Cari amici,
Il 14 gennaio scorso si sono tenute le elezioni presidenziali a Taiwan, per la quinta volta nella storia dell’isola. Si tratta, anche dopo sedici anni dalle prime elezioni a suffragio universale libero e democratico, di un evento straordinario: l’unica località di cultura cinese dove le elezioni si possono tenere, sostenute da una stampa libera e un sistema giudiziario per lo più indipendente. Talmente straordinario, che non si contano le iperboli: uniche elezioni in cinquemila anni di storia cinese, dicono in tanti -e anch’io sono così entusiasta di quello che Taiwan ha saputo fare di se stessa che sarei tentata di usare la stessa espressione, se non fosse che quei "cinquemila anni di storia” sono un po’ uno sproposito, per cui lascio stare.

Per un caso di cui sono fiera, sono stata a Taiwan ad ogni elezione: le prime, nel 1996, sono state elettrizzanti. Il Partito Nazionalista, il Kuomintang (Kmt), in una decina di anni si era riformato in modo profondo, allentando via via le maglie del controllo sulla società civile e sulle opposizioni politiche, ed aveva accettato la democrazia. Pechino all’epoca aveva perso la testa, rispondendo con delle missilate buttate nello stretto di Formosa sperando di intimidire gli elettori, facendo una pessima figura. Quattro anni dopo, ancora "peggio” dal punto di vista cinese: vinse Chen Shui-bian, ex-avvocato dissidente con alcuni anni di prigione alle spalle per aver sfidato il monopolio del potere del Kuomintang, che fu poi rieletto nel 2004, per quanto con una popolarità decrescente in seguito a una misteriosa sparatoria a tutt’oggi piena di misteri, che lo lasciò leggermente ferito al ventre. Oggi, Chen sconta una lunga detenzione per corruzione, ma i suoi due mandati hanno costretto il Kuomintang a starsene all’opposizione per otto anni, e l’idea di un’alternanza di governo è ormai parte integrante della coscienza politica taiwanese. Le ultime elezioni si sono concluse con la rielezione di Ma Ying-jeou, del Kmt, in un’atmosfera calma e serena, con un’affluenza alle urne quasi dell’80%, e una maturità politica davvero ammirevole. Entrambi i candidati erano persone decenti, Ma e la sua rivale Tsai Ying-wen hanno portato avanti dibattiti intelligenti e capaci di mostrare una certa visione per il futuro, e di avere del tutto interiorizzato l’importanza di mantenere le strutture democratiche taiwanesi.

Ora, non voglio darvi un’impressione troppo abbagliata di quello che avviene nell’Isola di Formosa, i problemi ci sono eccome, ma secondo me impallidiscono davanti a quello che è stato conquistato -e che molti sono consapevoli debba essere protetto. In teoria Taipei e Pechino sono ancora in guerra (breve riassunto: nel 1949 la guerra civile cinese si concluse, non con un trattato di pace, ma con la fuga a Taiwan di Chiang Kai-shek, e l’insediarsi a Pechino di Mao Zedong. Chiang aveva sperato di recuperare le forze e lanciare una riconquista dell’intera Cina dall’isola, ma se un po’ per volta l’idea perse valore, ufficialmente Taipei è la capitale della Repubblica Cinese, erede della rivoluzione repubblicana del 1911. Pechino invece è la capitale della Repubblica Popolare Cinese, e le due entità sarebbero teoricamente ancora in guerra). In realtà, sotto l’attuale presidente, il riavvicinamento fra i due poli è stato significativo, a livello economico almeno: sono stati riaperti i "tre collegamenti” postali, aerei e navali, che erano rimasti sospesi per cinquant’anni. Sono stati autorizzati i turisti, di gruppo e individuali, e l’anno accademico in corso ha perfino visto mille studenti cinesi iscriversi agli atenei taiwanesi, dove sono ben esposti al pluralismo politico dell’isola. Poi, gli scambi commerciali sono ormai molto intensi, e ora, secondo alcuni, visto che una maggiore integrazione politica resta decisamente impopolare, si potrebbe passare a un dialogo culturale più intenso. Vedremo.

Quello che si vede invece già ora è come Taiwan presenti oggi una sorta di modernità cinese che non ha rinnegato il suo passato -dato che non c’è stata la distruzione feroce del patrimonio culturale nazionale come avvenne durante le varie campagne maoiste- e non viva immersa nel nazionalismo.
Poi, la tragedia secondo me è che nessuno da alcun peso a Taiwan. Il diktat di Pechino che impedisce a questa democrazia così dinamica e interessante di avere un posto più importante nella comunità internazionale è accettato senza altre giustificazioni se non il fatto che i cinesi sono fatti così, e sono un partner commerciale troppo importante per farli irritare.
Invece, proprio la gioia con cui Taiwan vota, la serenità con cui vengono espresse opinioni contrastanti, e la capacità di aprirsi al mondo senza per questo rinnegare se stessi sono la prova che non c’è nulla, ma proprio nulla, nel dna cinese che sia incompatibile con la democrazia. Un’ovvietà? Certo, ma andatela a spiegare a tutti quegli uomini d’affari, diplomatici, politici e propagandisti cinesi che cercano disperatamente di invocare una specificità culturale che renderebbe i cinesi allergici a un governo più giusto. Così, tanto per fare.