La sera del 9 ottobre 1963, alle 22.39, un’onda sbatte contro la faccia interna della diga più alta d’Europa tra quelle a doppia curvatura. Dal monte Toc, 250 milioni di metri cubi di roccia e terra (come duemila grattacieli di cento metri) si staccano e precipitano in un invaso di 160 milioni di metri cubi d’acqua, contenuti in una diga alta 266 metri. L’onda si alza, supera il bordo della diga, si abbatte sulla valle sottostante e in pochi minuti cancella tutto travolgendo gli abitati di Castellavazzo, Erto, Casso e Longarone. Il suolo si trasforma in fango. La stima più attendibile a tutt’oggi è di 1910 vittime. Per molte ore non si coglie la dimensione del dramma. La prima notizia è battuta dell’Ansa alle ore 01.46 del 10 ottobre: “Nella zona del Vajont e nell’abitato di Longarone un’enorme massa d’acqua è scesa dalla gola in cui si trova la diga e si è abbattuta nella valle, spazzando via decine di abitazioni e provocando morti e feriti. Le proporzioni e le cause dell’accaduto non sono ancora accertate”. “Il più grande funerale che mai abbia attraversato questo Paese, dopo Caporetto”, racconterà Marco Paolini, nel suo monologo.
Lucia Vastano è giornalista professionista dal 1982, ha lavorato nelle redazioni di Associated Press, Corriere d’informazione, Starbene, Boston Globe e Tv Sorrisi e Canzoni. Attualmente svolge attività come freelance e collabora a diverse testate, italiane ed americane. Nel 2005 ha vinto il premio Saint Vincent per un reportage sull’Asia centrale, pubblicato da NarcoMafie. Sul Vajont ha scritto L’onda lunga, recentemente ristampato a cura della cooperativa culturale Teatro Miela di Trieste.

Il mio incontro col Vajont è stato casuale. Tutto è cominciato poco dopo l’11 settembre. Stavo per andare in Afghanistan, aspettavamo solo che Kabul fosse “liberata” dei Talebani, poi sarei partita. Ero stata inviata su, alla diga, da “TV Sorrisi e Canzoni” per vedere il film di Renzo Martinelli. Non era il mio settore, mi sono sempre occupata di inchieste. Quando sono arrivata a Longarone, pensavo di sentirmi raccontare la storia di quaranta anni prima: la tragedia, l’onda. In realtà, verso mezzanotte, avevano organizzato una conferenza stampa, sempre su alla diga, perché i superstiti, arrabbiatissimi, volevano che si raccontasse anche quello che era successo dopo.
Questo racconto è quello che mi ha coinvolto di più, il racconto del dopo. Bene o male, uno si immagina che se si è stati vittime poi la vita sia tutta in discesa. E invece il discorso che io ho avvicinato, che ho sentito, è stato quello di una solitudine lunga quaranta anni accompagnata da una violenza continua e perpetuata. Oltretutto col ripetersi delle stesse truffe di prima della tragedia, anzi peggio: le truffe sui risarcimenti. Quel che è successo dopo è stata una violenza che tutti, perfino i familiari delle vittime, hanno detto essere stata peggio del disastro del Vajont.
Una comunità “violentata”, prima e dopo la tragedia. Nel senso che si è sempre cercato di dividere la popolazione, di mettere gli uni contro gli altri, ed è stata un’azione programmatica, con conseguenze che si ripercuotono ancora oggi. Una popolazione completamente abbandonata a se stessa, non “guardata”, non “ascoltata” per quaranta anni, nonostante in quella vallata succedessero delle vicende abbastanza sconcertanti.

Il dopo Vajont cominciò subito, fin dal giorno dopo il disastro. Indro Montanelli affermò immediatamente che si trattava di una sciagura naturale che nessuno poteva prevedere. Sulla spianata di Longarone in quei giorni arrivò anche Giovanni Leone. A quel punto la popolazione aveva capito cosa fosse successo davvero, anche quelli che magari prima avevano creduto nell’opera. Tutti gridavano: “Vogliamo giustizia”. Leone, che allora era il Presidente del Consiglio, disse: “L’avrete”. Senonché, appena caduto il governo, come accadeva di frequente, Leone pensò bene di diventare avvocato dell’Enel, perché aveva intuito che lì potevano uscire dei soldi. C’era l’occasione per un grande affare, non dalla parte delle vittime ma dall’altra. Fu così che cominciò.
Il dopo Vajont cominciò anche con un’enorme campagna di stampa montata ad arte per dire che, in fin dei conti, dal punto di vista tecnologico, la diga era magnifica, dato che aveva tenuto, che non era andata giù. Era stata una disgrazia naturale, come ribadì Dino Buzzati: “Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui”. ...[continua]

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