Enzo Gelain, psicologo-psicoterapeuta, è dirigente responsabile della Comunità diurna di Vicenza.

Com’è nata l’idea di aprire una comunità diurna?
La comunità terapeutica diurna, che è una comunità pubblica gestita direttamente dall’Ulss, è nata nel 1985. Inizialmente i Sert erano strutturati prevalentemente sulla distribuzione del metadone, ma ad un certo punto è emersa l’esigenza di creare uno spazio dove si potessero fare interventi al di fuori di quello prettamente farmacologico. Dove anche l’incontro e le risposte non fossero condizionate solamente dalla presenza dei farmaci, ma potessero intervenire altre variabili, come la relazione. Questa era l’idea di fondo.
Abbiamo aperto il 28 gennaio dell’85, con un primo gruppo di 6 pazienti, due psicologi come operatori, un’assistente sociale e due infermieri che allora avevano anche la funzione di educatori-animatori. La capienza massima della struttura, comunque mai raggiunta in tutti questi anni, è di 15 persone, con un numero medio di presenze che si aggira sulle 7, 8 persone. Attualmente sono presenti in comunità 7 utenti.
Che tipo di utenza soddisfa una soluzione come il centro diurno?
L’idea che ci siamo fatti, a partire dalle caratteristiche della comunità diurna, è che ci sia una sorta di selezione implicita dell’utenza. Cioè che in pratica si rivolgano alla comunità diurna coloro che in qualche maniera non sono disponibili ad operare una separazione all’interno della famiglia. Per andare in una comunità, infatti, il ragazzo, ma anche la famiglia, deve accettare di mettersi in discussione senza ricorrere alle sue relazioni abituali, in particolare quella con la madre, che è una relazione molto particolare: vischiosa, invischiante, privilegiata, conflittuale, ma proprio per questo molto intensa, capace anche di grande intimità.
Quando non ci sono le condizioni di disponibilità alla separazione, di solito si assiste frequentemente al fatto che il ragazzo scappa dalla comunità e la famiglia lo riaccoglie. Allora, vanno in comunità residenziale quelle famiglie -e dico volutamente "le famiglie"- che sono disposte a separarsi, cioè ad accettare un tempo in cui non ci si vede e ognuno in qualche maniera comincia a pensare, il ragazzo a se stesso, e la coppia, o chi rimane della famiglia, a ristrutturarsi senza la presenza di chi presenta il sintomo del malessere. Questo significa anche accettare, per esempio, che non è lui l’origine di tutti i mali della famiglia, e che quindi è il momento di fare i conti di quello che non funziona anche a prescindere da lui o lei. Ecco, si rivolgono a noi proprio le famiglie in cui c’è un alto tasso di invischiamento, per cui questa separazione risulta insopportabile.
Il rapporto con le famiglie dei tossicodipendenti ha quindi un ruolo rilevante...
Sicuramente. Quando è nata la comunità diurna, una delle idee portanti era che, se si strutturava una situazione di parziale rientro in famiglia, questo era comunque un modo per coinvolgere l’intero nucleo nel processo terapeutico e per intervenire nelle relazioni familiari in maniera significativa, in modo da acconsentire che alla fine del programma fossero avvenuti dei cambiamenti nel modo di rapportarsi e di educare i figli. E questa, tutto sommato, è anche l’idea che ci sostiene adesso, anche se nel corso degli anni abbiamo dovuto lasciar perdere parecchie illusioni iniziali, una delle quali, per esempio, coincideva con la presunzione che, essendo la famiglia in qualche modo alle origini del disagio e della tossicodipendenza, ci fosse automaticamente una presa di coscienza da parte della stessa delle proprie responsabilità e quindi anche una richiesta d’intervento specifico. Questo non si è mai verificato e non si verifica tuttora: la famiglia si sente abbastanza estranea, pensa che tutto sommato la responsabilità è soggettiva, individuale del ragazzo, e quindi casomai l’intervento va fatto solo su di lui.
Così noi ci troviamo nella situazione un po’ paradossale di dover fare una terapia alla famiglia, senza che questa ce ne faccia la richiesta. E’ evidente comunque che, intervenendo sul modo in cui la famiglia gestisce regole e comportamenti, sul suo atteggiamento nei confronti del denaro, sull’uso del tempo libero, si riesce a entrare anche nel merito della qualità delle relazioni.
Come funziona il centro?
Premetto che questa comunità in particolare non ha finalità ergoterapiche, cioè non punta sul lavoro, quanto sulla consapevolezza di problemi e pa ...[continua]

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