Pubblichiamo l’intervento di Goffredo Fofi alla presentazione della nuova edizione di Socialismo e libertà. L’avventura umana di Andrea Caffi, Gino Bianco, con prefazione di Alberto Moravia, Jouvence 2006.

Andrea Caffi è un personaggio singolare nella storia della cultura del Novecento europeo. Io l’ho visto citato o ne ho sentito parlare molto presto, senza però leggerlo; per me era soltanto un nome che qualcuno, ogni tanto, buttava lì in un articolo, in un dibattito, in una conversazione. Lo citavano Nicola Chiaromonte, Umberto Zanotti-Bianco (e scoprii più tardi all’Associazione per gli interessi del mezzogiorno d’Italia che Caffi aveva collaborato con Zanotti, dopo la fine della guerra mondiale, con inchieste sulla ex-Jugoslavia) e lo si citava quando si parlava della storia dell’Internazionale, a Mosca, o di Giustizia e Libertà, tra gli esuli parigini, o anche del Partito d’Azione, in cui militavano due donne d’eccezione, Lisa Foa e Natalia Ginzburg, entrambe legate alla storia di Caffi perché sorelle di due grandi amici-allievi di Caffi, Renzo Giua, che poi morì nella guerra di Spagna, e Mario Levi. Il terzo amico-allievo che aveva eletto Caffi a punto di riferimento fondamentale nella sua formazione politica, che restò suo amico fino alla morte e curò le prime raccolte della sua opera, fu appunto Nicola Chiaromonte. Nell’area degli ex GL si parlava di Caffi anche per le sue polemiche con Rosselli: era stato Caffi a scatenare con un suo articolo un po’ provocatorio un dibattito che andò avanti, nell’esilio, per diverso tempo, sul nostro Risorgimento, vituperato da Caffi, difeso da Rosselli. Quel dibattito coinvolse Salvemini, Calosso, Venturi e altri ancora, e la discussione chiamava ovviamente in causa anche le posizioni di Gobetti e di Gramsci. Anni dopo, con l’aiuto di un giovane storico milanese, abbiamo riproposto i pezzi di quel dibattito nella Piccola Biblioteca Morale della e/o, Pro e contro il Risorgimento. Nella stessa collana pubblicammo, per la cura del nostro amico Gino Bianco, una scelta essenziale di testi di Caffi, quattro saggi esemplari, con il titolo Critica della violenza. Ed è proprio al libro di Gino Bianco su Caffi che devo la mia personale scoperta di Caffi e l’amicizia con Gino. Se parlo di queste cose in prima persona è anche per ricordare quanto strani possano essere i modi in cui riscopriamo quei maestri che il pensiero politico e culturale dominante ci ha tenuto nascosti: il pensiero, diciamo così, comunista e democristiano ma anche liberale, di quel genere di liberalismo che, negli anni Cinquanta e fino a oggi, ha avuto molto a che fare con gli interessi del capitalismo e ben poco con il liberal-socialismo di Capitini o Calogero. Ho trovato la prima edizione del libro di Gino a Lambrate, nelle cantine di un amico forlivese, Sauro Sagradini, che vendeva per corrispondenza libri non venduti di tante case editrici diverse, e la cui rete si chiamava “Più libri”. Lo aiutavo a mettere insieme un catalogo ragionato, e davvero il suo magazzino era una miniera di libri importanti. Così, per poche migliaia di lire, mi portai a casa o nella redazione di “Linea d’ombra” una sessantina di copie del libro di Gino edito da Lerici, che regalai a collaboratori e amici perché anche loro conoscessero Caffi. E su “Linea d’ombra” pubblicammo varie cose sue, dapprima a cura del giovane Damascelli, figlio di Ester Fano, che era un appassionato cultore del nostro autore. Nella collana della rivista Caffi ispirò il volume che si chiamava, se ben ricordo, Pro o contro la violenza, e che comprendeva scritti di Marx, Engels, Guevara, eccetera, e naturalmente di Gandhi, Capitini, Mazzolari, eccetera.
Ma c’era un altro aspetto di Caffi a suscitare la mia curiosità, ridestato dalla lettura della onesta e bellissima prefazione di Moravia al libro di Gino. Qualcuno dei “vecchi” aveva parlato di Caffi come di colui che “aveva riscritto Gli indifferenti”. Non so più da chi avessi sentito questa battuta, perché di una battuta si trattava, ma la prefazione di Moravia spiegava molte cose. Probabilmente Caffi è stato uno dei primi a leggere il manoscritto del capolavoro di Moravia, e probabilmente deve avergli dato qualche consiglio, da russo, da grande lettore e da grande conoscitore dei classici russi e non russi. Che un ragazzo giovanissimo come era allora Moravia avesse potuto scrivere un capolavoro maturo come Gli indifferenti dovette sconcertare molti critici e lettori, e tirare in ballo Caffi dovette sembrare ad alcuni una spiegazione plausibile. Caffi -Moravia, Chiaromonte e naturalmente Gino Bianco lo sapevano bene- non era un intellettuale facilmente catalogabile, né semplicemente un letterato, né semplicemente un filosofo, o uno storico, o un sociologo, e neanche un politico, ma un po’ tutte queste cose insieme, e il suo magistero avveniva per conversazioni, socraticamente, più che per il tramite della scrittura. Ma era stato, ed era, anche un rivoluzionario, ed è stato anche grazie a lui che mi sono fatto la convinzione che la vera rivoluzione russa sia stata quella del 1905 più di quella del 1917. Io non sono mai stato attirato particolarmente dal marxismo, ho sempre creduto di più nella varietà del socialismo ottocentesco che nella monocultura del comunismo e della Terza Internazionale. La rivoluzione è importante, ma il “come” è essenziale e, insomma, il metodo è tutto. Fossi stato in Russia nel 1917, non so cosa sarei stato, forse un socialista rivoluzionario, forse un anarchico, forse perfino un menscevico, ma certamente non un bolscevico (quando dicevo queste cose negli anni Settanta, gli amici “gruppettari” mi guardavano come fossi un pazzo!). I bolscevichi fecero un golpe, la rivoluzione non la fecero certo da soli, e della rivoluzione si impossessarono con tutti i possibili trucchi della politika con la kappa... La grande rivoluzione russa, fallita anche quella, ma non “dall’interno”, era quindi per me e per molti militanti minoritari, di ispirazione socialista e non comunista, quella del 1905, come era anche per Caffi. L’anno scorso, l’anniversario del 1905 non è stato festeggiato da nessuno, in Russia e nemmeno qui. Il suo ricordo scotta, agli ex comunisti perché non di rivoluzione comunista si tratta, agli attuali “liberali” perché non amano nessun tipo di rivoluzione. Come non la amano ovviamente i mafiosi russi e i loro amici al governo.
Lenin e i bolscevichi, e poi, copiando da loro, gli storici sovietici, hanno parlato della rivoluzione del 1905 come di una caotica forma di agitazione popolare. Spesso non la si considerò neanche come una vera rivoluzione, però lo fu, e questa “rivolta popolare” segnò profondamente il pensiero di Caffi. In realtà, nell’ottica pluralista e democratica che fu del socialismo dell’800. Prima che arrivasse il marxismo a contrastarlo o a imbrigliarlo nel pensiero unico della seconda e soprattutto della terza internazionale, il socialismo era una forma di pensiero plurimo: c’erano molti socialismi, molte possibilità di partecipare alla trasformazione del mondo, molte chiavi di lettura diverse della storia e soprattutto molti modi di immaginare e preparare il futuro. E’ proprio per questo che quel pensiero plurimo è stato ucciso dal pensiero totalitario dei primi trent’anni del Novecento, e ci si libera adesso, con costi immensi e quando ormai è troppo tardi, dei danni della seconda e terza internazionale, della “scienza marxista”, dell’hegelismo statalista e accentratore, del “socialismo reale” e, insomma, del cosiddetto comunismo, un termine sacro, che niente ebbe a che fare con l’esperienza concreta, ma neanche con le idee dei sovietisti. Proprio per questo motivo, personaggi come Caffi, e molti altri come lui, ci tornano utili in questi anni per la loro lucidità nei confronti di questa storia e di queste violenze sulla storia, perché hanno continuato a pensare liberamente, e perché hanno attraversato il loro tempo senza piegarsi, senza scendere a compromessi.
Nel suo libro Gino Bianco cita con grande acume anche Hannah Arendt, che pure ebbe dei rapporti con Caffi per il tramite di Chiaromonte, di cui fu amicissima (e ci si ostina in Italia a non considerare Chiaromonte come merita, e cioè come uno dei massimi pensatori italiani del Novecento e forse il maggiore), e di “Politics”, la grande rivista americana di Dwight McDonald. Nella collana di e/o che ho già citato ripubblicammo anche il saggio di McDonald sulla cultura di massa, successivo agli scritti di Caffi sullo stesso argomento. E con quel gruppo ebbe a che fare un altro amico di Caffi, introdotto da Chiaromonte, allora esule negli Stati Uniti, di cui McDonald pubblicò molte cose su “Politics”, uno dei pochi autori europei a essere accolto come uno dei loro su questa rivista; Albert Camus. Caffi, Camus, Chiaromonte, Arendt, Benjamin, Anders (tra l’altro primo marito della Arendt), McDonald, Mary McCarthy, Auden, Lamberto Borghi, Silone e tanti altri: una corrente di pensiero variegata, ma con tantissime cose in comune e che andrebbe perciò studiata e ristudiata complessivamente, proprio come l’area euro-statunitense che, negli anni tra le due guerre e in quelli successivi alla seconda guerra mondiale, ha visto con più lucidità cosa stava accadendo, e come bisognava reagire. (Aggiungerei Malraux, fino alla Resistenza, i cui romanzi I conquistatori e La condizione umana sono delle pietre miliari su cui ragionare, per capire la tragedia delle rivoluzioni, e che oggi non legge più né la sinistra né la destra, e solo Chiaromonte ha cercato di farlo adeguatamente.) Un’amicizia da indagare, oltre quella Chiaromonte-Arendt (con le reciproche influenze), Chiaromonte-Malraux, Chiaromonte-Camus, è certamente quella tra Caffi e Camus, su cui sappiamo abbastanza poco, nonostante le biografie di Camus e quelle di Caffi. Alla Gallimard, Caffi fece quasi da segretario a Camus, si mantenne così per gli anni del dopoguerra; aveva infatti il compito di leggere libri e di segnalarglieli e sono convinto che abbia avuto qualcosa a che fare con la grande scoperta camusiana, il grande lavoro camusiano per la divulgazione dell’opera di Simone Weil.
Caffi, Hannah Arendt e Chiaromonte scrivevano assiduamente su “Politics”, ed è certamente avvertibile uno scambio tra le loro idee. Grande amica di Chiaromonte e di Miriam, la vedova di Nicola, si trovano nella sua corrispondenza con la McCarthy edita in italiano da Sellerio -un libro davvero appassionante- cose bellissime su Nicola. Non è un caso se Gino Bianco ha scritto, oltre alla biografia di Caffi, quella di Chiaromonte, con una mia prefazione che non è certo all’altezza del compito. Miriam, che è molto anziana e vive tuttora a Roma, è forse l’ultima grande testimone di quegli scambi, di quel gruppo. Nel circolo che orbitava attorno a “Politics” negli anni della Seconda Guerra Mondiale, si dibattevano argomenti che si sarebbero rivelati fondamentali per noi “posteri”. Ma ovviamente di queste cose ci si è accorti con enorme fatica: a) per l’inveterato provincialismo italiano, così attento alle mode, e per tanti anni alle mode delle letture “nuove” del marxismo, tuttavia preoccupate di non uscire dal seminato, aggiornando senza mai mettere in discussione l’essenziale; b) perché Caffi è morto nel pieno della “guerra fredda”, negli anni del trionfo della guerra fredda e del bipolarismo Usa-Urss. Mentre i teorici e storici del Pci, alcuni di loro anche in buona fede, dipendevano in qualche modo dall’ortodossia marxista e dal modello organizzativo del partito sovietico, persone come Caffi continuavano a ragionare in modo originale e autonomo sulla contemporaneità, sulla direzione presa dal mondo e dalla società umana, e la loro intelligenza del presente li portò a capire benissimo le trasformazioni che erano in atto e quelle che stavano arrivando, quelle trasformazioni di cui noi abbiamo cominciato ad accorgerci solo molto più tardi, osservandone gli effetti, e miopi sulle cause. Si vedano ad esempio le idee di Caffi sulle comunicazioni di massa e il peso che cominciavano ad avere.
Andrea Caffi è stato partecipe di una storia culturale enorme. In Russia fu segretario della Balabanov, quando quella era segretaria dell’Internazionale. Certamente non si era tirato fuori dalla nuova rivoluzione, dopo aver trascorso molti anni in galera per aver partecipato a quella del 1905. Visto quel che i bolscevichi facevano della rivoluzione, se ne andò via appena in tempo, prima di finire in Siberia, come accadde al suo amico Victor Serge, le cui Memorie di un rivoluzionario, che parlano anche di Caffi, tutti dovrebbero aver letto e se no leggere (le si trova ora nelle edizioni e/o). Tra Francia e Italia, ebbe rapporti con intellettuali politici e con intellettuali puri, con Souvarine come con Valéry, si occupò di “Commerce”, la rivista ideata da Valéry e finanziata da Marguerite Caetani, che più tardi finanziò a Roma una fondamentale rivista letteraria del nostro dopoguerra, “Botteghe Oscure”, e la fece dirigere con assoluta libertà ideologia -unica sua richiesta: l’alta qualità letteraria dei testi- da Giorgio Bassani. Le vie della storia sono strane: la Caetani era una ricca signora americana che aveva sposato un principe romano di quella famiglia che ha dato il nome alla via in cui venne ritrovato il cadavere di Moro, nei pressi delle Botteghe Oscure, sede del Pci, e di piazza del Gesù, sede della Dc. Ma la Caetani ebbe il merito di aiutare anche altre esperienze, per esempio il Movimento di collaborazione civica (Mcc), che annoverò tra i suoi fondatori e collaboratori personaggi del calibro di Guido e Maria Calogero, Frassineti, Silone, Angela Zucconi e tutta l’area “olivettiana” di Roma, che fece la scuola di scienze sociali del Cepas; e prestò il suo castello a Sermoneta per i corsi residenziali dei maestri dei Cemea, del Movimento di cooperazione educativa…
Non si finirebbe più di rintracciare collegamenti, scoprire nuovi sentieri e nuovi incroci, delineare mappe… Anche attraverso Caffi, essendo lui per di più legato alla storia politica e culturale russa, a quella francese, a quella italiana, possiamo delineare incroci di vitalità impressionante: politici, letterati, artisti, filosofi, di varie origini e provenienze. Caffi è il tipico intellettuale-non-intellettuale, che sfugge a qualsiasi rigida definizione. Non è un filosofo, non è un sociologo, non è un politico, non è letterato: è tutto questo e altro ancora. Rifugge dai lavori fissi, non ha l’ossessione della sedentarietà, è abituato agli esilii, alle fughe, a vivere negli alberghetti con poche lire, a farsi assistere, se necessario, dagli amici e ad assistere altri amici se necessario, a non venerare il denaro né la sicurezza. Secondo Moravia era forse omosessuale, ma non solo per questo sempre circondato da giovani che trovavano in lui un riferimento adulto, una disponibilità all’ascolto, una capacità di insegnare senza i dogmatismi e le retoriche dei “maestri” borghesi. Sempre in grado di attraversare la vita con scioltezza, con la capacità di stringere e mantenere rapporti molto forti con centinaia di persone, ma senza l’ossessione della regolarità, vive la condizione umana del rivoluzionario e, in quanto tale, come intellettuale, si concepisce diversamente dagli intellettuali del potere, dei poteri. E’ la storia a determinare i suoi spostamenti, a forzarli. Fra nord e sud della Francia, fra due rivoluzioni, fra due guerre mondiali, tra il fascismo italiano e il fronte popolare francese, in fuga da Parigi, tornato a Parigi…
Caffi ha attraversato il secolo con una duttilità straordinaria. E’ un intellettuale che scrive poco, ma parla molto e legge di tutto. Conoscendo varie lingue, alla Gallimard, se c’è da dare un giudizio su un libro russo, lo chiedono a lui, su uno spagnolo, lo chiedono a lui… Aveva quella che noi chiamiamo arte di arrangiarsi, ma pur sempre in campo intellettuale, la capacità di guadagnarsi il pane sfruttando quello che nel corso della vita ha dovuto e saputo imparare.
E’ tutto questo pensare e ragionare sulle cose che vedeva e leggeva, e sugli incontri che faceva, a renderlo un personaggio così affascinante; è proprio questa sua irregolarità, questa vivacità di cogliere da tante fonti diverse quei suggerimenti che messi insieme diventano pensiero, interpretazione del mondo, proposta, a contribuire al suo mito presso le persone che lo hanno frequentato e presso di noi che ne abbiamo letto o sentito parlare. Anche più dei suoi scritti, pure affascinanti, perché esprimono la stessa onnivora, e però ben centrata, capacità, una rara libertà e un’intima coerenza. I suoi saggi non sono mai stati molto “regolari”: sono sprazzi di intelligenza cui ne seguono altri, su temi differenti. Questa sua libertà gli permetteva però di capire cosa davvero accadesse nel mondo del suo tempo, in cui era vigile e attivo, di comprendere come le rivoluzioni possano produrre le controrivoluzioni con velocità impressionante; di capire che il male da combattere è il feticcio del potere e la violenza che ne deriva, e allo stesso modo che l’unico rimedio è il socialismo, che non è possibile fare a meno del socialismo.
Secondo Caffi, se si rinuncia al socialismo si rinuncia a tutto: al futuro, alla giustizia che è eguaglianza, alla verità, alla libertà, a tutto. Oggi in particolare, che abbiamo rinunciato a tutto in modi più o meno compiacenti, più o meno condizionati, questo discorso è estremamente importante, è più importante che mai. Credo che in Caffi si incrocino talmente tanti aspetti che si ha voglia di saperne sempre di più. Anche se la sua non è una produzione particolarmente corposa, quello che ha scritto è recuperabile, in biblioteca, nei libri curati da Chiaromonte, in quelli che ho già citato.
Vi invito inoltre a cercare la sua presenza in quel caleidoscopio di eventi, di storie, di memorie del secolo; una presenza costante, anche se in molti casi marginale. Anni fa mi capitò di trovare su una bancarella le memorie di Angelica Balabanov, una donna che mi capitò di vedere in vecchiaia, bassa e grassottella, sui palchi di certe grandi manifestazioni insieme a Nenni, a Di Vittorio, perché finì la sua vita attiva in Italia, come segretaria dell’Internazionale socialista; in esse si parlava anche di Caffi, che a Mosca era stato suo segretario. In un brano molto bello, la Balabanov racconta di quando si era recata a vedere un Checov di Stanislavskij a teatro, nello stesso palco di Lenin, e ho immaginato Caffi in piedi nel palco, nell’ombra, lungo e allampanato, con la sua figura dinoccolata, strana. In tutte le foto in cui compare insieme a qualcun altro, sembra sempre lui il fratello maggiore: così alto, con lo sguardo sempre attento, interessato a chi gli sta vicino, che è in genere di due palmi più basso di lui...
Il fascino di questi intellettuali non regolari, diffidenti verso ogni ideologia che si cementifica, è il fascino di uno che non dice “dopo la presa del potere, quando ci sarà il socialismo…”, perché per lui il socialismo va realizzato subito, nel modo di vivere il presente. Bisogna viverlo, il socialismo, subito, cominciare a vivere già oggi in modo socialista, dividendo quello che si ha con chi ha meno di noi, partecipando al dolore degli altri, dividendo con i simili e gli altri, liberandosi con loro…
Un personaggio così raro e moderno da lasciarci sbalorditi, se lo mettiamo a confronto con le biografie dei nostri leader, in particolare con quelli di oggi e con la loro corte di intellettuali.