Rodrigo Andrea Rivas, cileno, in gioventù impegnato a sostenere il governo di Allende, durante l’esilio in Italia è stato direttore del Cespi, di "Radio Popolare" di Milano e di "Mani Tese". Ha insegnato Economia e Scienze politiche -di cui continua ad occuparsi- in varie università italiane e latino-americane.

La parola "globalizzazione" è ormai diventata una parola-feticcio. Ma cosa si dovrebbe intendere realmente con essa?
Credo che quando parliamo di globalizzazione stiamo innanzitutto parlando di una questione economica, anche se l’aspetto culturale è ugualmente importante.
La globalizzazione, insomma, è la diffusione a livello mondiale delle modalità economiche dell’Occidente, ma anche della sua cultura, e con "cultura" intendo sia la grande cultura -quindi le grandi idee, la grande arte-, sia quella spicciola, cioè la moda, il cibo, la musica leggera. Pensiamo solo alla diffusione della musica rock, cominciata addirittura già negli anni ’60, quando tutti ascoltavano e copiavano il rock inglese, i Beatles e i Rolling Stones.
L’elemento assolutamente nuovo che sta emergendo da tutto questo processo è dato dal fatto che oggi tu non trovi praticamente nessuno che non sogni "globalmente". E’ questa, secondo me, la questione fondamentale. L’economia è un pezzo, sicuramente importantissimo, di questo processo, ma l’altro pezzo, fondamentale, sono le idee. Ed è per la forza delle idee che oggi l’abitante di Timbuctù sogna le stesse cose dell’abitante di Marsiglia, con la non piccola differenza che così l’abitante di Timbuctù è ancora più fregato, perché uno che sta a Marsiglia magari non avrà mai la Ferrari, se è questo il sogno, ma può pensare che un giorno diventi possibile, mentre uno che la sogna a Timbuctù sa anche che è assolutamente impossibile che un sogno simile si realizzi, è semplicemente una frustrazione.
In questa mondializzazione non rientra anche il fatto che la consapevolezza di tutta una serie di diritti, finora relegata al solo Occidente, diventa patrimonio generale, anche se per vie traverse?
Il problema è complesso. I diritti come tali -il diritto alla salute, alla scuola, alla casa- continuano ad essere patrimonio dell’Occidente. Se vivi a Milano, e magari abiti in affitto, consideri però che avere una casa decente, nella quale se hai tre figli ci siano almeno due stanze per loro, sia un tuo diritto; mentre in qualsiasi paese del Terzo mondo non passa per la mente a nessuno che la casa sia un diritto: la casa è un sogno, categoria ben diversa. Nel Terzo mondo magari ci sono proteste perché si guadagna poco -e certo molti di quelli che protestano pensano che, se guadagnassero di più, potrebbero avere la casa- ma nessuno pensa di andare a protestare semplicemente perché non ha una casa. Quando c’è stato l’incidente di Bhopal, tutti quelli che sono sopravvissuti hanno dovuto lasciare la città, abbandonando così tutto quello che avevano e rimanendo letteralmente per strada. Ebbene, nelle loro proteste hanno chiesto di essere risarciti per le malattie contratte, per il fatto che gli era morto il padre o il nonno, ma nessuno ha detto: "Abbiamo anche il diritto di avere un pezzo di terra, una casa".
In questo senso i diritti continuano ad essere occidentali, ma non universali, anche se certo va riconosciuto che è già un passo in avanti che qualcuno abbia detto che i diritti valgono per tutti, quindi anche per gli abitanti del Terzo mondo. Probabilmente è un problema di tempo: anche loro, a un certo punto, arriveranno a pensare che la salute, la casa, la scuola, sono dei diritti. In questo percorso, l’elemento paradossale è che, mentre gli abitanti del Terzo mondo si avvicinano al momento in cui potranno cominciare a pensare di essere soggetti di diritto, nel "Primo mondo" quegli stessi diritti cominciano ad essere seriamente minacciati o decisamente persi.
In ogni caso, però, credo che la globalizzazione non vada demonizzata. Un esempio banale, che spiega la mia convinzione, è questo: uno svedese vive in media ottantacinque anni, un senegalese ne vive in media sessantacinque, che sono sempre venti meno dello svedese, ma sono anche venticinque, trent’anni, in più di quanti ne potesse vivere cinquant’anni fa, quando lo svedese poteva sperare di vivere cinquanta-cinquantacinque anni.
Il senegalese, cioè, ha raddoppiato la sua speranza di vita, cosa che non è accaduta allo svedese, e l’ha raddoppiata perché c’è l’aspirina, la penicillina, perché c’è un po’ più di igiene, che de ...[continua]

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