Neppure individuarla sulla carta è facile. Giù giù, a sud di Mosca, regione di Voronez. Fino a che un puntino compare nel vuoto di una desolata carta geografica: eccola qui, Rossosch grande quanto basta per farne uno snodo di strade.
Arrivarci attraverso Mosca richiede quasi due giorni di viaggio e man mano che ci si avvicina, nella notte infinita, diradano le luci del paesaggio. Così come i boschi e la vegetazione lasciano spazio al vuoto. Lo si avverte dal fischio del treno, che impercettibilmente si fa più vago e astratto, dall’odore aspro e secco dell’aria. Allo spuntare livido del giorno si comprende di essere atterrati in un altro mondo. Un mondo lontano e dimenticato, ma forse semplicemente in attesa di riavvolgerci tutti. Il fumigare di una nebbia indefinita, il bagliore vago di qualche copertura metallica, giganteschi tralicci di legno conficcati nel cielo. E man mano che la notte schiarisce in una luce che non trionfa mai, iniziano a intravvedersi sempre più fitti, come funghi spuntati dal terreno, casupole dai colori invecchiati, i tetti di eternit, le antenne che strappano all’etere la loro pretesa di esistere, di essere un pezzetto di mondo.
La stazione di Rossosch, sulla cui facciata è segnata la data 1871, accoglie il viaggiatore con la sua antica, disincantata, strapazzata eleganza.
"La cittadina sembra uscita da un racconto di Cechov” mi aveva avvisata Gianna, l’amica che mi aspettava laggiù. E mentre in taxi percorriamo la strada lungo cui si dipana il paese, mi chiedo se queste vie ricoperte di una patina greve, fatta di trascuratezza, sporcizia, disprezzo, avvilimento, abbiano mai conosciuto tempi migliori.
Rossosch ha l’aspetto di un villaggio spalmato su un’immensa distesa dai contorni sfumati. Casette di legno e plastica, dalle vernici scortecciate e gonfie, i cumuli di polvere annidati in ogni fessura. Sopravvive qua e là qualche vecchia costruzione in pietra, approdata miracolosamente da spaventosi naufragi.
Case che a volte sembrano disabitate ma poi, passandoci a fianco ogni giorno, ti accorgi di un qualche vasetto da cui spunta un arbusto, che prima non c’era, di una finestra appena accostata. Fino a incappare in una vecchietta che esce, infagottata anche in estate, curva, gli occhi come fessure nel viso grinzoso. Eppure sorride. Sorride gratuitamente anche a me che la guardo e mi chiede con cortesia da dove vengo, perché che sia una straniera è palese, anche se per pigrizia ho assunto una certa trascuratezza orientale.
"Oh, Italja!”…esclama, senza alcuna invidia. Come se semplicemente arrotolasse in bocca una parola buona. E paradossalmente io, che vivo con insofferenza e fastidio le mille incongruenze del mio paese, riscopro un orgoglio che non sapevo di avere.
Nonostante l’atmosfera campagnola, Rossosch non è un centro tanto piccolo, contando fra gli 80 e i 90 mila abitanti. L’amministratore Malakov ne vanta gli indiscutibili pregi: commerci e industria attivi, disoccupazione quasi inesistente, servizi ottimi, aria pulita… se non fosse che la gente non si accontenta mai.
La città ha alcuni grossi complessi industriali legati soprattutto all’agricoltura. Una grande fabbrica di fertilizzanti e concimi dava lavoro prima della caduta dell’Urss a circa 5000 dipendenti. Oggi appare come un enorme agglomerato di impianti semifatiscenti, incrostati di ruggine e di polveri. Ma è stata da poco rilevata da una holding svedese che sta procedendo a una ristrutturazione con conseguente riduzione del numero dei dipendenti. Non è facile trovarvi lavoro, lamentano alcuni abitanti di Rossosch, senza protezioni e raccomandazioni.
Lena, una bella ragazza di circa 30 anni, laureata, due bambini, separata, ha dovuto rinunciare al figlio maggiore perché non è in grado di provvedere a entrambi. Da quando ha perso il lavoro è tornata nella casa dei genitori, a dividere una minuscola pensione e un orto. Nessuna prospettiva per lei, perché, racconta, non ha parenti o amici che contano. Niente da offrire in cambio.
La corruzione e l’abuso sembrano continuare a far parte della società russa. Un sistema che anche noi conosciamo, del resto.
Per molti mesi, nel momento acuto della crisi, i dipendenti sono rimasti senza stipendio e nessuno ha osato protestare. Chi lo fa viene tagliato fuori dal mercato del lavoro, e già così le prospettive sono misere.
Buona parte dell’economia gira attorno all’agricoltura, che lentamente sta passando dalla struttura del kolchoz a quella dell ...[continua]

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