Il 6 e 7 marzo a Parigi, si è tenuto un convegno internazionale dal titolo “Martirio e suicidio nell’islam contemporaneo”, organizzato dalla Maison Des Sciences de l’Homme, assieme al Cnrs e al Cadis (Centre d’analyse et d’intervention sociologique) e coordinato da Farhad Khosrokhavar. Riportiamo brani di alcuni degli interventi tenutisi in quell’occasione.

Da smertnik a shahid: le metamorfosi della morte eroica in Cecenia.
Intervento di Silvia Serrano*
Quando si parla di resistenza cecena subito balza agli occhi l’immagine delle donne con il velo, imbottite di esplosivi, che a Mosca prendono in ostaggio gli spettatori del teatro Dubrovka. Sono le shahidki, le “vedove nere”, “le fidanzate di Allah” come vengono definite dalla stampa russa, che seminano il terrore e infiammano l’immaginario russo. Effettivamente, su ventotto attacchi suicidi condotti da donne, fra il 2000 e il 2004, ben sedici sono stati condotti da cecene.
... I rischi impliciti in una lotta impari in precedenza venivano accettati dai boeviki, i combattenti ceceni, e dagli smertnik (dalla radice smrt “morte”), coloro, cioè, che sono decisi a impegnarsi nella lotta fino alla morte, ma era comunque assente la dimensione suicida. Non è un caso che, in tale dimensione, il sacrificio di sé si accompagni a rituali e messe in scena appartenenti a una religiosità importata dopo l’apertura delle frontiere dell’ex Unione Sovietica, e che sono in contrasto con la tradizione cecena.
... Illustrerò due avvenimenti eccezionali, che però ci permettono di capire l’articolazione esistente fra la rete internazionale e la rete cecena. Il primo è l’attentato suicida compiuto il 9 giugno 2000 da Hawa Barayev, una ragazza ventenne che si fece esplodere con un camion Ariete davanti ai locali provvisori delle Forze Speciali, ad Alkhan Kala, uccidendo ventisette soldati russi. Il secondo è l’attentato al teatro Dubrovka dell’ottobre 2002, la prima e, credo, unica, operazione condotta dai resistenti ceceni all’esterno dell’area del Caucaso del Nord. Cos’hanno in comune questi due avvenimenti? Entrambi testimoniano di una buona capacità organizzativa, della presenza del fattore religioso e di una capacità di mobilitazione di reti, sia in Cecenia che in territorio russo, e addirittura all’estero. Nel caso del teatro Dubrovka, si è trattato di un commando di una quarantina di persone (tra cui diciannove donne) che erano potute entrare a Mosca, introdurre armi dentro il teatro e mantenere contatti telefonici con l’esterno durante tutta l’azione di sequestro degli ostaggi. Nel caso di Hawa Barayev, certo, l’impatto logistico è minore, ma siamo comunque in presenza di un obiettivo militare ben identificato, di una preparazione meticolosa e dell’accettazione totale dell’attentato suicida. E non finisce qui: a luglio del 2000 vengono realizzati altri cinque attentati con camion trappola che presentano caratteristiche analoghe, dando l’impressione di trovarsi di fronte a un’organizzazione ben oleata, costituita da gruppi che mettono in pratica tattiche di guerra asimmetrica. Non è un caso, quindi, che i gruppi di resistenti decidano di utilizzare questo repertorio d’azione proprio in quel frangente. Nel 2000, infatti, siamo in un momento in cui l’armata russa controlla il territorio ceceno e la resistenza è molto indebolita. In quel contesto, gli attentati suicidi presentano un certo numero di vantaggi tattici, peraltro noti: sono in grado di far subire al nemico perdite importanti a fronte di un costo economico ridotto. E anche l’impiego di figure femminili ha una sua dimensione tattica: le donne passano più inosservate, superano più facilmente i checkpoint…
Inoltre la logica che sottostà a questi attentati è anche razionale. Era già successo infatti, durante il primo conflitto russo-ceceno, di riuscire a sbloccare la situazione con sequestri spettacolari, in seguito ai quali si era arrivati a un cessate il fuoco.
Entrambi gli eventi hanno poi in comune l’elemento religioso. Nel caso di Hawa Barayev ci sono le registrazioni prima dell’attentato in cui questa donna dice di voler morire martire. Nel caso del sequestro del Dubrovka, una delle prime cose che fanno i sequestratori è esibire bandiere e manifesti con dei versetti del Corano, le donne lunghe vesti nere, totalmente estranee all’abbigliamento ceceno e riconducibili in parte al bisogno tattico di anonimato ma, certamente, anche alla simbologia religiosa. E uso il termine “esibire” proprio perché, ...[continua]

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