Alain Caillè insegna all’Università Paris X di Nanterre ed è tra i fondatori del M.A.U.S.S. (Movimento Anti-Utilitaristico nelle Scienze Sociali).

Sempre più spesso si parla di "pensiero unico", intendendo con questo termine il pensiero liberista che dominerebbe, ormai incontrastato, il nostro tempo. Lei condivide questa analisi?
Intanto, direi che non c’è un solo pensiero unico, ce ne sono due. C’è, infatti, un pensiero unico classico, ultraliberale, o liberista, che è dominante in Europa in questo momento, ma c’è anche un altro pensiero unico, perfettamente speculare a questo, nel quale la sinistra classica, in particolare quella socialdemocratica, si rifugia quando, paradossalmente, vuole sfuggire all’egemonia liberista. Ed è questo che trovo disperante. Basta leggere il programma economico che il partito socialista ha appena varato per capire di cosa parlo: quando la sinistra tradizionale, classica, cerca di contrapporsi al liberismo, non foss’altro che per ragioni elettorali, ritorna all’altro pensiero unico, cioè al discorso classico della sinistra, costruito in perfetta simmetria, in un perfetto gioco di specchi, al pensiero unico liberista.
Volendo riassumere al massimo, si può dire che, laddove il primo discorso, quello ultraliberale, afferma: "Meno soldi per tutti", salvo che per alcuni, ovviamente, cioè i grandi gruppi e i loro investimenti, la sinistra classica ribatte dicendo: "Più soldi per tutti". Il partito socialista, per esempio, vuole ridurre l’orario di lavoro, passando direttamente da 39 a 35 ore settimanali senza riduzioni di salario: queste 35 ore sarebbero pagate quindi come se fossero 39! Vuole poi aumentare i salari più bassi, nonché il numero dei dipendenti pubblici. Vuole creare 700 mila nuovi posti di lavoro per i giovani nell’industria, che saranno finanziati dallo Stato, per cui questi nuovi assunti, in qualche modo, diventeranno dei dipendenti pubblici. Laddove il pensiero ultraliberale è completamente centrato sul problema del deficit delle finanze pubbliche, il pensiero della sinistra tradizionale, classista e tribunizia, afferma spensieratamente: "Nessun problema, pagherà lo Stato".
In realtà sono due discorsi speculari, perché hanno un punto di partenza comune: una visione del mondo incentrata sulla crescita economica e sulla figura del salariato. Per entrambi i pensieri unici gli esseri umani non valgono che come produttori, non c’è nessuna base sociale per la democrazia al di fuori del lavoro salariato. D’altra parte, questa percezione, comune ai due pensieri, ha un riscontro nella realtà delle nostre società democratiche, perché da un secolo a questa parte le democrazie sono effettivamente delle "democrazie salariali", fondate, cioè, sull’universalità della condizione salariale, per cui i soggetti sociali, gli individui, condividono la stessa condizione sociale, si riconoscono come simili, partecipano di una stessa umanità: saranno salariati, sono stati salariati, possono essere salariati. La condizione salariale è il denominatore comune di tutte le nostre istituzioni democratiche, dalla scuola alla sanità, alla giustizia. E’ evidente, allora, che il fatto che non ci sarà più lavoro salariato per tutti, a tempo pieno e per tutta la vita, mette il mondo occidentale di fronte alla sfida più importante da vent’anni a questa parte. Attendere dal ritorno della crescita economica la soluzione di tutti i problemi sociali significa illudersi pericolosamente.
Certo, la crescita economica potrebbe riprendere in maniera più rapida del previsto, ma sarà del tutto insufficiente a risolvere il problema della disoccupazione. E’ dimostrato, ormai, che la ripresa dell’economia occidentale produrrà pochissimi posti di lavoro. Certi economisti, anzi, ritengono che più essa sarà forte, più distruggerà posti di lavoro. Quindi, se la crescita economica non apporta nessun rimedio alla disoccupazione, cosa bisogna fare? Questo è il problema.
Il fatto è che, purtroppo, al di fuori della classe politica europea ognuno sa che tutta questa fiducia nella ripresa della crescita è vana, mentre la classe politica europea, in Francia come in Italia, è tutta strutturata mentalmente sull’attesa, sulla speranza, della crescita economica, vista quale soluzione ai problemi sociali. In questo modo i due pensieri unici svelano in realtà l’assenza di ogni sorta di pensiero.
Il risultato, in Francia, lo vediamo: nessuno crede più alla politica o all’Europa, nessuno crede più a niente e tutti ...[continua]

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