Anna Bravo, storica di professione, vive e lavora a Torino. Il libro cui si fa riferimento nell’intervista è In guerra senza armi. Storie di donne. 1940-1945, di Anna Bravo e Anna Maria Bruzzone, uscito recentemente da Laterza.

La donna nella Resistenza come è stata considerata? Qual è il ruolo che durante la lotta di liberazione, e dopo, le si è attribuito?
In primo luogo, le donne sono definite come contributrici, abitualmente si parla del "contributo delle donne alla Resistenza". Ora, contributo vuol dire che qualcuno, che sta in secondo piano, dà un apporto, un supporto, a qualcosa che già preesiste. Questo dipende proprio dalla concettualizzazione che si fa del termine Resistenza: nella storiografia e anche nella celebrazione la Resistenza è nominata al singolare, il resistente è chi prende le armi e se ne va in montagna, in collina o a fare il Gap in città. Non che manchino del tutto immagini femminili fortemente simboliche, basta pensare al famoso manifesto dove ci sono tre donne con il mitra, con quella del mezzo molto bella, giovane, ma la figura di riferimento resta quella del partigiano giovane, maschio, del centro-nord. Io credo, invece, che il termine resistenza andrebbe sempre pensato al plurale proprio perché ci fu una pluralità di atteggiamenti antagonisti al fascismo e al nazismo che non possono essere considerati solo un orizzonte, un contesto favorevole o un supporto alla lotta armata.
Sembra anche banale dirlo, ma non mi sembra del tutto scontato nella storiografia della Resistenza: il concetto di Resistenza andrebbe molto più "complicato" perché non soltanto la politica non si esaurisce nell’azione delle avanguardie organizzate, ma soprattutto il comportamento attivo non è solo quello che si fa con le armi. Invece per indicare le forme di lotta non armata si usa ancora il termine resistenza passiva che per la nostra cultura è svalutante e ingeneroso se si pensa a cosa voleva dire disobbedire nell’Europa occupata: fare uno sciopero, sabotare la produzione oppure nascondere un prigioniero alleato comportavano la pena di morte. Come si fa a chiamare passivo un atteggiamento simile? Questo accento esclusivo sulle armi, secondo me, offusca la complessità della stessa resistenza armata e tra l’altro dà adito all’idea che la resistenza civile o non armata, siccome è stata rivendicata quasi solo dai cattolici, sia anche stata fatta solo da loro, in uno schema in cui, appunto, da una parte c’è la durezza e la ferocia, anche, delle sinistre e dei comunisti in armi, dall’altra la pietas della gente comune, delle donne, dei cattolici. La resistenza civile, invece, fu un fenomeno che attraversò tutti gli schieramenti: la stessa persona che poteva fare uno scontro durissimo, magari si sforzava di contenere la violenza, aiutava un perseguitato, cercava di prendersi cura del corpo del nemico.
Anche recentemente da parte cattolica si è riproposto un quadro in cui ai partigiani violenti contrappone le madri e il vescovo, difensore della pace, che sarebbe l’autentico esempio di resistente. In realtà le donne di cui parliamo nel nostro libro a volte sono in disaccordo coi partigiani, a volte interloquiscono con la Resistenza quando, per esempio, cercano di evitare che la violenza si estenda a persone che secondo loro sono meno colpevoli, ma, comunque, stanno dalla parte della Resistenza. Sono donne che magari avevano il figlio partigiano ma che non volevano che fosse ammazzato quel certo soldato della Wehrmacht o quel certo fascista che ritenevano innocuo. Non erano necessariamente tutte mamme cattoliche, "madri dolorose", erano persone che tendevano a distinguere l’individuo dallo schieramento cui apparteneva, a graduare le responsabilità, la violenza, la punizione. Il famoso vescovo defensor pacis, lui sì, invece, che è al di sopra delle parti e questo sarà anche il suo mestiere, ma non può essere lui a rappresentare resistenza e antifascismo.
La fissazione sull’aspetto belligerante impoverisce anche la figura maschile del partigiano stesso, come poi, in fondo, impoverisce la figura del soldato in generale. Come non regge l’assimilazione stereotipata tra donne e pace, non regge neanche quella fra uomini e guerra, non solo nella Resistenza ma anche, per esempio, nella prima guerra mondiale. A me ha colpito tantissimo leggere come i soldati, in tutti i fronti, si organizzassero le tregue autonomamente: decidevano che non si sparava in un certo settore di trincea, e questo per ricavarsi un ...[continua]

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