storicamente, le classi medie sono sempre state piuttosto “fredde” nei confronti della democrazia, sostenendola talvolta, ma altrettanto spesso ritirando il proprio supporto qualora la classe operaia apparisse loro troppo potente. Studi recenti suggeriscono che il rapporto tra capitalismo e democrazia non derivi da una qualche innata affinità strutturale, quanto piuttosto dal fatto che, nelle società capitalistiche, una classe operaia in crescita spinge a riforme democratiche; riforme che trovano, nella classe media, un sostegno piuttosto timido e spesso inaffidabile.
In molti luoghi, più che l’insediamento di un vero regime autoritario, lo scenario più verosimile è che il neoliberismo, dimostratosi notevolmente resistente anche nel dopo-crisi del 2008, ridimensioni la sovranità popolare.
Ora, la soluzione preferita dai tecnocrati neoliberisti è la tassazione della CO2. Ma queste imposte generano il classico dilemma se viene prima l’uovo o la gallina: solo un’alleanza tra esperti politici e capitalisti “amichevoli” potrebbero sostenerle. Ma francamente è difficile immaginare un capitale incline ad auto-imporsi nuovi costi, in assenza di un’enorme pressione politica. Le corporation sosterrebbero una carbon tax solo se l’alternativa -ad esempio il Green New Deal- apparisse più minacciosa. Se si creasse una forte pressione politica in questa direzione, si può facilmente immaginare che dal centro arriverebbero proposte per una carbon tax come soluzione accettabile dalle corporation -anche se a livelli ben inferiori di quelli proposti dal Fondo Monetario Internazionale di 75 dollari a tonnellata. (Come punto di riferimento, la media della carbon tax in tutto il mondo è di 8 dollari a tonnellata, mentre l’Onu ha raccomandato di adottare imposte tra i 175 e i 5.500 dollari a tonnellata entro il 2030).
In nazioni dove l’agenda politica si fonda sulla capacità di prendere in prestito soldi, una tassa sulla CO2 (o sul carburante) potrebbe essere imposta dall’esterno, o istituita in base alle condizioni poste dai prestatori. I recenti tentativi dell’Ecuador di tagliare i sussidi al carburante, per esempio, erano un modo da parte dello stato per risparmiare 1,3 miliardi di dollari l’anno nell’ambito di un pacchetto di prestiti del Fmi di 4,2 miliardi di dollari. Ma l’imposizione di nuovi costi su popoli che già hanno pagato un duro prezzo alla crisi economica è presumibilmente destinata a scatenare nuove proteste: in Ecuador le manifestazioni seguite ai tagli ai sussidi ne hanno reso necessario il ripristino. Anche le proteste dei gilet jaunes contro una nuova tassa sulla benzina ha infine costretto il governo francese ad abbandonarla. Tuttavia non possiamo interpretare queste dinamiche come una lotta tra democrazia e azione climatica. Potrebbero anche esserlo, se i manifestanti si trovassero a dover scegliere tra l’austerità da un lato e la devastazione ambientale dall’altro. Ma queste sono anche rivolte democratiche contro il neoliberismo e, almeno potenzialmente, in favore di qualcos’altro. La domanda è se queste reazioni possono aiutarci a trovare alternative meno frustranti; se all’orizzonte c’è una qualche forma di prosperità pubblica condivisa.

La decarbonizzazione democratica
In effetti, esiste un programma climatico ambizioso, che si propone di sostenere alti costi a beneficio di popolazioni straniere e delle generazioni future (ma anche di ricostruire il panorama statunitense con modalità più accoglienti e generose) e che sta mobilitando gli attivisti e attraendo a sé i candidati delle primarie democratiche.
Il Green New Deal rappresenta una scommessa sul fatto che sia più democrazia, e non meno, la strada per affrontare il cambiamento climatico, anche se non abbiamo ancora una democrazia perfetta. La premessa è che l’azione climatica, per avere successo politicamente, deve essere popolare; ciò significa che deve offrire benefici alle persone, e non solo chiedere loro sacrifici per il bene del futuro.
Oggi non esiste una base elettorale per un movimento di austerity ecologista. E non si possono portare avanti il tipo di riforme di cui c’è bisogno attraverso la scappatoia di un intervento sul piano esecutivo (come il Clean Power Plan) o affidandosi ad aggressive azioni legali all’insegna del “sue the bastards” (fai causa a quei bastardi, Ndt), la strategia storicamente perseguita dalle grandi organizzazioni ambientaliste.
Nel progetto di un Green New Deal, le azioni per tagliare le emissioni di monossido di carbonio fanno parte di una più ampia trasformazione dell’economia e della società -una trasformazione che colpisce l’intreccio di potere tra il capitale dei combustibili fossili e gli attori politici che l’hanno protetto, e si fa carico dei danni inferti all’interesse pubblico, in particolare alle comunità delle persone di colore e agli operai. L’obiettivo del Green New Deal è una “abbondanza pubblica” dove sia possibile vivere bene rispettando i limiti ecologici; è anche la costruzione di una democrazia capace di combattere i mutamenti climatici, nel concreto più che in senso astratto.
Le persone di sinistra che abbracciano il concetto di “democrazia” tendono a considerarla come qualcosa di più solido e robusto del semplice maggioritarismo -un’appello all’eguaglianza, all’abbondanza condivisa, al mutuo riconoscimento; qualcosa che si cerca sempre di conquistare, piuttosto che un kit fatto e finito di procedimenti politici. La democrazia statunitense oggi è insufficiente sotto tanti punti di vista e le iniziative che verranno prese nei prossimi anni contro il riscaldamento climatico possono consolidare la democrazia seguendo queste linee-guida, o comprometterla ulteriormente.
Ma è il caso di dire qualcosa anche in merito al cosiddetto maggioritarismo ristretto. Se la Corte Suprema non avesse assegnato le elezioni del 2000 a George W. Bush, dopo che secondo il voto popolare aveva perso la sfida con Al Gore, è probabile che le negoziazioni sul clima avrebbero compiuto maggiori progressi, e la legislazione sul clima sarebbe stata approvata nel decennio in cui invece gli Stati Uniti sono sprofondati nel conflitto iracheno.
Se il Collegio elettorale non avesse assegnato le elezioni del 2016 a Trump, dopo che anche lui aveva perso il voto popolare, forse gli Stati Uniti non sarebbero ora impegnati a smantellare a velocità record tutte le restrizioni sull’inquinamento atmosferico e sulle emissioni di CO2. Anche in una democrazia altamente imperfetta, il maggioritarismo è pur sempre una forma di potere.

Il maggioritarismo significa che non hai bisogno di cambiare lo spirito e la mentalità di tutti, in un paese; non devi necessariamente produrre una trasformazione morale improvvisa. È sufficiente convincere una maggioranza di persone. E una grande maggioranza di persone ha indicato il proprio sostegno a molte delle componenti del Green New Deal: la garanzia di occupazione lavorativa; l’investimento su energie rinnovabili al 100%; il ripristino di terreni e foreste; l’investimento nei trasporti pubblici, e così via. In un mondo costruito da forze profondamente antidemocratiche, in cui noi cerchiamo -democraticamente- di forzare la via verso qualcosa di diverso, il fatto che la democrazia non sia un progetto fondato sul consenso di tutti è una cosa positiva.
Ma il sostegno nei seggi è solo il primo passo. Anche un’elezione con un esito positivo è solo il principio, e non la fine. Se le richieste democratiche sono spesso in antitesi alle richieste del capitale, e se il cambiamento climatico è un prodotto del capitalismo, allora è plausibile che l’azione democratica sul cambiamento climatico sia ostile al capitale. A certe forme di capitale più di altre, naturalmente: è certo che l’industria dei combustibili fossili ingaggerà una battaglia all’ultimo sangue, mentre gli imprenditori volenterosi dell’energia solare ed eolica saranno ben contenti del successo del Green New Deal, anche se probabilmente ne preferirebbero uno che immetta fondi pubblici nel settore ricerca e sviluppo privato, rispetto a uno che tassa il capitale per sviluppare i servizi pubblici.
Comunque c’è abbastanza capitale legato ai combustibili fossili, per immaginare che una cospicua schiera di forze si aggregherà contro ogni serio tentativo di sbarazzarsi dell’industria del petrolio.
La lotta contro le decisioni non-democratiche del capitale non è l’unica che ci aspetta.
Il maggioritarismo comunque non significa che chi vince può costringere i perdenti a fare ciò che in prima istanza non farebbero. Anche se è possibile immaginare che si formino maggioranze democratiche a sostegno dell’edilizia popolare e dei trasporti pubblici, cosa succederà quando i progetti per ricostruire il nostro Paese fatto di Suv e nuclei mono-familiari incontreranno delle resistenze? Le perenni lotte su chi sia il vero controllore delle terre demaniali nei nostri Stati occidentali (che possono anche sfociare in scontri drammatici, come l’occupazione di esponenti di destra del Malheur Wildlife Refuge nell’Oregon orientale, nei primi mesi del 2016) dimostrano che c’è ancora una forte resistenza all’idea che il Congresso, la Corte suprema o chiunque altro a Washington possa avere l’ultima parola.
La crescente divisione tra giurisdizioni “rosse” e “blu”, ciascuna delle quali impegnata a denunciare come illegittima la controparte (per colpa del “gerrymandering”, cioè della ridefinizione dei collegi elettorali per favorire o penalizzare un partito o un gruppo o -come falsamente insiste Trump- per via di una “frode elettorale”) renderà ancora più difficile prendere decisioni a livello nazionale capaci di radicarsi in stati o città dissenzienti.

Questo problema si ripropone a livello planetario. Almeno sin qui, nella storia della democrazia, il “governo del popolo” ha sempre significato un sotto-insieme di persone circoscritte all’interno di confini territoriali dello stato-nazione. Eppure, come è noto, il cambiamento climatico influisce sulle persone al di là dei confini nazionali, su persone ancora non nate, e su esseri non umani -nessuno di questi facenti parte della definizione di “popolo” che può prendere decisioni politiche. Non solo: per quanto ne sappiamo, il cambiamento climatico è distribuito in modo diseguale sia nelle sue cause che nei suoi effetti: in tutto il mondo, circa il 10% della popolazione è responsabile del 50% delle emissioni, mentre il 50% più povero produce solo il 10% delle emissioni, ed è questa la parte più suscettibile al disastro climatico.
Non esistendo uno Stato mondiale (che sia auspicabile o meno), almeno per il futuro immaginabile, una vera democrazia globale è fuori discussione.
Questo significa che, se i molti del mondo volessero intervenire contro il consumo sfrenato dei pochi, non avrebbero comunque gli strumenti per obbligarli a farlo. Nello specifico, il resto del mondo non può obbligare gli Stati Uniti a rispondere delle proprie azioni. Siamo il paese che più ha da perdere se prendesse forma un processo decisionale globale. È per questo che il potere americano è stato per lo più usato per minare alle basi le istituzioni globali, salvo quando queste facevano comodo ai nostri interessi.
Oggi la democrazia è inceppata anche per il fatto che dei “sottoinsiemi nazionali” del mondo prendono decisioni che poi influiscono anche su tutti gli altri; tra questi, sono i più ricchi e potenti ad avere più voce in capitolo. Questo tuttavia non significa che l’alternativa allo Stato mondiale sia il disastro. A qualunque leva del potere possano aggrapparsi le comunità impegnate attraverso le frontiere globali -dalle cause civili per i danni climatici nei paesi dove operano le grandi compagnie petrolifere, agli sforzi congiunti a livello internazionale per impedire l’estrazione di combustibili fossili, ai programmi di solidarietà, come la spesa internazionale immaginata nella versione di Sanders del Green New Deal- si tratta di azioni che comunque conteranno rispetto all’obiettivo di porre un freno al potere dei combustibili fossili, per rendere i prossimi decenni meno crudelmente iniqui.

Ovviamente non possiamo dare per scontato che i movimenti per la democrazia saranno al contempo movimenti per la giustizia climatica: movimenti nazionali che concepiscono il “popolo” come categoria etno-nazionalista potrebbero facilmente agitare sentimenti anti-migranti, specie man mano che aumenteranno i migranti climatici in cerca di rifugio; potrebbero altresì chiedere un’accelerazione dell’estrazione di combustibili fossili per finanziare riforme sociali a beneficio delle proprie comunità e a spese di chi vive altrove, o investire in infrastrutture “green” in comunità elette, lasciando tutti gli altri ad affrontare da soli sempre più incendi e inondazioni.

È facile pensare che quella climatica sia una crisi dalle caratteristiche uniche. In realtà la maggior parte delle decisioni democratiche influenzano persone che vivono al di fuori delle comunità politiche esistenti, perché oltre i confini o perché appartenenti alle generazioni future. La decisione di costruire autostrade ha pesantemente trasformato i modi di abitare e di viaggiare; la decisione di indebolire i sindacati in un paese hanno effetti sul commercio globale e sui lavoratori in tutto il mondo. Perché proprio il cambiamento climatico è fonte di tante preoccupazioni? La crisi climatica è certamente una sfida spaventosa per la politica, ma non è l’unica.  Eppure negli altri casi sono in pochi a sostenere che un processo decisionale democratico sia impossibile .
Vien da pensare, come suggerito dal filosofo Stephen M. Gardiner in A perfect moral storm, che questo refrain sulle tante ragioni per cui la politica “non funziona” o “non può funzionare” quando si parla di clima sia una forma di malafede che ci impedisce di provare a occuparci di questa crisi con i mezzi di cui disponiamo.
Tendiamo a considerare il cambiamento climatico come un problema “completamente diverso”, che richiede soluzioni “completamente diverse”. In realtà la crisi legata al clima getta nuova luce su quelli che sono i paradossi, le sfide e le tensioni più persistenti delle nostre politiche.
A un alto livello di astrazione, si tratta di questioni potenzialmente esistenziali, ma nella pratica la loro risoluzione richiederà qualcosa tra la guerra di trincea e una crisi di nervi collettiva, e coinvolgerà le articolazioni di ogni istituzione esistente.
Non siamo liberi di fare ciò che ci pare in politica.
Ci aspetta una lotta lunga e difficile, piena di tensioni e di domande: qual è la volontà del popolo, e chi è il popolo, e come realizzare la sua volontà con istituzioni rigide, infrastrutture ancor più rigide, un capitale a piede libero e un popolo invece non pienamente libero? Il tutto mentre la natura, sempre più imprevedibile, si disinteressa di noi.
Questo è, sfortunatamente, lo stato della politica, di questi tempi, anche in momenti in cui la posta in gioco è alta e chiara e l’obiettivo è quello di realizzare pienamente la democrazia.
Tuttavia non c’è un’altra via d’uscita: bisogna passare di qui.
(traduzione a cura di Stefano Ignone)