Massimo Cappitti insegna presso il Liceo Marconi-Delpino a indirizzo socio-pedagogico di Chiavari.

Sono nella scuola dall’87, la mia materia è diritto ed economia e i primi sette anni li ho trascorsi in un istituto professionale. Si stava allora concludendo la vicenda della sperimentazione, che è poi quella sulla quale hanno pensato la scuola dell’autonomia, della riforma. Certi profili lavorativi sembravano non reggere più alle nuove richieste del mercato del lavoro, si diceva che quello era ciò che l’ “utenza” chiedeva: “In fondo i ragazzi chiedono di dar loro lavoro”. In realtà era abbastanza evidente che c’erano invece settori della società, delle imprese in primo luogo, che premevano affinché la scuola diventasse funzionale alle loro esigenze.
I professionali sono ormai veri e propri contenitori di ragazzi, molto spesso considerati difficili, per cui l’insegnante cessa di essere tale per diventare, nel migliore dei casi, una specie di educatore-animatore; nel peggiore, assume un atteggiamento di rifiuto, condannando i ragazzi a un destino che sembra essere stabilito da sempre e per sempre.
E pensare che la frequenza all’istituto professionale per molte famiglie resta un momento di elevazione sociale. Io mi ricordo dei colloqui in cui i genitori arrivavano coi figli, proprio accompagnati dai figli, e il genitore aveva un foglietto con le due o tre domande che mi doveva fare; se io chiedevo qualcosa che usciva dalla loro previsione, rimanevano completamente muti e interveniva allora il figlio a fare da mediatore.
Il ragazzo che frequentava quella scuola in genere arrivava con un giudizio molto pesante dalle medie, usciva ai limiti della promozione, con il minimo che gli consentiva di passare la terza media e, senza tener conto assolutamente delle sue capacità, veniva sbattuto dentro questi istituti. Non a caso in quelle scuole la dispersione scolastica è altissima; le percentuali di abbandoni, più che di ragazzi respinti, sono alte. Questo la dice lunga sul fatto che la scuola ribadisce delle differenze sociali, le sancisce; è ovvio, ma è sempre più così; questo è anche un po’ il problema della riforma, che non ha modificato questa situazione, non l’ha toccata nemmeno. C’è chi si trova già tracciata la strada e chi è fuori e fuori rimane.
Dopo 6-7 anni nell’istituto in cui insegnavo c’è stata una grossa crisi di iscritti, così ho chiesto il trasferimento e sono andato in un liceo psico-pedagogico, dove insegno tuttora. In sostanza è una sperimentazione che il liceo classico locale sceglie per fronteggiare il problema del calo degli iscritti. Do questa informazione perché secondo me spiega come ormai ragionino le scuole. Non si tratta più di intervenire in campo educativo, culturale, il problema è quello di mettersi sul mercato e di catturare studenti, è di rendersi appetibili. Per cui se il liceo classico non cattura iscritti perché tradizionalmente è una scuola impegnativa, allora si trova una soluzione che permetta di allettare quello che al classico non ci andrebbe, o casomai ci andrebbe se non ci fosse il greco, oppure se fosse tutto un po’ più facile. In realtà il mio è un istituto magistrale.
In genere qui ho trovato ragazzi più motivati allo studio di quanto non fossero quelli che avevo in precedenza, più o meno però con lo stesso tipo di atteggiamento, con gli stessi disagi, le stesse difficoltà. In realtà non c’è più quella grande differenza che forse c’era ai miei tempi, non lo so. Adesso mi sembra che sia un universo tutto sommato abbastanza compatto, coeso; magari è diverso il modo in cui questo disagio si esprime. Ricordo invece forti curiosità all’istituto professionale, che non ho trovato qui. Anche perché in fondo i ragazzi ti chiedevano forse qualcosa che non trovavano altrove; questi invece hanno probabilmente altri stimoli, magari viaggiano di più.

Già quando ero al professionale hanno cominciato a dire che l’interrogazione orale sarebbe poco attendibile, legata a criteri troppo soggettivi, allora hanno escogitato il sistema dei test. Questo proprio all’interno delle sperimentazioni dei professionali di cui ti dicevo; si va dai test più semplici, vero-falso, a quelli a complessità crescente. Questi garantirebbero una maggiore oggettività della valutazione e si riuscirebbe a raggiungere uno standard comune.
Così però la dimensione della parola scompare e nel contempo è nuovamente una procedura molto impoverita perché puoi congegnare questionari molto complessi, m ...[continua]

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