30 giugno 2009. La mia gravidanza, ma non il mio bambino
Le Monde ha pubblicato un breve reportage di Anne Chemin sulla storia di un curioso quadro familiare raccolto a Stockport, alla periferia di Manchester.
Tina Lamont e Michelle Hymers sono due donne molto diverse. Michelle porta i capelli raccolti in uno chignon, un abito lungo e delle scarpe blu marino. Tina ha delle mèches rosso carminio che risaltano sulla t-shirt nera, e poi ama lo smalto rosa bonbon e ha un piercing sulla lingua, sulle braccia tre tatuaggi con i nomi dei tre bambini: Brooke, Halli e Caden.
Il nome di Jaimes non c’è: "Ovvio -spiega Tina- l’ho tenuto nella pancia, ma non è il mio bambino. Me ne sono resa conto il giorno in cui è avvenuto l’impianto nell’utero degli embrioni di Michelle e Martin. Ho seguito l’andamento nello schermo dello studio medico, ma ho sempre pensato: è la mia gravidanza, non il mio bambino. Ho provato dell’affetto, dell’attenzione, della benevolenza per lui, ma non sentimenti materni. E’ stato radicalmente diverso dalle mie gravidanze passate”.
Michelle Hymers e Tina Lamont si sono incontrate nel 2006. Michelle e il marito cercavano una madre "portatrice”. Dopo la nascita del loro figlio Robert, Michelle aveva dovuto subire un intervento che inibiva future gravidanze. Alcuni embrioni della coppia erano stati congelati nel 2001, ma entro cinque anni era prevista la loro distruzione.
Tina è venuta a sapere della storia da un’amica. "Tina mi ha chiamato e abbiamo parlato per due ore”, ricorda Michelle, 36 anni. Qualche giorno dopo le due donne si trovano in un parco giochi. Michelle è col figlio Robert, Tina con Brooke, Halli e il piccolo Caden, di sei mesi. Si decide per una cena con i rispettivi mariti. Tina è una giovane donna di 26 anni che nonostante il parto recente definisce il periodo di gravidanza in termini entusiastici, tant’è che vorrebbe ricominciare, senza però avere altri bambini. Il marito, agente di commercio, non è entusiasta, ma disponibile.
Comincia allora la formalizzazione dell’accordo che si estende fin nei minimi particolari. Il contratto definisce il numero di tentativi di impianto, la presenza di Michelle e del marito alle ecografie e al parto e una cena mensile tra le due coppie. Viene toccato anche un punto delicato: l’eventuale interruzione di gravidanza. Tina precisa che spetta a loro, non a lei, decidere perché saranno eventualmente loro a vivere con un figlio handicappato.
Viene infine contrattata una somma, in questo caso di circa 11.000 euro, da versare a Tina. La somma, vagliata da un giudice, deve coprire le spese mediche, i trasporti, l’abbigliamento pre-maman ecc. Risulta però subito evidente che la "compensazione” eccede nettamente le spese. Si tratta di fatto di una remunerazione.
Tina non ha problemi ad affermare che in effetti quei soldi le fanno comodo, è separata e fino a che Cadon non sarà in età da asilo non potrà tornare a fare la parrucchiera.
L’impianto dà esito positivo al primo tentativo. Si tratta di due gemelli, purtroppo però uno dei due muore al sesto mese. Per Tina è molto dura arrivare alla fine della gravidanza con quel corpicino senza vita nella pancia.
Il giorno della nascita di Jaimes, Michelle è a fianco di Tina, Martin, suo marito è in corridoio. Il marito di Tina si occupa dei loro bambini. Michelle ha subito preso in braccio il suo bambino. Grazie a un trattamento ha potuto allattarlo. Tina l’ha aiutata. L’hanno nutrito entrambe. Dopo tre settimane, Jaimes è uscito dalla clinica con i suoi genitori e prima di tutto hanno fatto visita a Tina. Oggi Jaimes ha due anni ed è legalmente figlio di Michelle e Martin. Tina non può accampare diritti su di lui. Ma rimarrà sempre parte della famiglia.
(www.lemonde.fr)

1 luglio 2009. Un solo Stato
"Uno di questi giorni, un presidente americano ci dirà: un solo Stato. Dopo altri tre mandati, in cui Bibi Netanyahu verrà confermato al potere, visti i continui fallimenti, il Presidente americano Eduardo S. Gonzales arriverà qui da Washington. Questo figlio di immigrati cubani, in cima a Masada, con Elie Wiesel e il presidente della Cina ai suoi lati, dichiarerà il suo inequivocabile sostegno alla soluzione dello stato unico. Bibi, vantando la sua grande esperienza e tremolante per l’età, insisterà: no, due Stati”.
Così comincia il racconto surreale, ma forse non troppo, di Yigal Sarna, pubblicato su Ynet news from Israel, che prosegue spiegando come il presidente americano, ormai esasperato, prima di partire avesse già lungamente consultato la sua biblioteca per vedere le possibili opzioni e variazioni della soluzione dei due stati, e che alla luce delle innumerevoli violazioni di Israele, dei coloni, del muro, degli accordi di Oslo mai rispettati, fosse giunto alla conclusione che l’unica soluzione che rimaneva era quella: un solo Stato per tutti, "uno stato in cui si parla ebraico e arabo, con una rotazione al Ministero della Difesa e due presidenti: Barghouti e Peres”.
Bibi insisterà, ma Gonzales gli ricorderà di tutti i "sì” mai concretizzati, di come fossero abili a togliere un posto di blocco, per poi piazzarne due, dei decenni vissuti come esistessero solo loro, con quattro milioni di palestinesi di fatto "trasparenti”.
"E’ tutto pronto”, gli spiegherà il Presidente: vivete assieme dal 1967, siete stati voi a creare questa situazione, nessuno conosce i palestinesi meglio di voi. L’unica cosa che resta da fare è lavorare sulla parità dei diritti civili e sull’integrazione. "Avete già posato ottime fondamenta per una vita assieme”. Ognuno conosce le bugie dell’altro e gli "zeloti” delle due parti, quelli delle moschee e quelli delle sinagoghe, si assomigliano parecchio. "Condividete anche il ricordo di un grave trauma e di periodi molto duri”. Alla fine del discorso, il Presidente leggerà alcune righe di una poesia di David Avidan e di un’altra di Mahmoud Darwish, dopodiché presenterà un piano biennale per smantellare l’attuale regime e dare vita allo stato unico: "Israpalestine”.
(www.ynetnews.com)

1 agosto 2009. Un mondo senza cibo
Nel numero di luglio de Le Scienze è stato pubblicato un lungo articolo di Lester R. Brown, considerato il guru dell’ambientalismo, fondatore del Worldwatch Institute e dell’Earth Policy Institute, sui rischi di "un mondo senza cibo”.
"In sei degli ultimi nove anni la produzione cerealicola mondiale non è stata al passo con il consumo, causando un costante consumo delle scorte. Quando è iniziato il raccolto del 2008, le scorte mondiali di cereali erano pari a 62 giorni di consumo”. Un record negativo. Se la situazione alimentare continua a deteriorarsi, a causa, tra l’altro, dell’abbassamento delle superfici freatiche, dell’erosione dei suoli e dell’aumento delle temperature, intere nazioni collasseranno.
Il quadro descritto è allarmante: "quando le persone affamate non sono in grado di acquistare cereali o di coltivarseli scendono in strada”. La lista degli Stati "in via di fallimento” si allunga. Il Failed States index del 2008 classificava come particolarmente critici: Somalia, Sudan, Zimbabwe, Ciad, Iraq, Congo, Afghanistan, Costa D’Avorio, Pakistan ecc.
Il problema degli Stati falliti è che se il governo non riesce più a garantire la sicurezza e i servizi essenziali, scoppia il caos sociale che significa: potenziale diffusione di malattie, formazione di un’oasi di protezione per terroristi e pirati (vedi la Somalia), traffico di droga e armi, estremismo politico, violenza e profughi.
All’origine della crisi alimentare c’è la siccità, la cui causa principale è l’irrigazione (indispensabile per le colture ad alta resa), la diminuzione di terra arabile (causata dall’urbanizzazione), la crescita demografica e l’aumento delle temperature.
Ulteriore elemento di aggravamento è la crescente domanda di biocombustibili per auto. Basti un solo dato: "Un quarto della produzione cerealicola statunitense del 2009, sufficiente a nutrire 129 milioni di americani (o mezzo miliardo di indiani ai livelli di consumo attuali), sarà destinato alle automobili. I cereali necessari a un pieno di etanolo per un Suv nutrirebbero una persona per un anno”.
Lester nell’articolo propone anche un piano B che prevede essenzialmente una forte riduzione delle emissioni di carbonio, la stabilizzazione della popolazione mondiale a otto miliardi entro il 2040, lo sradicamento della povertà e il ripristino di foreste, suolo e falde acquifere.
La posta in gioco è alta. Il rischio è il tracollo della nostra civiltà e purtroppo la risorsa più scarsa è il tempo.
(Le Scienze)

27 agosto 2009. Furto di moto
Zhang, un operaio addetto all’assemblaggio di motociclette in una fabbrica di Chongqing, è stato arrestato per aver rubato una moto. Un pezzo alla volta, nel corso di cinque anni.
Tutto è iniziato nel 2003. Avere una moto era da sempre un desiderio di Zhang, ma non aveva i soldi necessari. Di lì l’idea: portar via i singoli pezzi e assemblarseli a casa. Purtroppo, completata la sua moto, quasi subito si è imbattuto nella polizia che ha scoperto che non aveva né patente né i documenti della moto.
A Zhang non è rimasto che ammettere il furto e pagare una multa di circa 440 dollari. Oltre che ovviamente restituire la moto.
(www.ananova.com)

30 agosto 2009. Numeri
Nell’ottobre dello scorso anno, durante un meeting a Roma di dirigenti Sony è stato proiet­tato un video, divenuto famoso, con una sequenza di dati sulla globalizzazione e sull’influenza della tecnologia nella società. Il video era intitolato: did you know? Lo sapevate? Questo è un riassunto di quello che c’era nel video. Il dipartimento del lavoro Usa stima che gli studenti di oggi avranno fatto 10-14 lavori all’età di 38 anni. Un lavoratore su quattro è stato con il suo attuale lavoro per meno di un anno. Uno su due c’è stato per meno di cinque anni. I dieci lavori maggiormente richiesti nel 2010 non esistevano nel 2004. Nel 2008 sono state generate informazioni in un numero superiore ai precedenti 5000 anni. Il complesso delle novità tecnologiche raddoppia ogni due anni; per studenti che cominciano una scuola tecnica di quattro anni, metà di quello che studiano il primo anno sarà superato al terzo anno. Per raggiungere un’audience di mercato di 50 milioni di persone la radio ha impiegato 38 anni, la tv 13, internet 4, Ipod 3, Facebook 2. Ci sono 200 milioni di persone registrate su My Space; 31 miliardi di ricerche su Google ogni mese; nel 2006 erano state 2,7 miliardi. Il numero di messaggi di testo spediti e ricevuti ogni giorno supera il totale della popolazione del pianeta. Ntt Japan ha testato con successo un cavo a fibra ottica che porta, su ogni singolo filo, il corrispondente di 2660 cd o 210 milioni di chiamate telefoniche al secondo. Attualmente la portata delle telecomunicazioni triplica ogni sei mesi e ci si aspetta che lo faccia per i prossimi 20 anni. Nel 2013 potrà essere costruito un computer che supera la capacità di contenere e gestire informazioni del cervello umano.
Negli ultimi cinque minuti sono nati 67 bambini negli Usa, 274 in Cina, 395 in India.

5 settembre 2009. Cameron Todd Willingham
Cameron Todd Willingham era troppo pazzo o troppo innocente per accettare il patteggiamento che gli offrì la Procura. Disse chiaro e tondo che non avrebbe mai confessato una cosa non vera e che non avrebbe mai ammesso di avere ucciso le sue bambine, perché non era vero. Così lo processarono e lo condannarono a morte.
La tragedia ebbe inizio la mattina dell’antivigilia del Natale 1991, nella cittadina di Corsicana (Texas), quando la casetta di legno a un piano dove viveva la famiglia del disoccupato Cameron Todd Willingham prese fuoco.
Il padre si salvò, come la madre, che era alla Salvation Army per rimediare qualche regalino, ma la piccola Amber di due anni e le gemelle Karmon e Kameron di appena un anno morirono tra le fiamme. Il capo dei vigili del fuoco indagò sull’incendio e decise che era stato appiccato apposta e Willingham fu accusato di essersi liberato delle sue bambine in quel modo atroce. Willingham non era in grado di pagarsi una difesa decente, così si affidò a quella d’ufficio che è, non solo in Texas, un sicuro biglietto per il patibolo. Nella cittadina si era andata creando un’atmosfera da linciaggio quando, inaspettatamente, il Procuratore Jackson (una mosca bianca contraria alla pena capitale) propose a Willingham di scambiare la confessione con una condanna all’ergastolo.
Si chiama plea bargain (patteggiamento) ed è il motore della giustizia americana perché con esso si ottengono il 96% delle condanne e il 70% di quelle per omicidio. Ma Willingham fu irremovibile e andò incontro al suo destino. In due giorni lo dichiararono colpevole e lo condannarono a morte, anche grazie all’aiuto del solito psichiatra James Grigson (noto come Dottor Morte) e dell’immancabile jail snitch: un tizio di nome Johnny Webb che, in cambio della liberazione anticipata, testimoniò che Willingham gli aveva confessato l’assassinio delle figlie.
Nel complicato sistema giudiziario americano gli appelli si sono ridotti ad essere una revisione formalistica di quanto è accaduto al processo e il livello degli avvocati, cui il Texas affida questo difficilissimo compito, è così pateticamente basso da essere divenuto un caso internazionale. Un caso talmente grande da costringere il parlamento locale a istituire un ufficio di difensori pubblici. Comunque gli appelli di Willingham non ebbero alcun successo e la sentenza di morte rimase in piedi.
Il suo caso però interessò sia gli abolizionisti che il Chicago Tribune (il quotidiano che ha fatto una lunghissima serie di articoli sulla catastrofica situazione della giustizia americana) e, nel 2004, il noto esperto Gerald Hurst dichiarò che l’incendio era stato accidentale. Le autorità texane non gli diedero alcun peso, ma oggi è stata la Texas Forensic Science Commission a chiedere un rapporto al luminare Craig Beyler. E il suo rapporto è devastante: l’incendio non era doloso e Willingham è innocente. La Texas Forensic Science Commission non è nata per bontà d’animo, ma per porre rimedio alle abissali incompetenze che affliggono i laboratori di polizia dentro e fuori il Texas. Gli scandali, da quello di Oklahoma City a quello che portò alla chiusura dello Houston Police Department Laboratory, non si contano più e questo è stato uno dei motivi del drastico calo delle condanne capitali che si è visto negli ultimi anni: le giurie non sono più disposte a prendere per oro colato le affermazioni degli esperti della polizia.
Non so se la Commissione prenderà atto dell’evidenza e dichiarerà l’innocenza di Cameron Todd Willingham o se si ripeteranno i confusi farfugliamenti che abbiamo già sentito per Ruben Cantu, Carlos De Luna e Larry Griffin. Ma questo è certamente l’inizio della fine della pena di morte americana.
Purtroppo Cameron non sarà a gioirne con noi: il 17 febbraio 2004, nonostante i forti dubbi sulla sua colpevolezza, lo Stato del Texas lo ha mandato a raggiungere le sue bambine.
Dio salvi gli Stati Uniti d’America.
(Claudio Giusti, giusticlaudio@aliceposta.it)

10 settembre. I maestri di strada chiudono?
Il progetto Chance è a rischio. Dal primo settembre non ha docenti, non ha coordinamento, le attività proseguono con il solo contributo degli educatori e degli esperti professionali.
Per saperne di più potete seguire il nuovo blog http://maestridistrada.blogspot.com, dove oggi Cesare Moreno scrive:
Cari amici,
ripeto a voi quello che dico ad altri e lo ripeterò individualmente a tutti, che sentire buone parole è una cosa della massima importanza, quando si lavora in una sostanziale solitudine. Certo ci sono i momenti collettivi che ti aiutano, ma ogni giorno e ogni ora sei solo a dover prendere decisioni pesanti, a decidere se mollare o continuare, e sapere che qualcuno ti sostiene, che apprezza quello che fai, serve.
Per fare anche una proposta operativa: io penso che intorno al 15 ottobre, quando chiudiamo ufficialmente l’anno scolastico 2008/09 (in ritardo perché abbiamo cominciato tardi) faremo una qualche manifestazione pubblica. In quell’occasione sarebbe importante far pervenire testimonianze e prese di posizione.
Per i posti dove i nostri amici ci conoscono ma non il pubblico locale si potrebbe organizzare una qualche presentazione, anche in gruppi ristretti, in modo da restituire poi un pensiero, una frase che sia condivisa. Sto pensando a qualcosa che non sia un semplice sostegno a un’iniziativa, ma sia anche un’occasione per riflettere e modificare un po’ i propri atteggiamenti verso l’educazione, la scuola, gli emarginati. Si potrebbe utilizzare internet per tenere aggiornati tutti delle iniziative.
Le ultime informazioni sono quelle previste:
ufficialmente il progetto ha grandi prospettive, nella realtà sto continuando a girare per uffici come un mendicante per ottenere che si facciano i primi passi concreti; c’è una lentezza esasperante, una lenta erosione delle loro stesse dichiarazioni che è veramente stressante. Ci sono da fare scelte tecniche importanti, ma non c’è nessuna attività organizzata per occuparsene: ci sono io che continuo a tampinare tutti. E’ una vita che faccio questo e da un lato sono un po’ stufo, dall’altro ormai reagisco in automatico e in fondo non mi costa tanta fatica: basta non pensarci, basta non riflettere su quanto questo sia profondamente ingiusto e umiliante e si va avanti. Mi piacerebbe trovare uno slogan adatto. Non possiamo dire: "Non chiudete il progetto Chance” perché Bassolino ha già detto: "ghe pensi mi”; non possiamo dire: "Dateci i soldi” perché hanno detto che ci sono milioni per noi; non possiamo dire "difendiamo i posti di lavoro” perché il posto ce lo abbiamo. Ma si può sapere allora cosa volete?
Quando mi incatenai c’erano i disoccupati organizzati che stazionano in permanenza sotto la Regione; mi chiedevano: vuoi il lavoro? No! Vuoi un sussidio? No! Vuoi una Casa, un progetto... dopo tanti no non fecero più domande e scuotevano la testa come per dire: è matto.
Si può dire che vogliamo solo fare bene il nostro lavoro, si può chiedere solo rispetto, si può dire che vorremmo solo che la città si occupasse dei suoi figli in modo degno? Quale trattativa si potrebbe svolgere sulla dignità? Quale salario regionalmente differenziato serve per pagare il rispetto? Quale tangente sarebbe da riscuotere sotto banco?
In dodici anni di attività non siamo riusciti a farci capire; la nostra è la condizione del bambino che vorrebbe un po’ giocare, un po’ parlare, un po’ stare solo vicino ai genitori, ma questi rispondono sempre offrendogli una cosa, rimpinzandolo, comprandogli oggetti e diventa sempre più evidente che gli oggetti servono solo per tacitarlo, per metterlo in condizione di non parlare, di non avanzare richieste che sarebbero invasive rispetto allo spazio che i genitori intendono riservare solo a se stessi.
Ci servono delle manifestazioni immateriali, slogan evanescenti che facciano da contrappeso alla politica delle cose, ai milioni di euro che si moltiplicano e demoltiplicano di ora in ora, ai progetti tanto più grandiosi quanto più si ha il segreto pensiero di non realizzarli. Se ci aiutate a pensare una cosa di questo genere, se riusciamo a creare un battito d’ali di farfalla sufficientemente leggero da farsi sentire da Pechino a New York allora avremo una cosa preziosa non barattabile con i milioni di euro che qualcuno tirerà fuori prima o poi, con un incarico di consulenza che prima o poi ti propongono, con un piccolo avanzamento di potere che prima o poi ti propongono in cambio del fatto che tu sia troppo occupato a goderti i vantaggi di queste cose da non aver tempo e voglia per pensieri che, alleggeriti dell’oro, possono insinuarsi dappertutto.
Dunque ci serve un aiuto di questo tipo. Pensiamoci che prima o poi un’idea arriverà.
Grazie, Cesare
(http://maestridistrada.blogspot.com)

10 settembre 2009. Overqualified, overpaid, overaged
Il Wall Street Journal continua a seguire il destino dei tanti manager e professionisti (tutti con Master in Business Administration) che hanno perso il lavoro in questa crisi finanziaria globale.
Tra questi c’è John Brownrigg, già manager alla Corporex Companies Llc, una grossa compagnia legata al mercato immobiliare. John, 54 anni, è stato licenziato nell’agosto del 2008. Prima aveva lavorato alla General Electric, alla Ericsson e al Cincinnati Children’s Hospital Medical Center. Vive a Cincinnati, Ohio, con la moglie e due figli.
Nel suo blog oggi si legge il suo sfogo per essere continuamente definito overqualified, troppo qualificato. I siti invocano "grandi talenti”, "giocatori di squadra appassionati”, "campioni che lottano per essere il n.1” e poi...
"Cinque anni fa -racconta John- ho accettato un lavoro che non richiedeva tutte le mie capacità e che mi rendeva meno di quanto fossi abituato”. Al tempo tutti gli chiedevano perché volesse quella posizione, le ragioni erano personali e professionali e venivano accolte. Dopo poco il lavoro si era espanso contemplando anche le altre sue competenze. A beneficio del suo datore di lavoro.
Cos’è cambiato oggi? Si chiede John. "Ho due figli a cui complessivamente mancano 20 anni di studi, cerco una situazione lavorativa e esistenziale equilibrata. Mai come oggi apprezzo la stabilità, ho passato anni e anni ad acquisire competenze che hanno fatto migliorare l’attività dei miei datori di lavoro... cosa vuol dire che sono troppo qualificato?”.
E poi c’è la questione dell’overpaid. John è considerato anche "strapagato”. A poco serve che lui premetta che sa che il mondo è cambiato e che non cerca il livello e le posizioni che occupava in passato, niente da fare, la domanda sui suoi stipendi precedenti è sempre una trappola. Se non risponde risulta ostile e se risponde, la reazione è sempre quella: "Mi dispiace, non possiamo offrirle cifre simili”.
E poi c’è l’overage. John non ha vent’anni e neanche trenta, e da poco è stato scartato a favore di un giovane (e meno esperto) candidato, licenziato di lì a poche settimane perché rivelatosi di scarse competenze.
C’è qualcosa che non va.
(http://blogs.wsj.com/laidoff/)

13 settembre 2009
In Iraq gli islamisti hanno usato internet per scovare e poi uccidere alcuni omosessuali.
Abu Hamizi, 22 anni, passa sei ore al giorno alla ricerca di chatroom legate a siti gay. "Non cerca nuovi amici, ma vittime” spiega l’articolo del Guardian. Pare sia il modo più facile per individuare chi vuole "distruggere l’islam e sporcare la sua immagine”.
Hamizi è laureato in informatica ed è a capo di una nuova ondata di violenze che dall’inizio dell’anno ha portato all’uccisione di almeno 130 persone. Il leader del gruppo ha spiegato all’Observer che ai predestinati viene offerta la possibilità di chiedere perdono a dio. Queste atrocità stanno mettendo a dura prova il nuovo governo, chiamato a rispondere sulla tutela dei diritti delle minoranze.
Per qualche analista queste violenze si spiegherebbero con il "successo” di al-Maliki. Ora che la polizia comincia a garantire l’ordine pubblico, queste milizie si sono spostate sulla sfera morale. L’omosessualità non era criminalizzata sotto Saddam. Le aggressioni sono cominciate dopo l’invasione del 2003. Dal 2004 sarebbero stati uccisi 680 omosessuali iracheni. Così l’Iraq è diventato il posto peggiore sulla terra per gli omosessuali.
Le violenze vedono il coinvolgimento anche delle tribù locali. Pare che in alcune aree liste di nomi vengano appese in ristoranti e negozi.
Secondo Human Rights Watch, la milizia sciita nota con il nome di esercito Mahdi sarebbe impegnata in queste azioni, in particolare nella zona a nord di Baghdad, Sadr City. Pare che tra le vittime siano scelti anche uomini con la sola colpa di vestirsi all’occidentale.
Hashim, una delle vittime delle violenze, è stato aggredito in Abu Nawas Street, famosa per ristoranti e locali, zona "moderna”. Eppure proprio lì Hashim è stato assalito da quattro uomini, gli è stato tagliato un dito. I suoi aggressori gli hanno lasciato una lettera in cui gli si intimava -entro un mese- di sposarsi e iniziare una vita "secondo la tradizione”. Pena la morte.
(www.guardian.co.uk/)

17 settembre 2009. Organi
A fine agosto sono comparsi sui giornali italiani gli echi di una polemica tra il governo svedese e l’ambasciata e il governo israeliani in seguito ad un articolo comparso su "Aftonbladet”. L’articolo riferiva la denuncia dei parenti di un giovane palestinese vittima di un omicidio mirato al trapianto illegale degli organi del ragazzo morente.
Ne sono seguite: la richiesta israeliana di sanzionare il giornale, che non aveva controllato prima di pubblicare; la difesa della libertà di stampa da parte del governo svedese; repliche ed accuse di antisemitismo; articoli vari sulla stampa israeliana. La controversia mi ha coinvolto emotivamente più del solito perché l’accusa di trapianto abusivo, forse omicida, di organi, da persone particolarmente emarginate, non assistite da una famiglia attenta, è ricorrente anche qui. Improbabile ma ricorrente.
Anni fa, un ragazzo marocchino fu investito da un’automobile e morì dopo una lunga degenza in uno degli ospedali maggiori di Torino. L’incarico di rimpatriare la salma fu affidato dalla famiglia, residente in Marocco, ad un mio amico marocchino, che aveva seguito un po’ il ferito in ospedale, dove era ricoverato in terapia intensiva, come si fa qualche volta tra concittadini. Il mio amico e sua moglie mi dissero che loro si erano convinti che il ragazzo non fosse morto di morte naturale; che il cadavere era tutto tagliato e ricucito; che ne avevano parlato con una infermiera e che anche lei era convinta che gli avessero tolto gli organi per trapiantarli.
Accidenti! Era un abuso su un paziente in stato di morte cerebrale, senza che ci fosse il consenso dei parenti, che non erano in Italia? Chi aveva accertato la morte cerebrale? Era, di fatto, un omicidio? Era una balla colossale -una semplice autopsia? E l’infermiera? Bisognava denunciare tutto alla magistratura?
Pensai che una cosa così non si potesse lasciar cadere; ma neanche precipitare con una denuncia senza basi fattuali. Proposi una riunione tra il mio amico, sua moglie, il direttore sanitario di un grande ospedale, un medico noto anche come autore, e me, per presentare gli uni agli altri. Il mio amico marocchino, in quanto fiduciario della famiglia, disponeva di una copia della cartella clinica. I medici perciò potevano ragionare su una descrizione dettagliata delle condizioni del paziente e degli interventi.
La prima cosa a sparire fu l’infermiera, che non lavorava a Torino, non conosceva i fatti e riecheggiava solo una convinzione, secondo lei, diffusa.
I dettagli della cartella però escludevano che potesse esserci stato un abuso: gli interventi erano stati tutti adeguati, il ragazzo non era morto a cuore battente; in ogni caso molti organi erano lesi. Secondo i due medici, in quelle condizioni, l’unico trapianto possibile sarebbe stato quello delle cornee, che quell’ospedale lì non era attrezzato ed autorizzato a fare. E poi nessuno aveva notato qualcosa di strano agli occhi. O tutta la documentazione era un falso, un atto di malavita, che presupponeva una rete di malavita, oppure non c’era nulla da eccepire. Tornammo a casa tutti convinti che le cure erano state adeguate; che i medici avevano fatto ciò che dovevano fare.
Io però, se non avessi conosciuto due medici universalmente stimati, particolarmente attenti e competenti, se non ci fosse stata la cartella clinica, avrei denunciato o consigliato di denunciare. Fossi stato un giornalista, senza possibilità di accedere a un bel nulla, avrei scritto; dicendo, come l’articolo diceva, che si trattava della denuncia dei parenti, senza controllo di terzi. E il problema dei trapianti esiste. Soprattutto dei trapianti da viventi, per gli organi doppi; per i trapianti di parti di organo; per le trasfusioni di sangue. Quello che può essere un dono straordinario se è fatto per affetto, per salvare la vita di una persona cara, a rischio della vita propria, diventa atroce se è la vendita di una parte del proprio corpo per necessità. Il commercio del sangue e degli organi è però legale in molti paesi e riguarda sotto banco quasi tutti i paesi. "Lancet” ha pubblicato sul tema un drammatico articolo di Nancy Sheper-Hughes, cofondatrice di Organs Watch leggibile in:
www.juragentium.it, Palestina, sezione 18.
Quando la disuguaglianza diventa estrema il mondo implode e quelli che stanno in basso pensano che chi sta in alto può fare tutto di loro, anche mangiarli vivi, ucciderli per prendergli una parte di corpo; nascono leggende metropolitane che sono il segno di quanto in basso sia finita non solo la solidarietà ma anche la semplice conoscenza.
(Francesco Ciafaloni)

18 settembre 2009. Orthorexis nervosa
Sul Südtiroler Tageszeitung del 10 settembre si poteva leggere che nell’ambulatorio per malattie legate alla nutrizione messo in piedi dalla piccola Asl di Merano, sono attualmente in cura 129 pazienti, per il 95% donne dai 10 ai 45 anni. I maschi sono meno propensi a farsi curare. Ma c’è una lista d’attesa. Le patologie più note e trattate sono l’anoressia, la bulimia e una mescolanza tra le due. Le cure hanno esiti buoni per il 50-60% dei casi.
Nel 1997 il dr. Steven Bratman ha individuato una nuova patologia, non ancora scientificamente fondata, che viene definita Orthorexis nervosa (da orthos-giusta, orexis-appetito). Sempre più persone sono ossessionate dalla paura della malattia e la mettono in relazione con la qualità della loro alimentazione. Vogliono evitare cibi non sani e si autopuniscono con regole alimentari sempre più rigorose, fino a preferire l’astinenza.
Alcuni sintomi rilevati: dedichi più di tre ore al giorno alla scelta del cibo. Pianifichi diversi giorni in anticipo il tuo programma alimentare. Rinunci al piacere dei cibi prima preferiti. Ti allontani da amici e familiari che hanno convinzioni diverse in proposito. Ti senti in colpa se non osservi la dieta che ti sei imposta e mangi cibi definiti proibiti.
Dicono gli esperti che in questo modo si crea un’autodifesa dal proliferare degli scandali alimentari e dall’allarme sulla poca qualità del cibo in commercio. E si esprime un bisogno intimo di controllare rigorosamente almeno una parte della propria vita, che è da altri più in generale determinata.
La paura della malattia come malattia.
(Edi Rabini)