Lucio conobbe Silvio Corbari dopo l’8 settembre 1943. In quel periodo aveva lasciato Faenza, sua città d’origine, per stabilirsi temporaneamente a Rocca, presso certi suoi parenti. In seguito alla caduta di Mussolini, il 25 luglio, era rimasto implicato nell’uccisione di un fascista ed aveva dovuto cambiare aria per qualche tempo.
Veniva nel Borgo di Sopra a corteggiare la Maria di jaja sedeva sui gradini della casa detta della “Ciciliona”, chiaccherava e scherzava con la Maria, partecipava ai giochi dei ragazzini che sciamavano per il Borgo. Poi si allontanava fischiettando giù per la discesa che porta alla Piazza Grande. Lucio lo vedeva passare dalla finestra della sua casa ed era affascinato dal suo aspetto di ragazzone felice di essere al mondo. Era di altezza media, gli occhi chiari, la fronte spaziosa, i lineamenti piacevoli, il passo virile.
Un pomeriggio di quel periodo Corbari se ne stava seduto sul solito gradino a chiaccherare con la Maria quando questa, vedendo Lucio uscire dal cancello di casa, lo chiamò per chiedere notizie della sua ragazza, la Mori, sua intima amica. Lucio si avvicinò, le rispose e così scambiò qualche battuta anche con Corbari.
Alcuni giorni dopo Lucio lo rivide al solito posto: vestiva pantaloni di velluto, una “sahariana” come di moda a quei tempi e grosse scarpe militari vistosamente infangate. Corbari salutò e subito aggiunse: “comincia a tirare una brutta aria per noi giovani, io dico che è meglio prendere la strada dei monti”. L’argomento era estremamente delicato, ma la Maria evidentemente gli aveva detto come la pensava Lucio. Quest’ultimo si guardò attorno e disse titubante: “mi sembra un po’ presto, bisogna pensare agli altri giovani, convincerli alla causa antifascista, vincere la paura, organizzarli”. Lui tagliò corto: “molte cose le abbiamo già fatte, il resto lo faremo con le armi in pugno”. Cambiarono discorso, parlarono di Rocca, della sua gente, Corbari fece gli elogi delle ragazze. Salutò dicendo: la guerra ha rovinato tutto, c’è tanto di bello attorno a noi, chissà per quanto ancora riusciremo a godercelo...”
Quando Lucio lo rivide, qualche tempo dopo, già parlavano di lui e delle sue azioni spericolate, della sua audacia e della sua spietatezza, parlavano del partigiano imprendibile, della “primula rossa” della Romagna, alcuni con ammirazione altri con disprezzo. Un giorno di fine settembre, sulla “strada nuova” di Rocca (v. Saffi), Corbari ed altri partigiani spararono ad un tedesco in motocicletta e lo spogliarono delle armi. A Lucio non parve un’azione molto coraggiosa ed efficace. Il tedesco, un soldatone alto e biondo, molto bello e giovanissimo, ferito al ventre morì dopo un’agonia di alcune ore chiamando continuamente la mamma e fece una gran pena a tutti. Fu evitata una rappresaglia perché venne dimostrata la partecipazione sentita della gente al soccorso del ferito.
Non si capiva ancora la ferocia di quella lotta e, soprattutto, non si capiva l’esigenza vitale dei partigiani di procurarsi armi ad ogni costo.
Nell’inverno Corbari si era unito ad una ragazza a cui i fascisti, durante un rastrellamento, avevano bruciato la casa, ucciso un fratello e catturato il padre che poi morì in un lager tedesco. Il suo nome era Iris. I due, insieme ad uno sparuto gruppo di partigiani, si limitavano a compiere eclatanti azioni dimostrative. Corbari era ormai il più leggendario dei partigiani: le sue beffe, i tranelli, le azioni improvvise, gli audaci travestimenti, creavano lo scompiglio fra le fila repubblichine. Per gran parte della popolazione era un ribelle invincibile, per i fascisti un bandito sanguinario.
Michele vide l’Iris e Corbari in azione un giorno di fine marzo del 44. A Rocca era un avvenimento, a quei tempi, l’arrivo della corriera alle 13 e 15 da Forlì. La gente si intratteneva numerosa sulla piazzetta del capolinea in attesa dell’arrivo dei viaggiatori, dai quali ci si aspettava notizie e novità. Quel pomeriggio Lucio era nella piazzetta a curiosare insieme agli amici quando vide la Mori, che era centralinista al telefono pubblico situato poco distante, venirgli incontro con il volto teso. Lo chiamò in disparte ed agitata gli disse: “guarda vicino alla chiesina dei caduti, c’è Corbari con l’Iris”. E aggiunse “non dire niente agli altri”. Lucio guardò e riconobbe i due partigiani. Corbari con un vecchio berretto alla francese calcato sugli occhi, l’Iris con un cappellaccio a quattro acque. Sembravano dei poveri contadini. Mentre Lucio li osservava i due presero ad avvicinarsi a passi lenti ma sicuri alla piazzetta della fermata. Passandogli accanto Corbari strizzò un occhio e senza fermarsi si avviarono per il Borghetto che comunica con la Piazza Grande. “Che diavolo vorrà combinare” pensò “vanno a cacciarsi in un budello, come faranno ad uscirne?”. Il campanone aveva appena toccato l’una del pomeriggio e di lì a poco, con la corriera sarebbero arrivati anche i militi repubblichini di Rocca, di stanza a Forlì, armati fino ai denti. Lucio li seguì tenendosi a distanza. Intanto i due partigiani erano entrati in piazza e mentre erano nascosti dalla sua visuale, dalla parte del caffè Perla Michele sentì giungere due, quattro colpi di pistola e vide Corbari e l’Iris correre a ritroso, armi in pugno e col volto teso. Lucio non era riuscito a vedere cosa fosse successo, ma intuì il pericolo che stavano correndo. Se avessero continuato a ritirarsi in quella direzione si sarebbero imbattuti, con ogni probabilità, nei repubblichini appena scesi dalla corriera. Si mise in mezzo alla strada ed indicò loro il Vicolo di S. Maria che, costeggiando la chiesa parrocchiale, sbuca sulla “strada nuova”. Raccolsero il suo consiglio. Michele li seguì e, raggiunta la “strada nuova”, mostrò loro, a una distanza di 50 metri, lo stradello del “castellaccio” che, ancora oggi, in ripida salita, porta alla collina. Così fecero. Corbari, alzando la mano con cui ancora stringeva la pistola, fece un gesto di saluto e guidò l’Iris su per l’erta verso la salvezza.
Michele tornò in Piazza Grande. A terra, circondato da una folla di curiosi, in una pozza di sangue, davanti al caffé Perla, giaceva moribondo il maresciallo dei carabinieri, colpito al collo e alla spalla da 2 o 3 proiettili. I testimoni raccontarono che il maresciallo stava entrando nel caffé quando arrivarono i due partigiani. Corbari gli aveva intimato di alzare le mani. Il sottufficiale non aveva ubbidito ed aveva cercato di estrarre la pistola dalla fondina. L’Iris, senza esitare, aveva aperto il fuoco.
Lucio raccontò allora che anche lui si era trovato in pericolo. Disse che era stato obbligato sotto la minaccia delle armi ad indicare loro la via della fuga. Si fidava dei pochi che l’avevano visto collaborare coi partigiani e sperava che la sua versione non avrebbe suscitato dubbi fra le autorità. La cosa sembrò infatti chiudersi lì. Ma nelle settimane che seguirono la situazione si fece pesante. Un parente di Lucio che simpatizzava per i repubblichini lo avvertì che i fascisti stavano esaminando la sua posizione, chiedendo informazioni ed interrogando i testimoni di quel giorno. Lucio rimase in casa per un mese dichiarandosi malato. La gente del Borgo di Sopra e il dottor Vio avvallarono la versione. Poi la situazione si fece insostenibile. Il 10 di giugno con tre amici, Franco Bruno e Gino, Lucio decise di prendere la via della montagna e di raggiungere Corbari che intanto aveva ripreso la guerriglia a pieno ritmo.
Rocca era diventata pericolosa per i fascisti e per i tedeschi. All’ingresso del paese, sotto il cartello che indicava la località, ne era stato aggiunto un altro che avvisava: “achtung banditen”. Una mano sconosciuta aveva aggiunto in italiano “evviva” cercando di coprire la scritta “achtung”.
Quella mattina di giugno, dopo aver camminato per valli e canali, attraversato fossi e torrenti, i quattro riuscirono a trovare la Banda Corbari. Silvio e l’Iris, abbracciarono Lucio con calore. E così entrarono nelle fila del Battaglione O.R.I. (Organizzazione Resistenza Italiana), che non contò mai più di 40-50 elementi e che fu dichiarata, in un discorso che fece Corbari, apolitica e patriottica, impegnata soltanto nella lotta per liberare l’Italia dai tedeschi e dai fascisti.
Lucio volle sapere da Corbari quali fossero state le sue intenzioni il giorno dei fatti di Rocca. Gli disse che l’uccisione del maresciallo era stata una tragica fatalità e che lui aveva come unica intenzione di dimostrare coraggio e sprezzo del pericolo. Disse esattamente: “si possono demolire gli avversari e specialmente quei cagasotto dei repubblichini anche andando a prendere un caffé nel centro di un paese, l’ho fatto altre volte, tutta la Romagna ha simpatizzato con me, esagerando mi hanno considerato un eroe e nello stesso tempo hanno dileggiato i fascisti. Sono risultati che valgono quanto una battaglia vinta”. Lucio pensò che aveva ragione.
Due mesi dopo, il 18 agosto del 1944, in seguito ad una delazione, Corbari cadde in un agguato. Ferito a morte venne poi impiccato a Castrocaro insieme all’Iris, ad Adriano Casadei e a Tonino Spazzoli. I cadaveri vennero poi esposti a Forlì, impiccandoli una seconda volta ai lampioni della piazza Saffi. Silvio Corbari aveva 22 anni.
Otto giorni dopo, cinque partigiani del Battaglione O.R.I falciarono a raffiche di mitra tre militi delle brigate nere. In rappresaglia.