André Glucksmann, filosofo francese, ha recentemente pubblicato il libro dal titolo De Gaulle où es-tu?, ed. JCL., Parigi '95.

Perché secondo lei sulla Bosnia non c’è stata in Europa una mobilitazione dell’opinione pubblica, e degli intellettuali, adeguata a ciò che stava succedendo?
Non mitizzerei più di tanto la mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale perché avviene sempre in ritardo ed è in genere estremamente contraddittoria. Credo sia giusta la frase di De Gaulle: "Gli incendiari sono sempre in vantaggio sui pompieri”. La Bosnia, da questo punto di vista, non fa eccezione.
Riguardo agli intellettuali francesi che passano per essersi mobilitati più e prima degli altri, noto innanzitutto che a impegnarsi sono stati pochi, il che, d’altronde, non è una novità. La mobilitazione degli intellettuali francesi contro la guerra d’Algeria si ridusse al Manifesto dei 121, un numero molto esiguo se rapportato al complesso di giornalisti, professori e scrittori francesi dell’epoca. In secondo luogo la mobilitazione è stata contraddittoria: se prendiamo le riviste di sinistra o di intellettuali francesi vediamo cheLes Temps Modernes parteggia per la vecchia Jugoslavia e passa il tempo a rimpiangerne la scomparsa, Le Messager Europeen, di Finkelkraut, è filo-croata, che La règle du jeu di Bernard Henri-Levy è filo-bosniaca, che Esprit, la rivista dei cristiani di sinistra, è filo-Kossovo. Quanto a me pur essendo stato fin dall’inizio contro l’aggressore, cioè l’esercito serbo, sono stato accusato di simpatie filoserbe daLe Monde solo per essere intervenuto in difesa di Vuk Draskovic, massacrato dalla polizia di Milosevic. Il che mi sembra folle.
Certamente la difficoltà a pensare, a capire ciò che avveniva in Bosnia, ha costituito un freno particolare. Secondo me l’errore è stato quello di cercare "i buoni”, della gente, cioè, che si comportasse magnificamente e incarnasse gli ideali, mentre si trattava, più semplicemente, di schierarsi contro qualcuno, contro un nemico, anche se la propria parte non era perfetta. E questo nemico era molto preciso e individuabile in ciò che i dissidenti russi chiamavano "fascismo rosso-bruno”: una sorta di mix fra tradizioni staliniste (deportare le popolazioni, cambiare le frontiere a colpi di cannone, distruggere le città) e impulsi hitleriani (il razzismo, l’etnocidio, la purificazione etnica). Bastava concentrarsi lì senza aver bisogno di idealizzare oltre misura il cosmopolitismo di Sarajevo o la piccola nazione europea croata che, per natura, sarebbe tanto migliore della nazione serba. E' stato un idealismo inutile che ha provocato tante discussioni non meno inutili.
Purtroppo questa incapacità a concentrarsi contro il nemico non è stata una caratteristica solo degli intellettuali francesi ma anche degli intellettuali ex jugoslavi, incapaci di costituire una piattaforma coerentemente antifascista. Gli sforzi fatti a Belgrado, a Zagabria, a Sarajevo, e anche in Kossovo perché tutte le opposizioni democratiche si unissero in una specie di congresso che avrebbe potuto riunirsi a Parigi, non hanno avuto seguito. E dico Belgrado perché evidentemente c’erano tanti serbi di orientamento democratico. Io stesso ho partecipato a dei meeting di 100 mila persone di fronte al Parlamento di Belgrado in cui ho denunciato Milosevic come criminale di guerra, e si era ancora nel primo anno di guerra. Quindi, la possibilità di far di più c’era.
L'altra grande debolezza è stata quella di non riconoscere un fenomeno che è enorme, mondiale, planetario: la terza ondata fascista di questo secolo. Dopo l’ondata nera che ha avuto il suo punto culminante nel nazismo, dopo l’ondata fascista rossa, non ancora completamente rifluita visto che la Cina non è propriamente una democrazia, oggi ci troviamo di fronte all’ondata fondamentalista. E’ un fascismo difficile da riconoscere perché come un proteo ha una grandissima capacità di trasformarsi, di fluttuare, di rendersi invisibile. E' un fascismo che riesce a  non assomigliare ai suoi grandi fratelli nazista e comunista, che cambia molto facilmente le sue bandiere, che può rifarsi alla religione, come in Iran, Algeria e Pakistan o a un certo nazionalismo o iper-nazionalismo, come il grande-serbismo e il panslavismo.
E' un fascismo che ha una particolarità del tutto originale: praticare il terrorismo prima della presa del potere. Tutti i totalitarismi precedenti sono riusciti a raggruppare, a mobilitare, una buona parte della popolazione e non hanno mai praticato il terrorismo se non dopo la presa del potere. Prima c’erano violenze, scontri di strada, caccia ai sindacalisti, ma in nessun caso, neanche in quello nazista, c’è stata una politica voluta, radicale, di omicidi su larga scala come quella praticata dal Fis in Algeria. Il terrorismo di oggi è più forte, più evidente, più violento, il che, ovviamente, non significa che i nazisti fossero meno violenti degli uomini del Fis. Aspettarono di prendere il potere per esercitare tutta la loro violenza. Gli uomini del Fis non aspettano.
Da dove viene questa differenza?
Credo provenga dalla potenza assunta, nella nostra epoca, dai portatori di armi. Dai tempi del fascismo la capacità di uccidere e massacrare è decuplicata e questo rende possibile che piccoli gruppi di uomini armati prendano il potere contro la maggioranza della popolazione e governino. La necessità di una mobilitazione della popolazione mediante campagne ideologiche viene meno.
Nella maggior parte dei paesi del Terzo Mondo a governare sono piccoli gruppi di militari che dispongono di un’enorme forza armata che usano contro le popolazioni. E’ dalla fine della seconda guerra mondiale che il potere di questi guerrieri selvaggi ha continuato a estendersi sul pianeta. In Europa non lo si è percepito a causa della dissuasione nucleare e della guerra fredda, ma appena il Muro di Berlino è caduto, appena i blocchi sono crollati e ogni paese ha ripreso la propria iniziativa, anche da noi assistiamo al tentativo di guerrieri selvaggi di prendere il potere sulle popolazioni civili.
La guerra nella ex Jugoslavia non è una guerra civile ma è una guerra contro i civili condotta da un apparato militare e talvolta imitata dagli altri apparati militari. Anche i croati hanno fatto la guerra contro i civili, contro i civili bosniaci per cominciare e attualmente contro i civili serbi della Krajina. Io sono favorevole all’intervento croato in Krajina perché, visto che l’Onu non interveniva, era l'ultima risorsa, ma quell'intervento, nella sua modalità, è stato un’imitazione più dolce, una versione soft della pulizia etnica serba. (Niente di nuovo: Stalin che prende da Hitler e viceversa). D’altra parte la trasformazione progressiva delle guerre in guerre contro i civili è attestata dalle statistiche Unicef del ’92: nella prima guerra mondiale l’80% dei caduti erano militari, nella seconda i militari costituivano il 50% dei morti, in tutte le guerre scoppiate sul pianeta dopo il ’45, l’80% dei morti è costituito da civili.
Non c’è il rischio di un abuso della parola fascismo?
C’è una grande discussione su questo. Ogni volta che vado in Germania i tedeschi mi fanno notare che il Fis non assomiglia affatto al nazismo, il che è evidente. C’è una specie di orgoglio triste dei tedeschi che consiste nel dire: "Ascoltate, non bisogna confondere tutto. Noi sappiamo cos’è stato il nazismo, abbiamo fatto degli studi, non estendete questo termine a destra e a manca”. C'è qualcosa di giusto in questa posizione perché un intellettuale deve cercare di non abusare dei concetti. Credo, però, che sull’uso della parola "fascismo” si possano fare alcune notazioni.
In primo luogo, chi nomina in tal modo il proprio avversario? E' il ricercatore nel proprio studio? Oppure è anche chi soffre? Direi che uno dei testimoni essenziali è la vittima e che bisogna tener conto della sua opinione, senza con ciò voler dire che la vittima ha sempre ragione. Allora, quando si invitano a Parigi, a Berlino o a Roma persone di Algeri o di Sarajevo, la prima cosa da fare è ascoltare ciò che ci dicono riguardo a quello che subiscono e a quelli che le torturano. Ebbene dicono: "fascismo”. Gli intellettuali di Sarajevo che conosco mi dicono: "Stiamo lottando contro un fascismo”. I democratici algerini che conosco, come Khalida Messaoudi e altri, mi dicono: "Stiamo lottando contro un fascismo”. Il punto di vista della vittima è importante.
La sinistra europea occidentale avrebbe dovuto ascoltare anche i dissidenti sovietici che da sempre parlavano di "fascismo rosso” riguardo al potere comunista. E invece restava sbalordita e incredula. Alla fine, però, le popolazioni del blocco sovietico hanno dato ragione a quei dissidenti: nell’89 le donne dei paesi baltici hanno manifestato spiegando che il patto Ribbentrop-Molotov significava l’equivalenza fra croce uncinata e falce e martello; nel pieno dell’insurrezione contro Ceausescu i ragazzini, fra i quali gli zingari erano i più coraggiosi, si presentavano davanti ai carri armati con scritto sul petto: "falce e martello uguale croce uncinata”. Dall’altra parte del pianeta, sempre nell’89, sulla piazza Tien An Men, gli studenti disegnavano Li Peng con i baffetti alla Hitler.
Questo, naturalmente, non deve impedire a un analista di fare delle distinzioni fra il modo di esercitare il potere totalitario tenuto da Hitler e quello tenuto da Stalin, ma resta anche un fatto che in tutto il campo socialista l’equivalenza tra croce uncinata e falce e martello, così scioccante per la sinistra europea, costituiva un’evidenza. Non si comprenderebbe, altrimenti, a mio avviso, il movimento fantastico che ha avuto luogo nell’89.
La caduta del Muro di Berlino sarebbe la fine della guerra contro il fascismo?
Il fascismo occidentale fu sconfitto nel ’45. Restava Stalin. La fine della seconda guerra mondiale è rappresentata dalla caduta del Muro di Berlino, quando il nostro continente si è finalmente liberato dal totalitarismo. Una liberazione iniziata quando i dissidenti, gli intellettuali coraggiosi dell’Europa dell’est, hanno identificato il nemico nel fascismo rosso e hanno abbandonato, dopo Praga ’68, le illusioni del "socialismo dal volto umano” e dell’utopia di una terza via fra stalinismo e democrazia occidentale. Una liberazione che è culminata, vent’anni dopo, nei movimenti delle popolazioni dell’Europa dell’est che trovavano ormai insopportabile continuare a vivere sotto un regime così pericoloso.
Il momento di svolta è stato Chernobyl. Per noi occidentali Chernobyl ha significato il problema nucleare, ma per i russi, per gli ucraini Chernobyl è stato il problema del potere della burocrazia. L’idea che si è fatta strada fra le popolazioni dell’est era non solo che la tecnica può essere in se stessa pericolosa, non solo che il nucleare è quanto di più pericoloso ci sia nella tecnica moderna, ma che la burocrazia comunista, avendo un tale potere sulla tecnica moderna, era irrimediabilmente pericolosa. Chernobyl era una centrale riformata da Gorbaciov, ed è dopo la riforma che è avvenuto l’incidente! Il sentimento della maggioranza dei russi non è stato che ci fosse solo un problema di inquinamento nucleare. Le donne degli Urali, ad esempio, non potevano più allattare i propri figli, perché i medici lo avevano proibito, ma per l’inquinamento chimico, non nucleare, della loro regione; i kazakhi e gli uzbeki scoprivano che il lago d’Aral, ora completamente distrutto, era devastato, ma non dall’inquinamento nucleare. Di colpo, attraverso il prisma di Chernobyl, è stato l’insieme del disastro comunista che è apparso a quelle popolazioni.
Qual è allora l’essenza del fascismo?
Se per la coscienza occidentale c’è un momento di evidenza di ciò che è il fascismo è la famosa seduta all’università di Salamanca dove Miguel de Unamuno prese posizione. Questo grande filosofo, nazionalista, dalla parte di Franco, rettore di quella università, di fronte al generale Borgne che gridava "viva la morte!” e a una sala che applaudiva i militari fascisti, molto coraggiosamente si alzò per dire: "Questo grido ‘viva la morte!’ io non lo ammetto e non lo ammetterò mai. Sebbene in quanto filosofo io sia totalmente aperto al paradosso, lavori sul paradosso, questo paradosso mi sembra contrario a tutto ciò che penso, a tutto quello che sento, a tutto quello per cui vivo”. Ecco, credo che lo slogan "viva la morte!” costituisca il punto essenziale, il nodo centrale della definizione di fascismo.
Allora, nelle operazioni del Fis, che sgozza i giornalisti, violenta e poi taglia a pezzi le donne, impedisce ai cantanti di cantare, io vedo l’illustrazione di quel grido: "Viva la morte!”. E' evidente che stanno cercando di distruggere tutte le possibilità economiche, culturali, esistenziali dell’Algeria: i quadri più illuminati, il sistema di comunicazione, la scuola, le imprese industriali, lo Stato, l’ordine, tutto ciò che permette agli uomini di vivere in una società civile. Ma la politica della terra bruciata non è l'applicazione dello slogan "viva la morte!”? Non credo di esagerare nel dire questo perché al fondo del nazismo c'è un che di apocalittico. Alla fine della guerra gli ultimi appelli radio dei nazisti dicevano: "Le città tedesche sono bombardate, tutto è raso al suolo, bene, tanto meglio, così noi potremo ricominciare da zero!”. Applaudivano i bombardamenti dicendo: "Finalmente ci liberate della vecchia Germania borghese, dai vecchi valori, noi potremo fare tabula rasa, potremo cominciare tutto da zero!”.
Ma non è stata questa la politica di Pol-Pot in Cambogia? Un teorico stalinista sosteneva che nella misura in cui la rivoluzione avanzava la lotta di classe diventava più accanita e quindi bisognava uccidere sempre più persone: anche questa è una visione apocalittica.
In Algeria hanno distrutto 600 scuole. E cos’è in definitiva una scuola? E’ un luogo di comunicazione interclassista e interculturale in cui giovani di fasce sociali diverse e di opinioni diverse, possono accedere a dei mezzi di vita e di lavoro, di carriera, più o meno in maniera egualitaria. E la scuola algerina malgrado tutto proviene dalla tradizione della scuola laica francese, ma questo luogo non è necessariamente una scuola laica, può essere un luogo religioso come le moschee bosniache che erano luoghi d’incontro per i dissidenti. Gli aggressori serbi ne hanno fatto saltare in aria 5-600. Dunque, sia in Algeria che in Bosnia assistiamo al tentativo sistematico di distruggere tutti i luoghi di civiltà, di dialogo, di comunicazione per far regnare il terrore.
Io credo che si possa dire che il principio je détruis, donc je suis, una specie di cogito della distruzione, sia al fondo del fascismo, della sua ideologia, dei suoi riti e delle sue operazioni. E se questo è vero allora si può parlare di un nuovo fascismo che sventola bandiere completamente diverse e mostra sigle fra loro avverse, ma utilizza gli stessi metodi, ha gli stessi fini. Allora rivendico il diritto di chiamare fascismo sia il Fis, sia i fondamentalisti iraniani che condannano Rushdie a morte, sia gli estremisti grande-serbi che distruggono le moschee.
Il potere totalitario su cosa si basa?
Il potere totalitario non è la concentrazione di tutto il potere nelle mani di un solo dittatore, di un solo apparato di potere, come si crede in Occidente. Questa è una mitologia. Il potere totalitario non è così monolitico, unidimensionale: Hitler non riusciva neanche a controllare i suoi eserciti sui campi di battaglia, l’economia sovietica era un’enorme anarchia. I tedeschi dell’ovest hanno scoperto con sorpresa che il paese più industrializzato dell’Europa dell’est, cioè la Rdt, era in realtà un gigantesco caos anarchico.
Il potere totalitario è tale in quanto sopprime ogni opposizione. Il carattere totalitario del potere non consiste, come si pensa, nella mobilitazione totale, bensì nella de-mobilitazione totale della popolazione. La capacità, cioè, di ridurre a zero, di ridurre in servitù totale, di abolire ogni resistenza di fronte a sé. Il potere totalitario è paralizzare il soggetto. Il terrore serve a questo: è l’interiorizzazione della distruzione da parte di colui che la subisce, è non pensare più, è non differenziarsi più, è diventare una tabula rasa dentro di sé così come il paese è diventato una tabula rasa sotto le bombe. Si distrugge l’esterno per annientare l’interno. Guernica è l’inizio della guerra contro i civili e testimonia di una volontà di annientare lo spirito di resistenza dei baschi. L’olio di ricino che i fascisti facevano bere ai sindacalisti italiani perché se la facessero addosso era un modo di distruggerli in quanto individui rispettabili. Non era che un inizio, perché poi nei campi di concentramento avrebbero fatto di più e di meglio per ridurre l’essere umano a essere non-umano.
Ecco perché credo che per tutto il XX secolo si sia combattuta una sola guerra: quella a favore o contro questa schiavitù moderna che era del tutto inimmaginabile nel XIX secolo. Nessun uomo di destra o di sinistra, cristiano o socialista dell’800, poteva ritenere verosimile l’avvento di una schiavitù moderna nel cuore dell’Europa. Si diceva al contrario che lo schiavismo poco alla volta sarebbe scomparso. I colonialisti pensavano che il colonialismo costituisse una liberazione per i popoli inferiori, gli anti-colonialisti che fosse l’ultima forma di schiavitù, ma nessuno immaginava che nel cuore dell’Europa delle popolazioni completamente moderne potessero essere ridotte in condizioni di gran lunga peggiori di quelle degli schiavi dell’antichità.
La possibilità della riduzione a uno stato di "nulla” di popolazioni di milioni e milioni di individui è un frutto del XX secolo. La guerra contro questa schiavitù moderna non è ancora vinta.
Che tipo di risposta internazionale si può dare a tutto ciò?
Nel caso della ex Jugoslavia già nel dicembre del ’91 scrissi che bisognava intervenire. Mi aspettavo che i ministri che si riunivano a Maastricht andassero a finire la riunione a Dubrovnik per dire con forza: "Non si bombarda con i cannoni dalle colline una città piena di profughi e di tesori d’arte del XV secolo!”. Se si fosse fermata lì l’aggressione -e forse sarebbe bastato qualche elicottero per distruggere una batteria di cannoni serbi- avremmo avuto sulla coscienza i morti di Vukovar, allora già rasa al suolo, ma si sarebbe risparmiata Sarajevo.
Io credo nella necessità di interventi militari umanitari di guerra. Fermare la guerra, se necessario con la guerra. Questo può implicare anche spedizioni militari più piccole contro avversari meno importanti. Ho seguito molto da vicino la spedizione in Somalia perché da 20 anni collaboro con Médecins sans frontières e Médecins du monde che operano in quelle regioni. Lì gruppi militari di canaglie, chiamati Mad Max, armati di kalashnikov, giravano in camion, terrorizzavano la popolazione impedendo la circolazione dei prodotti e quindi la stessa agricoltura, provocando carestia e fame. Médecins sans frontières è arrivata per portare il riso, ma dovendo proteggere i convogli di camion doveva ingaggiare dei giovani armati per impedire ad altri giovani armati di portare via il riso. In tal modo, se la carestia è causata dai gruppi militari, non si riesce a combattere la fame se non pagando altri gruppi militari. E cosa fanno questi giovani con il denaro che ricevono? Mangiano, comprano droga, comprano armi. Alla fineMédecins sans frontières spendeva più denaro per assicurare la protezione del riso che per acquistarlo. Bisognava continuare in quel modo? Oppure bisognava abbandonare tutto? O c’era bisogno di un esercito professionale, dell’Onu, che mettesse fine alle ruberie di questi gruppi armati? Médecins sans frontières era contraria all’invio di un esercito internazionale in Somalia, mentre è a favore dell’invio di un esercito internazionale in Bosnia. Contraddizione degli umanitari!  Io penso che in questi casi è molto meglio l’intervento di militari professionisti capaci di gestire la situazione nella misura del possibile. E penso anche, contrariamente a quanto sostengono tutti i mass-media internazionali, che l’operazione in Somalia sia stata un successo perché, grazie all’intervento internazionale, in particolare americano, centinaia di migliaia di civili sono stati salvati dalla morte per fame. Trovo assolutamente irresponsabile dire che si è trattato di una sconfitta. Si tratterebbe di un insuccesso se si voleva che l’Onu installasse in Somalia un regime democratico, ma non era affatto questo lo scopo della missione. Hanno semplicemente interrotto una carestia, salvando centinaia di migliaia di persone.
Sembra che neppure gli americani siano più tanto convinti...
La crescente necessità di questi interventi militari umanitari non vuol dire che si avrà il coraggio di farne ancora. Purtroppo la dottrina ufficiale degli stati maggiori occidentali, in particolare del Pentagono, è riassunta nella parola d'ordine "zero morti dalla propria parte”. Ma qualsiasi intervento militare contro delle canaglie armate provocherà dei morti. L’intervento militare in Bosnia provocherà dei morti americani? Allora è non si può fare.
Credo che questa dottrina sia estremamente grave. Sembra che i pacifisti abbiano vinto conquistando gli stati maggiori e in particolare quello americano. Assistiamo a un miracolo della storia occidentale: per la prima volta l’esercito più potente dell’occidente dichiara che le persone che vi prestano servizio hanno sottoscritto una specie di assicurazione sulla vita al momento dell’arruolamento. E’ una follia egoista perché questo vuol dire che l’esercito non serve a nulla. Un esercito che non accetta di avere un morto è un esercito completamente inutile. Dopodiché succede come in Bosnia dove, dopo tre anni di guerra, si è presa una decisione che non è la peggiore, ma non è la migliore: armare i croati e lanciarli contro i serbi...
Lei è molto critico verso il pacifismo.
Io sono pacifico, ma non pacifista. Penso, cioè, che bisogna fermare le guerre il più in fretta possibile, prima che scoppino se possibile, appena scoppiano quando scoppiano. Purtroppo ritengo che, in questa fine secolo, il fatto che non ci sia più il rischio di una guerra catastrofica, perché non c’è più un blocco contrapposto a un altro blocco, non significa affatto che non ci sia più rischio di guerre, tutt’altro: vedo il pericolo che queste si moltiplichino.
Sembra che le società del benessere siano colpite da una specie di malattia ottica che consiste nel non vedere il pericolo e si manifesta nel pacifismo. Machiavelli scrisse che niente è peggiore di chi, pretendendosi buono, non vuole pensare al male. E purtroppo sembra che quanto meno si pensa alla guerra tanto più quella si avvicina.
Quando è scoppiata la guerra nella ex-Jugoslavia le persone hanno pensato, primo, che questa guerra non esisteva, secondo, che non sarebbe durata. I negoziatori Owen e Vance si sono comportati esattamente come Chamberlain e Daladier a Monaco nel ’38. E se è vero che Milosevic non è Hitler, perché non ne ha la potenza militare, per la popolazione di Sarajevo le conseguenze sono state altrettanto gravi.
Anche intellettualmente l’incapacità di ragionare oggi meglio che nel ’38 è estremamente grave. Dal ’45 in poi due generazioni di europei hanno vissuto nella piena pace, nel pieno impiego e nella piena salute, ritenendosi ormai immuni per natura, e non grazie alla storia, contro i tre grandi flagelli che segnano la condizione umana da sempre: la carestia, la peste, la guerra. Non c’erano più grandi malattie come la tubercolosi, lo stesso cancro stava perdendo terreno, grazie all’onnipotenza della medicina scientifica. La guerra era fredda cioè congelata, e si riteneva che ormai fosse possibile solo agli antipodi, nel Terzo Mondo, ma non in Europa. Infine, il lavoro era in qualche modo assicurato grazie alla politica del pieno impiego che ha dominato a lungo in Occidente.
Se un giorno queste tre garanzie, queste tre immunità dovessero cadere ci sarebbe il panico generale, in particolare fra le élites. E infatti se appare l’Aids ci si affretta a dire che in definitiva riguarda gente particolare, i tossici, gli omosessuali, o i poveri in generale; se appare la guerra, se una capitale europea viene assediata per quattro anni nelle condizioni che sappiamo, senza elettricità, senza legna per riscaldarsi, senza possibilità di muoversi, si comincia a dire che riguarda popolazioni arretrate, "tribù balcaniche”, secondo un’espressione del presidente Mitterrand; e se infine torna la disoccupazione, viene considerata propria degli esclusi. In tutti e tre i casi emerge una paura che conduce al rigetto, alla chiusura nella propria campana di vetro. La Jugoslavia è altrove, l’Aids è altrove, la disoccupazione è altrove: ce ne occupiamo il meno possibile pensando che siano malattie proprie di persone speciali, che non possono riguardare persone normali come noi. In realtà pensare in questo modo costituisce una malattia mentale estremamente grave, perché produce come risultato il fatto che non ci si protegge. Non si lotta contro mali da cui ci si crede immuni per natura e non per cultura. Allora ciò produce lo scandalo del sangue contaminato, l’estendersi della disoccupazione con una frattura sempre più profonda nelle società ricche fra chi ha un lavoro garantito e chi non ce l’ha, e infine, lo sviluppo di una guerra estremamente pericolosa perché esemplare. Questo modo di vivere in un mondo chiuso, cloroformizzato, dentro una campana di vetro, è ciò che di peggio può capitare agli europei di oggi.
L'’esempio dell’ex-Jugoslavia sarà contagioso?
Il modo in cui l’apparato politico e militare serbo, di evidenti origini comuniste anche se ha cambiato le proprie bandiere, ha saputo rendersi necessario facendo la guerra e mobilitando le masse per la guerra, è un modo post-comunista di salvare ciò che può essere salvato del comunismo e dei metodi totalitari che rischia di diventare estremamente contagioso, non tanto geograficamente, quanto politicamente. Il pericolo è che la Russia segua l’esempio. Il massacro dei ceceni ne è la prima prova. Il semaforo verde dato all’armata rossa serba è servito poi all’armata ex-rossa russa. Ora Mosca è in una situazione che la maggior parte degli esperti definisce "weimariana”, è un caos, a riprova che uscire dal comunismo è estremamente difficile. La Jugoslavia, malgrado fosse sfuggita alla presa russa nel1948 e fosse un paese relativamente aperto la cui gente poteva viaggiare o lavorare all’estero, non è riuscita a instaurare la democrazia. Immaginiamoci allora quali pericoli  per la Russia! "Weimariana” sta per "pre-hitleriana”.
Ma d'altra parte i paesi in ebollizione non sono solo all’est. Non a caso tutti i paesi leader della Conferenza di Bandung, dei "non allineati” -la Jugoslavia, l’Algeria, l’Egitto e l’India, che se è in condizioni appena migliori lo deve alla sua tradizione anglosassone- sono in crisi e alcuni in stato di guerra. Significa che la guerra fredda ha bloccato i conflitti non solo all’interno di ogni blocco, ma ovunque e che la dissoluzione del blocco dell’est ha liberato certamente energie democratiche, ma anche energie totalitarie. L’esempio è l’Iraq che, se il blocco dell’est fosse esistito ancora, non avrebbe mai osato invadere il Kuwait allo scopo di porre sotto il proprio controllo le fonti di petrolio del Medio Oriente.
Direi che l’eccezione a questa dinamica è costituita da due regioni dove c’è stata un’avanzata appunto pacifica, ma non pacifista: il Sudafrica e la Palestina.
In entrambi i casi è stato necessario che combattenti molto impegnati ritornassero sul proprio impegno, si volgessero contro di esso, accorgendosi che, se avessero continuato sulla strada della violenza, ciò avrebbe determinato la rovina comune di tutti i combattenti. Ammiro molto il coraggio e la riflessione di Mandela e dei dirigenti dell’Olp che ora rischiano la morte perché appaiono dei rinnegati.
E' accettabile, per fermare i fascisti, l’idea di un "colpo di stato” come quello algerino? Si dovrà accettare l'idea di "colpo di stato democratico"?
A partire dal momento in cui ammettiamo che l’integralismo mussulmano è un fascismo verde -ed è ciò che sostengono tanti democratici algerini fra cui Said Sadi, Khalida Messaoudi e altri- siamo in una situazione ben conosciuta. Bisognava lasciare che Hitler prendesse il potere? Sappiamo che ci è arrivato attraverso le urne. Io sono un antifascista e quindi ritengo che sia stato un errore lasciarlo arrivare al potere, anche se in maniera democratica. La Germania federale oggi ha nella propria costituzione delle regole che impediscono a partiti di tipo fascista o hitleriano o razzista di giungere per via elettorale al potere. Credo che purtroppo queste regole non sono state introdotte dal potere militare algerino che, in realtà, voleva intendersela e dividersi la torta e il formaggio col Fis. A mio avviso il Fis è il prodotto di ciò che di peggio c’è nell’apparato militare algerino, è figlio dell’Fln, in particolare dell’arabizzazione della scuola e del codice della famiglia voluti dall’Fln. Ma, ciò detto, ritengo che non bisognasse permettere al Fis di presentarsi alle elezioni. Poiché glielo si è permesso, ritengo che sia stato meglio sospenderle. Davanti a una minaccia fascista non si deve accettare la regola delle elezioni, perché il fondamento della democrazia, da Aristotele in poi, è l’alternanza, l’avvicendamento al potere fra governanti e governati, non il principio di maggioranza. Se una maggioranza dichiara che non rispetterà l’alternanza, che non lascerà il diritto all’opposizione minoritaria di tentare di diventare con i mezzi democratici maggioranza, in questo caso la maggioranza non ha beneficiato della democrazia. Dal momento in cui il Fis dichiara, e con anticipo, di voler instaurare la shari’a e di conseguenza di voler togliere il diritto di parola ai partiti laici, si è messo fuori del gioco democratico e bisogna essere completamente idioti per lasciargli aperta la via del potere.
Pertanto ritengo che i democratici contrari agli accordi di Roma abbiano ragione, perché quegli accordi sono stati sottoscritti da un Fis che non ha ancora detto che non praticherà più il terrorismo. Al contrario, il Fis approva tuttora gli atti di terrorismo. E io non dico affatto che non bisogna negoziare con dei terroristi, tutta la storia è fatta di negoziati con dei terroristi, ma si negozia con loro obbligandoli a rimettere il coltello in tasca. A Roma non sono stati capaci di obbligare il Fis a rimettere il coltello in tasca, a rispettare le regole democratiche. Le Pen può partecipare alle elezioni, ma non ha il diritto di vincerle!
Per concludere: cosa pensa dell’espressione "guerra giusta”?
L’idea di "guerra giusta” è assolutamente sorpassata, perché presuppone un ordine cosmico del mondo a cui poter ritornare. In realtà, quest’ordine non esiste e non può esistere nel mondo moderno. In Francia l’Abbé Pierre che è cattolico ed è favorevole all’intervento militare nella ex Jugoslavia ha detto che si tratterebbe di una "difesa santa”. Preferisco questa definizione, perché in fin dei conti è per opporsi al male e non per edificare il "bene” che si fa la guerra. Possiamo definire il nemico, non il "bene”. Una guerra difensiva la si fa solo per limitare il male.

(a cura di Marco Bellini)