“La schiacciante popolarità di Bush, a dispetto di tutto, finalmente ci mostra chi veramente sono e sempre sono stati gli americani, che per tanto tempo abbiamo romanticizzato a la Norman Rockwell”.
Kurt Vonnegut, settembre 2004

Chi sono, dunque, gli americani all’indomani della rielezione di George W. Bush, “a dispetto di tutto”, i ben documentati scivoloni nella “Guerra al terrore”; il sanguinoso pantano iracheno; il “capitalismo intrallazzone” che così sfacciatamente è al servizio dei ricchi a spese della maggioranza, e ha prodotto deficit che peseranno sui nostri nipoti, e che impedisce anche il mantenimento della nostra infrastruttura fisica in via di deterioramento e delle nostre ormai logore protezioni sociali; l’assalto alle libertà civili; il degrado dell’ambiente; l’incombente crisi energetica, per non parlare della patente mediocrità e meschinità del candidato stesso? Gran parte dell’opinione pubblica è consapevole di questi problemi -i sondaggi indicano che più di metà degli americani sente che stiamo puntando nella direzione sbagliata- eppure il 2 novembre il presidente in carica ha vinto.

Mentre le acque si calmano, lo shock si stempera e le implicazioni cominciano a farsi sentire, gli oppositori dell’amministrazione propongono una spiegazione, prevalente sulle altre, per la delusione elettorale: il trionfo dei cosiddetti “valori morali” (che alcuni hanno definito “God, Guns, and Gays”) su preoccupazioni quali la guerra e l’economia. Infatti la macchina messa in moto da Bush ha riportato numeri record tra gli elettori cristiani evangelici, per i quali questioni come l’aborto e il matrimonio omosessuale fanno impallidire qualsiasi altra considerazione. Essi ammirano il presidente per la sua posizione in tali tematiche, e per la sua generale sicurezza e senso della “missione” rispetto al mondo -un approccio destinato ad avere spiacevoli conseguenze nella politica estera di questo secondo mandato...
Non sorprenderà gli europei che molti americani sappiano così poco del resto del mondo, esclusi gli stereotipi di un sistema mediatico, tanto iperattivo quanto sciovinista, e che credano che il loro paese sia una cittadella fortificata, con l’unico e “manifesto” destino di redimere le altre culture e distruggere i “malvagi”, con la tecnologia avanzata e la forza “giusta” -forza, le cui conseguenze vengono percepite solo nel modo più lontano e sterilizzato.
Le lezioni del Vietnam sui pericoli di questa visione del mondo sono state rigettate, respinte, e l’immaginario apocalittico, che da tempo ci perseguita, qui è vivo in un’ampia fascia della popolazione.

Lo spettro della paura di un nemico barbaro e senza faccia in agguato dietro ogni angolo è la chiave di lettura per comprendere la scelta della maggior parte dei 59 milioni che hanno votato per la “continuità” contro il cambiamento.
Dei nemici sicuramente ci sono, ma nei maschi bianchi e nelle cosiddette “mamme della sicurezza” di queste elezioni (che, come gli evangelici, sono ben lontani dalla complessità esterna al loro ambiente, il mondo delle sobborghi dei Suv e le piccole città degli stati rossi dell’“heartland”) pubblicità da milioni di dollari, che ricordavano le immagini delle Torri in fiamme, hanno rafforzato la convinzione che Bush col suo megafono tra le ceneri o sventolando il suo “missione compiuta” in uniforme da aviatore, fosse l’unico baluardo contro l’oscuro “altro” che minaccia i loro figli nel sonno.
E a nulla valgono i rapporti quotidiani sul caos e le vittime a Baghdad, Fallujah e Mosul, o le montagne di prove uscite da indagini ufficiali - la maggior parte degli elettori repubblicani restano convinti che Saddam fosse in combutta con Osama, che avesse le armi di distruzione di massa e che il resto del mondo abbia sostenuto l’invasione americana dell’Iraq!
La paura è un collante straordinario, come dice il proverbio, e gli elettori di Bush hanno finito con l’accettare, “a dispetto di tutto”, a un livello viscerale, e contro qualsiasi dissonanza cognitiva, la visione di Bush della realtà. Qualsiasi altra interpretazione era nel migliore dei casi ingenua, nel peggiore antipatriottica.

Nelle “autopsie” dopo le elezioni, i vinti hanno puntato il dito gli uni contro gli altri e i ben noti dibattiti circa l’anima e l’identità del movimento di opposizione sono riemersi. L’ala clintoniana del Partito Democratico, al solito, ha rivendicato la necessità di spostarsi più a destra per conquistare gli elettori incerti dell’“heartland” (gli Stati centrali, Ndr).
Tuttavia il candidato Kerry, pur essendo uomo capace e coraggioso, ha prestato troppo ascolto a questi appelli al “centrismo” e alla cautela, mettendo in sordina e insabbiando l’accusa alle politiche di Bush e permettendo alla falsa questione del “carattere” di distorcere la campagna elettorale. Più persuasivi risultano quelli che sostengono invece un ritorno al populismo economico militante della tradizione del partito.
Come col fenomeno Berlusconi in Italia, qui la domanda è perché la gente vota contro i propri stessi interessi, perché i combattivi disoccupati dell’Ohio hanno voluto perpetuare la loro condizione? Anche in questo periodo buio, c’è comunque molto da costruire a partire dalle elezioni del 2004 e resta incoraggiante che 56 milioni abbiano votato contro il “Presidente della Guerra” e a favore di un multilateralismo fuori e dell’equità in casa.
Ora la sfida, come Thomas Franks (autore di What’s the Matter with Kansas) e altri hanno spiegato, è di colpire questa alleanza innaturale tra i tutori della “moralità” e le forze della plutocrazia, la contraddizione fondamentale della coalizione repubblicana. E’ una posizione che sicuramente si rafforzerà quando i conti del primo mandato Bush inevitabilmente dovranno essere saldati in questo secondo.

Gregory Sumner
Detroit, 15 novembre 2004