Giovanni Vecchi, professore di Economia politica all’Università di Roma Tor Vergata, si occupa di teoria, misurazione e storia del benessere. Partecipa, inoltre, a missioni per l’analisi delle condizioni di vita, povertà e disuguaglianza nei paesi poveri. In occasione del 150° anniversario dell’unità d’Italia, ha pubblicato In ricchezza e in povertà. Il benessere degli italiani dall’unità a oggi (Il Mulino, Bologna 2011) una ricerca sulle condizioni di vita degli italiani, dal 1861 al 2011. Nel ripercorrere i centocinquanta anni di storia unitaria il libro documenta i successi, ma anche i ritardi e le disparità con cui lo sviluppo economico ha distribuito benefici alla popolazione. Un importante insegnamento di questo studio storico è che fra le priorità di cui un paese dovrebbe occuparsi per preservare il proprio benessere, non solo economico, vanno inserite anche le misure di contenimento della povertà.

Cosa vuol dire studiare la povertà? Cos’è la povertà per un economista?
è difficile dare una risposta a questa domanda, perché si rischia di sconfinare in molti campi. Da accademico posso dire che studiare la povertà significa occuparsi di un problema sociale utilizzando la scienza economica, quindi la teoria economica, la statistica, l’econometria; cercando di ragionare su un fenomeno verso il quale si nutrono sentimenti precostituiti, e spesso forti, con l’ausilio del metodo di indagine scientifico. Significa anche, dopo aver fatto le ricerche, avere l’opportunità di mettere alla prova i propri risultati sul campo. Io ho la fortuna di lavorare nei paesi in via di sviluppo, dove il tema della povertà occupa una posizione alta nell’agenda politica ed economica. In questi paesi esiste la possibilità di verificare se le nostre ricerche trovano o no conferma nel disegno delle politiche economiche e nell’individuazione dei temi prioritari.
Questa è una fortuna molto grande, molto arricchente anche dal punto di vista personale. Dopodiché, in questi studi della povertà, si ritrova la dimensione originale dell’economia come scienza sociale: occuparsi del benessere della popolazione è forse uno dei motori che più ha mosso l’interesse per questa disciplina. Ed è interessante perché in questa scienza l’economia si incontra con la politica, quella più nobile, che dovrebbe occuparsi delle condizioni di vita, del progresso delle popolazioni. È anche un compito molto complesso, perché la povertà è un concetto multidimensionale che comporta privazioni e deprivazioni in molti ambiti: gli economisti si occupano più spesso di quelli monetari, ma sanno bene che esistono risvolti che sconfinano nell’ambito della sociologia, che è una scienza contigua. Fenomeni come l’esclusione sociale sono questioni di cui anche noi economisti siamo consapevoli.
Povertà, poi, per chi la vede, significa sofferenza fisica, sofferenza psicologica -sono aspetti che sfuggono agli strumenti degli economisti, ma bisogna sapere che esistono- e infine limitazione della libertà individuale.
Penso alla Costituzione, articolo 3, comma 2: "È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. La Costituzione ci ricorda priorità che di fatto sono negate, mi pare, dalla pochezza della politica sociale del nostro paese. Non solo oggi, ma da una lunga tradizione di disinteresse.
In cosa è consistito il lavoro di ricostruzione storica del benessere in Italia?
Il lavoro di ricostruzione delle serie storiche di dati sul benessere degli italiani è durato molti anni, dal 2008 almeno, in previsione di questo 150° anniversario. L’Italia ha una tradizione rinomata di riflessione pubblica in occasione di ricorrenze storiche e date simboliche, come questa. Noi ci siamo chiesti, come economisti, quali riflessioni si potessero fare sul benessere degli italiani dopo 150 anni di unità. Una parte della storia è ben nota a tutti: in termini di Pil l’Italia ha abbandonato la periferia povera dell’Europa moltiplicando circa per tredici volte il proprio prodotto interno lordo per abitante ed è riuscita a raggiungere il centro ricco dell’Europa. La storiografia economica si è concentrata e ha insistito su questo, anche se in ­realtà non esisteva una serie di 150 anni unica, esistevano tanti pezzi ma non uniti, ...[continua]

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