Marie Holzman, sinologa francese specialista della Cina contemporanea, ha tradotto le opere di molti dissidenti cinesi. Nel gennaio 2009 ha ricevuto la Legione d’onore francese ed è presidente dell’associazione Solidarieté Chine.

Da quando in Cina è scoppiato il boom economico, non si parla più di diritti umani...
E’ una questione che mi sta molto a cuore perché per me è fuori discussione che i diritti umani siano universali. Non ho mai accettato l’idea che la cultura cinese potesse essere incompatibile con l’universalità dei diritti umani. Se quest’idea fosse solo mia, mi verrebbe da dire che non ha alcuna importanza, ma è una posizione condivisa da tutti i cinesi che ho conosciuto. Lei mi dirà che conosco solo dei dissidenti. E’ vero. Ma conosco anche degli artisti, degli intellettuali, dei musicisti. Inoltre, se si parla un po’ con dei cinesi, anche un po’ dogmatici, non di larghe vedute, e si chiede loro, ad esempio: "Se hai voglia di fare una cosa e ti viene impedito, ti sta bene?”. Ovviamente sono contrari. E allora io rispondo: "Vedi che difendi la tua libertà d’espressione? Perché non difenderla per tutti?”. Che la nozione di diritti universali sia estendibile alla Cina per me è di un’evidenza assoluta. Ma è vero che questo atteggiamento di cui lei parla si sta diffondendo in Occidente. Ultimamente quando mi rivolgo a un pubblico che si interessa alla Cina dico subito: "Non mi dite: non abbiamo una lezione da dare alla Cina”. Io non ho nessuna lezione da dare alla Cina: come i politici cinesi dirigono il loro Paese non è un problema che mi riguarda, non sarò io a dir loro come fare. Invece, come francese, cresciuta in una democrazia e che ha avuto la fortuna di vivere in un periodo di pace, ho la responsabilità morale di sostenere quelli che chiedono la stessa cosa nel loro Paese. Si tratta di una responsabilità morale poiché se i democratici -che godono della libertà d’espressione- non prendono la difesa di coloro che vivono sotto una dittatura, allora è la fine. Perché la dittatura è sempre in vantaggio. La dittatura è per forza imperialista in un senso astratto e, spesso, in un senso concreto. In un senso astratto perché nella sua ragion d’essere c’è il fatto di imporre, e se non lo fa perde il suo "prestigio” e perderà l’ascendente che ha sulla popolazione. Ha costantemente bisogno di dimostrare che il suo sistema è il migliore, che se ci si oppone se ne subiranno le conseguenze. Io sono in questo campo da trent’anni e purtroppo non sono ottimista.
Lei denuncia come anche tra gli intellettuali si stia diffondendo un clima di reticenza...
Vent’anni fa, al momento di Tiananmen era impensabile che un uomo politico, un giornalista o un cittadino non si opponesse a quella repressione. Tutta la classe politica condannò, senza riserve, Tiananmen. Siamo passati da una condanna multinazionale, multipartitica, a un consenso silenzioso. Tutto quello che fa la Cina è ben fatto, hanno un successo economico formidabile, hanno dato prova della loro efficacia. Quindi stiamo tutti zitti. E’ una cosa orribile. Vent’anni fa l’impatto della propaganda cinese in Occidente era praticamente nullo: i cinesi potevano dire più o meno quello che volevano, e l’Occidente pensava a se stesso senza ascoltarli. Ora, personalmente, io vengo censurata un giorno sì e un giorno no per delle ragioni direttamente legate alla Cina.
Qualche giorno fa delle persone si sono ritrovate qui a casa mia per parlare di una petizione. Preferisco non dire la loro nazionalità, comunque si trattava di occidentali. Beh, il cuore della discussione è presto diventato: "Osiamo o non osiamo firmare?”, anziché concentrarsi sulle argomentazioni di fondo per cui fare la petizione.
Nessuna dittatura funziona fino a che la paura non entra nel cuore stesso delle persone. Questo significa che ce l’hanno fatta: hanno instillato la paura in Occidente. Ho dei colleghi, gente della mia età, che quando mi telefonano parlano solo di questo: "Pensi che avrò il visto per andare in Cina la prossima volta? Pensi che io possa partecipare a questa conferenza? Perché se partecipo non avrò il visto per la Cina...”. Qualche tempo fa ho chiesto a un amico di firmare con me un articolo per Le Figaro, che non è certo un giornale rivoluzionario. Mi ha risposto: "Mi spiace, me ne vergogno, ma non posso firmare. Altrimenti non avrò il visto”. E’ un’interiorizzazione della paura che osservo ovunque.
Ma lei non ha paura?
Beh, in qualche modo io ho ...[continua]

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