Quanto segue vuole essere un contributo al compito di disegnare un percorso comune tra coloro che agiscono per lo sviluppo locale. Affronterò questo obiettivo partendo da due premesse e affrontando sette punti di merito. La prima premessa è che chi agisce per lo sviluppo locale debba immaginarsi come un “Sisifo felice”, secondo l’espressione di Hirschmann. Vi è infatti una certa sensazione di continuare ad agire localmente per vedere poi la pietra rotolare a valle, dove la pietra è fatta rotolare dal Ministero del Bilancio o dai processi di globalizzazione. Ma dove, in ogni caso, “bisogna essere felici” perché la fatica possa continuare.
La seconda premessa è che l’unico modo con cui so affrontare il tema dello sviluppo locale è quello di incitare tutti al sincretismo, vale a dire tentare una difficile sintesi tra due opposti. I punti seguenti intendono per l’appunto ragionare in forma sincretica.

Memoria-dissolvenza
Chiunque oggi si occupi di sviluppo locale deve innanzitutto fare sincretismo tra ‘memoria’ e ‘tentazione di dissolvenza della memoria’. Siamo costretti anche dallo sviluppo odierno ad una fissità dell’eterno presente, da cui deve uscire chi si occupa di sviluppo locale. Avere memoria in Italia significa avere memoria di tre grandi processi in cui la cultura, il pensiero teorico/pratico dello sviluppo locale, affonda le radici.
Innanzitutto, noi non possiamo prescindere dall’esperienza di comunità di Adriano Olivetti, la madre di tutte le esperienze di sviluppo locale. L’esperienza di Adriano Olivetti è fondamentale perché per la prima volta coniuga fabbrica e territorio. Il fordismo nella sua evoluzione era essenzialmente rapporto tra fabbrica e company-town. Genova, Torino e Milano in parte sono state company-town (certamente, Sesto San Giovanni è stata la company-town di Milano). Per la prima volta, nel Canavese, il rapporto è tra fabbrica e territorio. Mentre il fordismo stava di solito dentro la grande dimensione gerarchica della grande città industriale, qui il fordismo scopre il territorio. E’ partendo dal rapporto fabbrica-territorio che si comincia a ragionare su quale sviluppo si debba intraprendere (le biblioteche di paese, i servizi di trasporto, le case per gli operai, non solo a Ivrea, ma in tutto il Canavese) e si fa un progetto di sviluppo del territorio legato alla fabbrica. Se abbiamo memoria ricordiamo che da quell’incubatore di intelligenze, di radicalità e anche di sconfitte, escono molte cose. Escono un tentativo di movimento politico, un pezzo importante della dirigenza manageriale e industriale di questo Paese, l’innovazone nel design, nella progettazione, nel marketing ed esce una cultura dello sviluppo locale che vuole andare oltre il rapporto fabbrica-territorio.
Qui arriviamo alla seconda esperienza di cui, a mio giudizio, occorre avere memoria: l’esperienza degli operatori di comunità. Lo sottolineo anche per l’illusione condivisa da molti, con me, di volere creare un’associazione. Siamo di fronte ad un già visto. Adriano Olivetti formò un istituto di formazione di operatori sociali, gli operatori di comunità. Goffredo Fofi ha scritto un libro molto acuto su questa esperienza. Si tentò allora la grande scommessa di portare la contaminazione del discorso dello sviluppo non solo dove c’era il rapporto fabbrica-territorio, ma anche in quelle aree che Rossi Doria definiva “le aree dell’osso e non della polpa”, soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia, attraverso operatori di comunità che intervenivano per dare alla comunità ‘locale’ la strumentazione per il proprio sviluppo. E qui mi piace citare solo due nomi: Danilo Dolci, recentemente scomparso, poco insegnato all’Università, poco raccontato, che era l’operatore di comunità di Partinico, e Ubaldo Scassellati. Mi ha fatto molto piacere quando con il Cnel sono tornato ad occuparmi del Patto territoriale di Partinico ed ho trovato Danilo Dolci, a 78 anni, che si occupava di sviluppo di comunità dentro il suo territorio. Gli operatori di comunità, agendo nelle aree interne, si occupavano, ad esempio, di analfabetismo, dato il rapporto fondamentale tra cultura, linguaggio, conoscenza e sviluppo, e di risorse idriche. Parlando con Danilo Dolci o con Ubaldo Scassellati, emerge come questi grandi vecchi avessero l’idea fissa della diga, che rappresentava per loro l’emancipazione della risorsa idrica da qualche vincolo, ad esempio dalla mafia, per Dolci. Senza l’acqua non c’era riforma agraria possibile. Quindi l ...[continua]

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