Durante la Fiera delle buone pratiche di cittadinanza, svoltasi a Forlì nel novembre scorso, si è svolto un dibattito sulle “Terapie del dolore e cure di fine vita”. Riportiamo gli interventi di William Raffaeli e Michele Gallucci. William Raffaeli è primario di Terapie del Dolore di Rimini.

E’ stata la dimensione etica uno dei motivi che ha obbligato i sistemi sanitari a misurarsi col problema del dolore. Però, nei fatti, il dolore ha sempre rappresentato una sfida, non tanto per i sistemi sanitari, quanto per le persone che vi si sono dedicate, cioè per i medici che hanno sempre dovuto fare i conti con la sofferenza delle persone. Ma l’ambiguità insita nel termine “dolore” ha creato per lungo tempo delle difficoltà di interpretazione; tutti noi abbiamo un’esperienza estremamente precisa del dolore, sappiamo cos’è, lo conosciamo e lo sappiamo riconoscere, possiamo quindi parlarne. Nella convinzione profonda di ogni persona, il dolore è un sintomo da eliminare, che non serve a niente e dà solo fastidio, ma nello stesso tempo sappiamo tutti che costituisce anche un segnale d’allarme. Questo concetto del dolore come segnale allarme è una teoria che ci deriva dall’Ottocento, quando ricercatori e scienziati del tempo riuscirono a decifrare questo segnale e a capire che è un elemento di difesa dell’organismo, cioè un qualcosa che ci aiuta a capire che ci stiamo ammalando, che c’è qualcosa da guarire, eliminando la causa che genera una lesione del nostro organismo. Ad esempio è implicito che, se io ho mal di denti, per liberarmi dal dolore cercherò di togliermi il dente, cioè di eliminare la causa che mi genera quella sofferenza. Questo passaggio, così semplificato, costituisce però anche ciò che rende complicato comunicare il dolore: come parlarne ai medici, come rivolgersi alle strutture sanitarie? Quand’è che il dolore si trasferisce dall’ambito di sintomo a quello di malattia? Quand’è che noi cominciamo a sopportare un dolore perché “ormai non c’è più niente da fare”? Ecco allora che la sfida di questi ultimi anni è tentare di decifrare questo segnale, che in effetti in un primo momento costituisce una difesa verso qualcosa che offende l’integrità del corpo, cercando di capire quando da sintomo diventa malattia.
Per fare un esempio semplicissimo, siamo tutti d’accordo che sarebbe estremamente pericoloso se l’infarto non fosse accompagnato da dolore; potremmo correre rischi ben più severi. Quindi in questo caso il dolore è una necessità, è un aiuto, un evento positivo; allo stesso modo, se abbiamo un calcolo ai reni, il dolore ci aiuta a capire che dobbiamo fare qualcosa, perché altrimenti andremmo incontro a lesioni ben peggiori. Però quando ci amputano una gamba e continuiamo ad avere dolore nel piede che non c’è più, allora qualcosa non torna. Come mai? Cosa sta succedendo al nostro corpo che non riconosce più gli eventi? Perché cinque anni dopo essere guariti dal fuoco di Sant’Antonio abbiamo ancora quel dolore e ci rimane quel sentimento di gravissima lesione? Ecco, qui le cose cominciano a confondersi, e quel dolore che costituiva un sintomo diventa una malattia vera e propria che colpisce una quantità innumerevole di persone. Si calcola infatti che i costi del dolore cronico siano tali ormai da generare delle gravi difficoltà ai sistemi sanitari e alle grandi assicurazioni private internazionali; ad esempio a causa del dolore alla schiena milioni di persone diventano invalide, devono uscire dai cicli produttivi e adattarsi a vivere una vita non attiva. Così, coloro che sono stati colpiti da malattie neurologiche vivono nella disabilità e nel dolore gran parte della loro quotidianità. Ecco, questo dolore è una disarmonia che il corpo non riesce più a riconoscere, perché nella nostra realtà corporea molto complessa si verifica un’alterazione, come in un computer che non funziona più, per cui viene compromessa l’integrità del sistema nervoso, l’organo deputato a comprendere il mondo, ad analizzare l’universo che ci sta intorno. Ecco allora che tutto quello che circonda il paziente, che lo tocca e lo sfiora diventa dolore; è sufficiente un po’ di vento o una variazione di temperatura ed egli urla per il male. Mi riferisco alle persone che vengono abitualmente scambiate per matte, perché si chiudono, si allontanano, diventano irascibili, non sono più coerenti, cominciano ad avere un atteggiamento alterato rispetto alla vita sociale e diventano psicologicamente fragili, deboli. Ecco, sono quest ...[continua]

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