Carlos Fonseca è giornalista della rivista Tiempo. Ha pubblicato, tra l’altro, Las trece rosas rojas, Temas de hoy, 2004, e Rosario dinamitera, Temas de hoy, 2006.

Quella delle “tredici rose rosse” è una storia drammatica e in qualche modo esemplare. Puoi parlarne?
Si tratta di una storia che era rimasta impressa nella memoria di alcune persone vissute all’epoca della guerra civile e del dopoguerra e di cui tuttavia non erano quasi rimaste tracce, se non qualche breve riferimento in alcuni libri.
Devo dire che il mio interesse, tra l’altro, è stato dettato in parte anche dal caso, nel senso che finirono nelle mie mani alcuni documenti di uno zio di mio padre, che era stato un membro del partito comunista e che aveva passato venti anni in carcere, in cui si alludeva appunto alla vicenda di queste tredici ragazze. La cosa mi colpì molto, così, per prima cosa, andai a consultare gli archivi generali, per poi vagliare anche la documentazione presente nei giornali dell’epoca.
Contemporaneamente cercai anche di mettermi in contatto con chi era vissuto in quel periodo, quindi persone molto anziane, o con i loro familiari alla ricerca di documenti, lettere o fotografie, che facessero riferimento a quegli avvenimenti.
In sintesi, il libro racconta la storia di tredici ragazze che vennero arrestate nell’immediato dopoguerra a Madrid e che, dopo un giudizio molto sommario, vennero condannate a morte assieme ad altri quarantatré ragazzi. Vennero tutti fucilati all’alba del 5 agosto del 1939 davanti alle mura di quello che allora si chiamava Cementerio del Este, un luogo in cui le fucilazioni erano quotidiane e dove, tra l’altro, sono ancora conservate alcune delle mura contro le quali venivano assassinati i prigionieri.
Nel luogo in cui vennero uccise queste tredici ragazze c’è oggi una targa commemorativa.
La fucilazione era preceduta dal cosiddetto “prelievo”, che consisteva nel portar fuori dal carcere un certo numero di prigionieri -a volte anche più di cento- i quali venivano poi condotti al cimitero e fucilati.
In questo senso, la storia delle tredici rose non rappresenta purtroppo un caso singolare; di storie analoghe ne esistono moltissime. Tuttavia, per me, raccontare quella vicenda voleva anche essere un omaggio e un riconoscimento rispetto al ruolo svolto dalle donne durante la guerra. Alcune di queste tredici ragazze, infatti, avevano militato politicamente, altre erano andate a combattere al fronte; altre ancora, invece, non erano affatto politicamente impegnate.
In che condizioni vennero detenute quelle giovani donne?
Il carcere di Ventas, dove vennero detenute le tredici rose, era stato inaugurato ai tempi della repubblica. Veniva considerato un carcere modello, nel senso che non era stato concepito tanto come un luogo punitivo, quanto come un centro di reinserimento. Si trattava di una formula introdotta da Victoria Kent, che aveva creato anche il primo corpo di donne funzionarie di prigione. In precedenza, infatti, le carceri, al di là che fossero maschili o femminili, venivano generalmente gestite da uomini -nel caso delle carceri femminili, dagli ordini religiosi. Victoria Kent cercò di rompere l’immagine classica delle prigioni anche da un punto di vista estetico, facendo largo uso, ad esempio, di grandi finestre. Durante la guerra il carcere di Ventas venne trasformato in una prigione maschile e, al termine della guerra, tornò ad essere un centro di detenzione femminile.
Il fatto è che, pur essendo stato concepito per circa cinquecento persone, arrivò ad ospitarne, secondo alcune stime, tra le seimila e le diecimila, per cui, in celle magari concepite per una sola persona, ne venivano ammassate fino a venti. Venivano occupati tutti gli spazi, i bagni, le scale: era una specie di magazzino umano.
La situazione era insomma drammatica, ma poteva diventare tragica se le detenute avevano dei figli. In quel caso infatti o se ne facevano carico i familiari della detenuta, oppure i figli venivano affidati agli orfanotrofi (che significava che le madri non li avrebbero più rivisti). Se infine non c’era nessuno a cui lasciarli -magari perché i mariti erano morti durante la guerra, oppure perché anche il resto della famiglia si trovava in carcere- li tenevano con sé in prigione. A volte, poi, le detenute entravano in carcere in attesa di un figlio e partorivano quindi all’interno della prigione, dove le condizioni sanitarie erano terribili, per non parlare dell’alimentazione, ...[continua]

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