Pubblichiamo l’intervento che Michele Ranchetti ha tenuto alla presentazione del libro di Giorgio Agamben, Il tempo che resta, Bollati Boringhieri, organizzata il 24 ottobre scorso a Venezia, dal Centro culturale Palazzo Cavagnis e dalla Società italiana per gli Studi Kierkegaardiani. Partecipavano, oltre all’autore del libro, Gianni Cova e Sergio Tagliacozzo.

Mi sono accinto alla lettura di questo libro con curiosità e una certa diffidenza. La curiosità è stata più che soddisfatta, la diffidenza è più che cresciuta sino a trasformarsi in un rifiuto. Mi dispiace dirlo ma credo che di fronte all’impegnata ambizione di Agamben e alla sua intelligenza non sia certo il caso di farsi da parte con espressioni di prudente apprezzamento. ll libro, e la persona di Agamben, non le chiedono e non sarebbero altro che scuse non dovute. ll libro richiede, al contrario, un impegno di lettura e un giudizio. E’ infatti, mi sembra, il testo più impegnato che Agamben abbia finora pubblicato, ed è certamente un testo importante, perché credo che contenga una parte almeno del suo progetto esegetico, quale si comincia a strutturare a partire da Homo sacer e da Auschwitz. E corrisponde, almeno così mi pare, ad una sorta di parabola che Agamben viene compiendo dalla ricerca letteraria alla ermeneutica filosofica e ora teologica, quasi che il suo compito di intellettuale del nostro tempo esiga da lui, e gli imponga, il confronto sempre più acceso non solo con le figure della cultura, ma con i suoi fondamenti; in particolare, in questo libro, con i fondamenti della teologia cristiana, così come prima si era dato con il senso della storia in e dopo Auschwitz, della storia e della memoria, là, qui della storia e del tempo di essa, come appare da un’intelligenza del tempo forse suggerita da una lettura molto particolare di Benjamin e ora scoperta nelle lettere di San Paolo

Farò solo alcune osservazioni. Mi sembra, infatti, che il testo di Agamben, malgrado la ricchezza, la bravura delle citazioni, I’andamento apparentemente crescente dell’argomentazione, proprio del ‘seminario’ di cui è la trascrizione (ma chi ha fatto dei seminari sa molto bene che la ‘democrazia’ che sembra caratterizzarne l’andamento è in realtà il risultato della volontà autoritaria di chi lo tiene) sia un testo semplice. Ossia un testo che si basa su alcune persuasioni (il rinvio a Michelstaedter lo confermerebbe) che reggono la struttura interrogante e la condizionano sino ad annullare ogni possibile ostacolo interpretativo che si frapponga al ductus della dimostrazione. Queste persuasioni (più che tesi, perché Agamben non ama asserire in modo diretto, preferisce la forma della osservazione definitoria) sono poche, anzi pochissime. E sono: il testo paolino è un testo messianico. Come tale è un testo fondamentale dell’Occidente. In esso si costruisce, o si descrive, il tempo messianico. La Chiesa e la Sinagoga hanno attenuato, sino a sopprimerlo, questo carattere. Prova primaria, la progressiva personificazione del messia, sino a fare di lui il figlio di Dio. Paolo concentra nei primi dieci versetti della sua lettera ai Romani la sua illustrazione della sua missione al servizio del tempo messianico, che è di farlo riconoscere presente. Basterà quindi leggere con attenzione (e relativo scrupolo filologico, e alla luce di una ‘cultura’ non disciplinarmente irrigidita) questi versetti per accedere alla vera intelligenza delle parole di S. Paolo e per esse a capire che cosa sia e come si acceda al tempo messianico. Un tempo che si rivela ora, qui, in questo momento cronologico della storia.
La semplice elencazione delle proposizioni portanti, naturalmente, non tiene conto delle numerose varianti, aggiunte, divagazioni, abbellimenti (proprio nel senso musicale del termine), ma credo rispecchi grosso modo il riassunto del testo. E risulta quindi evidente che Agamben attribuisce ad esse una grande rilevanza, come intendimento nuovo della lettera paolina, come ricupero di un significato dirompente di essa, come abbandono, abbastanza sprezzante della tradizione esegetica. In realtà non tutte queste persuasioni sono nuove, anzi alcune sono ben accolte anche dalla tradizione esegetica, così come non sono nuove, anche se ben esposte, molte delle riflessioni filologiche che le sopportano. Ciò che a me sembra veramente nuovo, ed a questo, a me sembra, si riduce (si ricapitola, direbbe Agamben) il suo ragionamento, è l’invenzione, in senso logico-retorico, del ...[continua]

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