Yolande Mukagasana ruandese ha perso nel genocidio contro i tutsi i tre figli, il marito e il fratello. La mort ne veut pas de moi, edizioni Fixot, è il racconto di come è riuscita a salvarsi. Attualmente Yolande vive a Bruxelles ed è impegnata nella lotta per il riconoscimento internazionale del genocidio e perché giustizia venga fatta. All’intervista partecipa anche Patrick May, coautore del libro di Yolande.

Perché gli assassini si sono impegnati tanto a trovarla?
Intanto l’animatore della radio delle mille colline era un vicino, quindi mi conosceva bene... Poi ero considerata una donna intraprendente e molti uomini non apprezzavano questo. Avevo un ambulatorio privato, curavo la periferia e la campagna di Kigali. Per mancanza di medici in questo paese, le infermiere fanno spesso il lavoro del medico, nel mio ambulatorio facevo piccoli interventi chirurgici, assistevo i parti, facevo tutto come un medico e avevo anche una certa reputazione, se è vero che c’erano persone che, pur abitando molto lontano, venivano da me. Ero considerata una che si dedicava molto al proprio lavoro, i pazienti si affezionavano ed anch’io ero molto attaccata a loro. Nel quartiere ero una con i soldi, e avere un reddito tutti i giorni in un paese povero è importante, ma non ero la sola. Certamente, però, questo ha potuto scatenare anche delle piccole gelosie. Sono stata una delle poche persone che non sono riusciti a trovare...
Lei si è sentita anche profondamente tradita dalle persone che conosceva...
Credo di aver sempre fatto il mio lavoro anche con amore. Ero una privata, le mie cure costavano di più, ma spesso mi capitava di curare persone povere gratuitamente. Mi hanno restituito odio e per questo, in un primo momento, mi sono sentita profondamente ferita, sì, tradita...
D’altra parte, però, so benissimo che non mi cercavano perché avessi fatto qualcosa. Hanno assassinato i bambini, i vecchi nei loro letti, gente di 80 anni. Avevo una vicina molto anziana che ormai non capiva neanche più dov’era, ma l’hanno presa lo stesso, insieme alla figlia, di 45 anni, alla quale avevano già ucciso il marito e i figli; e a quest’ultima hanno detto: "Svestiti e svesti tua madre, sollevala e portala alla fossa"; lei ha preso in braccio sua madre per portarla alla fossa e lì sono state assassinate.
Ho visto uomini correre, in dieci, in venti, rincorrere un bambino di 10 anni, per assassinarlo... Donne hutu sposate con dei tutsi, alle quali già erano stati assassinati i mariti, volendo salvare i figli, li avevano mandati presso i propri parenti; ebbene, spesso gli zii hanno ammazzato questi bambini dicendo alle sorelle: "Erano figli di tutsi, farai altri figli con degli hutu".
Io non ero un caso particolare, niente affatto. Eravamo tutsi, tutto lì. Quello che ancora faccio fatica a capire è perché dovessero anche "giocare". Dovevano assassinare, era un genocidio, ma perché torturare, perché giocare con le vittime prima di ucciderle? Hanno voluto giocare per far vedere che eravamo in mano loro, che eravamo indifesi? E’ per questo che non giustifico chi pensa che si possa perdonare senza giudicare.
A fare i massacri sono stati solo i contadini e i miliziani?
No, anche gli intellettuali hanno preso il machete, anche loro hanno assassinato. E’ stata una follia collettiva che si è impossessata di tutti. Intellettuali ruandesi che si trovavano in Belgio hanno inventato "I dieci comandamenti di un vero hutu"... "Ogni hutu deve smettere di avere fiducia nei tutsi", "Ogni hutu deve sapere che il suo solo nemico è il tutsi"... cose così. (E questi dieci comandamenti sono stati pubblicati in un giornale estremista hutu insieme alla foto del presidente Mitterrand col nostro presidente e il commento "Il vero amico del Ruanda"!).
Ci sono stati momenti in cui la follia sembrava contagiare anche le vittime. Mi dicevo: non è normale che si uccidano i tutsi così, che l’amico diventi un nemico, all’improvviso, ci deve essere una ragione, noi dobbiamo essere colpevoli di qualcosa, se anche il mondo tace vuol dire che siamo veramente dei parassiti da eliminare. Poi ho sentito come se avessi un dovere verso tutte quelle persone che stavano per essere assassinate; mi sono detta: non c’è più nessuno che parli, bisogna che possa vivere per parlare, per raccontare tutto quello che ho visto, l’odio che ho visto, la follia della gente, tutto... Mi dicevo che bisognava poter raccontare perché altri potessero spiegarci quello che era successo.
E ...[continua]

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