Guido Armellini, insegnante, vive a Bologna. Ha curato, insieme ad Antonietta Lelario e Vita Cosentino, il libro Buone notizie dalla scuola, edito da Pratiche Editrice.

Da dove nasce la tua critica radicale alle riforme in corso?
Io mi sono trovato dentro l’Irsae proprio nel momento in cui nelle scuole elementari e medie stavano passando quelle schede di valutazione che sembravano un modello 740, con gli obiettivi, le A, le B, le C, ecc. ecc. Lo stesso Irsae era totalmente impegnato a sostenere l’avvento di quel modello tecnicista della didattica, che io trovavo orrendo, con tutti gli obiettivi, le verifiche, i test, le misure, con la sua pretesa insomma di sottoporre tutto a misurazione. Soprattutto mi sembrava inconcepibile che ciò passasse con una legittimazione e autorità indiscusse. Penso che siano stati spesi dei miliardi in corsi d’aggiornamento per maestri al fine di convincerli ad usare quella scheda e se poi questi recalcitravano venivano pure colpevolizzati perché non ne non capivano l’importanza.
Ora, questo episodio delle schede di valutazione ha veramente influito molto sulla didattica, perché ha assorbito moltissimo tempo degli insegnanti; invece di parlare di Filippo, o di Emanuela, si doveva parlare delle abilità, degli obiettivi e di come misurarli, dopodiché Filippo e Emanuela venivano suddivisi in tanti pezzettini in base alle singole abilità e non comparivano più come esseri umani nella loro completezza con i quali intrattenere una relazione. Queste misurazioni delle abilità dell’essere umano, sempre più minute, sempre più paranoiche, da un lato acuivano un senso di onnipotenza, l’illusione di misurare oggettivamente tutto e, dall’altro, appunto, sottraevano al rischio e all’avventura della relazione con degli esseri umani concreti.
Quindi ho cominciato a scrivere su questi temi e in particolare sulla questione della qualità della relazione come aspetto centrale dell’apprendimento: la soggettività di chi insegna e di chi impara non è un aspetto marginale, secondario, ma quello fondamentale del mestiere dell’insegnante, che nessun modello standardizzato potrà eliminare o mettere da parte. D’altra parte basta che ognuno pensi alla propria esperienza scolastica: io ho imparato dagli insegnanti con cui avevo un buon rapporto, poi potevano essere severi o no, timidi o istrionici, uomini o donne, vecchi o giovani, potevano usare quel metodo o quell’altro. Ma tutte queste cose erano secondarie rispetto alla qualità della relazione, che era una qualità unica, non standardizzabile. Il problema è che questi modelli sono fatti da persone che non insegnano; si è creata una specie di frattura tra chi insegna e chi elabora modelli sull’insegnamento stando all’università, senza vedere mai bambini e bambine nella loro concretezza e corporeità. Nella Lettera a una professoressa c’è questa bellissima frase: "Quelli che insegnano pedagogia all’università, i bambini non hanno bisogno di guardarli in faccia, li sanno a mente, come noi si sa le tabelline".
Su questo tema fondamentale dell’importanza della relazione ti sei trovato in sintonia con le femministe del pensiero della differenza?
Sì, perché, contemporaneamente alla mia riflessione, senza che io lo sapessi, le donne del pensiero della differenza su Via Dogana (la rivista femminista, ndr) scrivevano cose molto simili. Per cui è successo che a un certo punto, dopo esserci letti a vicenda, ci siamo incontrati e abbiamo deciso che bisognava fare qualcosa. Abbiamo fatto un convegno nazionale a Bologna sul tema del valutare: chi valuta chi e perché. E’ venuta parecchia gente da tutta Italia: maestri, maestre, insegnanti, dalle elementari alle superiori, che per due giorni hanno dato vita a un dibattito molto appassionato. E tutto era autofinanziato, senza scatti (adesso gli insegnanti che vanno ai corsi di aggiornamento hanno degli scatti); insomma un convegno un po’ anarchico, volontaristico e spontaneista, ma appassionante, perché si dicevano dei no, ma anche dei sì. Il no è a tutto l’aspetto buro-pedagogico, per dirlo in una parola, e il sì a un mestiere dell’insegnante che ha il suo centro nella qualità della relazione con gli studenti. Abbiamo verificato che la passione per l’insegnare esiste ancora, che c’è una scuola che funziona qua e là e che bisogna partire da quella, cioè dalle situazioni, dai momenti, dai frammenti in cui veramente la relazione tra insegnanti e studenti è buona, in cui la fantasia di insegnanti e studenti è a ...[continua]

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