Si è testé compiuto l’anno da quando Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi, condannati per il delitto di omicidio del Commissario Calabresi, si sono spontaneamente sottoposti alla carcerazione: Pietrostefani addirittura venendo dalla Francia, dove da tempo aveva un dignitoso lavoro, e dove poteva restare indisturbato giacché la Francia non concede estradizioni per delitti che abbiano un movente politico. Una decisione socratica, insomma, di obbedienza al provvedimento, anche se ritenuto ingiusto.
Il povero commissario fu ucciso a Milano il 17 maggio 1972. Vi fu una prima istruttoria che portò anche all’identificazione di uno straniero alto e biondo, dai capelli lunghi; ma poi l’accusa fu lasciata cadere. Passarono molti anni di silenzio. I tre condussero un’intera esistenza di probità e di lavoro, mostrando anzi di essersi allontanati dalle ideologie accese di quei tempi difficili della loro giovinezza. Sofri e Pietrostefani diedero anzi prove di grande generosità ed altruismo in imprese pericolose, mettendo a rischio la loro vita per salvare quella altrui.
Fino a quando l’improvvisa insorgenza di Leonardo Marino che, in circostanze piuttosto strane, s’indusse a dichiararsi partecipe dell’omicidio coinvolgendo i tre compagni di Lc, diede la stura a una nuova indagine, e quindi alla sequenza di ben 7 sentenze che investirono (dal rinvio a giudizio al passaggio in giudicato della condanna) gli anni che vanno dall’agosto 1989 al gennaio del 1997. Venticinque anni, dunque, dal delitto.
E se poi si tien conto che, fra quelle sentenze, ve n’è una della Corte di Cassazione a Sezioni Unite del 21 ottobre 1992 che annulla, con severe censure, la sentenza 12 settembre 1991 della Corte d’Assise d’Appello di Milano, così travolgendo anche la sentenza della Corte d’Assise di I grado 2 maggio 1990 e la relativa condanna, già si vede che il percorso di questa vicenda giudiziaria non era stato molto sereno.
E difatti il 21 dicembre 1993 la seconda Sezione della Corte d’Assise d’Appello di Milano, adeguandosi ai rilievi delle Sezioni Unite, aveva assolto per non aver commesso il fatto tutti gl’imputati.
Qui, pero, ricomincia il cammino oscuro della vicenda perché il Consigliere togato incaricato di estendere la sentenza -evidentemente in dissenso dai giurati- scrive una motivazione che per 382 pagine su 387 è di condanna, per tal modo tradendo la decisione assolutoria della Corte.
Esempio superlativo delle cosiddette "sentenze suicide", che dovrebbero essere bandite dalla prassi della giurisdizione almeno per ragioni di elementare correttezza. Scontato, perciò, a questo punto il nuovo intervento di annullamento della Corte Suprema, e quindi il nuovo giudizio dell’Assise d’appello 11 novembre 1995 che ritorna alla condanna, e passa in giudicato il 22-1-97 con la reiezione, da parte della Cassazione, del nuovo ricorso. Per amor di Patria, trascuriamo altre strane vicende che amareggiano quest’ultima parte della sequenza giudiziaria.
Ora siamo alla richiesta di revisione che il prof. avv. Alessandro Gamberini ha presentato, a nome dei tre condannati, alla Corte d’Appello di Milano il 15 dicembre scorso, e all’intervento del Sostituto Procuratore Generale che ha chiesto alla Corte stessa di dichiararla inammissibile.
Non è possibile dar conto delle sottili e contrapposte questioni scientifiche che le parti dibattono. Ma qualche punto di fatto vogliamo accennarlo perché di più facile apprensione. La difesa presenta come prova nuova il racconto di un teste oculare importante, che solo ora rivela particolari che sconvolgono la costruzione dell’accusa sull’identificazione di Bompressi come materiale esecutore dell’omicidio. Un teste che peraltro le sentenze dichiarano "attento, preciso, attendibile". Al tempo della prima istruttoria, però, fu talmente terrorizzato da talune inquietanti circostanze che finì per sottacere i detti importanti particolari: e che fosse spaventato, e che qualche ragione per esserlo l’avesse (non dimentichiamo che eravamo negli anni ’70) è dimostrato dal fatto che per un mese intero gli fu assegnata una scorta.
Nel processo degli anni ’90 non ebbe il coraggio di rivelare circostanze che aveva sempre sottaciuto, per timore di responsabilità in ordine alla passata reticenza, e comunque ovviamente non poté riconoscere nel Bompressi lo sparatore.
Il pubblico ministero, appellandosi ad un concetto formale, afferma che il fatto del riconoscimento di altra persona e ...[continua]

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