La questione è la seguente: se gli israeliani davvero desiderano pace e sicurezza -“il diritto a essere normali”, come ha detto recentemente il primo ministro Ehud Olmert- allora perché si sono lasciati sfuggire ogni singola opportunità di porre fine al conflitto? Perché continuano a eleggere governi che, con modalità aggressive, portano avanti l’espansione delle colonie e il confronto militare con i palestinesi e i vicini di Israele, sebbene vogliano togliersi di dosso il fardello dell’Occupazione?

Nel corso degli ultimi 58 anni, i paesi arabi hanno avanzato numerose proposte di pace ai governi israeliani. Il re Abdullah di Giordania, con cui Israele aveva raggiunto un’intesa durante la guerra d’Indipendenza del ’48, si era impegnato in due anni di negoziazioni con Israele, manifestando anche la propria disponibilità a incontrare Ben Gurion, il “primo” Primo ministro del paese. Nel 1949, il leader siriano Husni Zaim dichiarò apertamente la sua disponibilità a diventare il primo leader arabo a siglare un trattato di pace con Israele, ma la sua richiesta, come quella dei successivi presidenti siriani, compreso Bashar al-Assad, fu respinta. L’egiziano Gamal Abdel Nasser, analogamente, avanzò diverse proposte a Ben Gurion e al primo ministro Moshe Sharett, ma alla fine rinunciò, allorché un giovane Ariel Sharon condusse un attacco contro una base militare egiziana a Gaza.

Nonostante l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) avesse formalmente riconosciuto Israele nel 1988, non riuscì mai a portare Israele a negoziare una vera soluzione a due stati, neppure durante il processo di Oslo. Forse la più grande opportunità persa risale all’operazione Scudo difensivo del 2002, quando l’allora primo ministro Sharon rifiutò di accettare un’offerta di riconoscimento, pace e integrazione regionale da parte della Lega Araba, in cambio del ritiro dai Territori Occupati. Solo due leader arabi, l’egiziano Anwar Sadat e il re di Giordania Hussein, riuscirono a ottenere che Israele, pur riluttante e spesso con delle resistenze, firmasse dei trattati di pace, e comunque solo grazie alla loro iniziativa.

Nonostante le relazioni altamente conflittuali con i vicini arabi, Israele è comunque riuscita a diventare una legittima parte del Medio Oriente. Ma questo fatto indica anche il problema. Israele non ha preso in considerazione l’offerta della Lega Araba del 2002 (anzi, ha insistito affinché gli americani la eliminassero dai punti di riferimento della Road Map, il piano di pace del presidente Bush) perché era vincolata alla fine dell’Occupazione. In modo prevedibile, Sharon ha risposto all’offerta con il ritiro da Gaza, così da assicurarsi il controllo sul West Bank, mentre il suo successore, il primo ministro Ehud Olmert, ha spinto per un piano di “convergenza” o “riallineamento” in base al quale Israele avrebbe annesso i “blocchi” di colonie più grandi e avrebbe chiuso i palestinesi all’interno di una serie di enclaves, trasformando così l’Occupazione in un controllo permanente.
Tutto questo è coerente con la politica in atto fin dai tempi di Ben Gurion, che sancisce che se Israele limita i suoi obiettivi al raggiungimento di un modus vivendi col mondo arabo, può garantire la sua sicurezza senza dover rinunciare al controllo sull’intera Terra a ovest del Giordano. Certamente scoppieranno conflitti occasionali, come quelli di Gaza o con gli Hezbollah in Libano. Tuttavia tali ostilità (così almeno si pensava prima dell’ultima debacle in Libano) possono essere contenute facilmente.

Una gestione del conflitto senza fine
Questa realpolitik di Israele si fonda su un approccio estremamente pragmatico verso il conflitto, analogo a ciò che gli inglesi definiscono muddling through (letteralmente “sfangarla”). Se Israele avesse avuto l’obiettivo di risolvere il conflitto con i palestinesi e cercare una vera pace e l’integrazione regionale, avrebbe potuto facilmente adottare politiche congrue a ottenere tale risultato. Ma l’obiettivo di Israele è una gestione del conflitto che mantenga un perpetuo “status quo”, e non la risoluzione del conflitto.
Il concetto di “muddling through” ben si adatta al tentativo di Israele di bilanciare ciò che non può essere bilanciato: un’espansione del territorio a spese dei palestinesi assieme al mantenimento di un livello accettabile di sicurezza e “tranquillità”. Questo permette a Israele di affrontare ogni sfida sul nascere, piuttosto che rinchiudersi in una stra ...[continua]

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