Terry Greenblat è la coordinatrice di Bat Shalom. Vive a Gerusalemme.

Come nasce il vostro centro, Bat Shalom?
Il centro è stato fondato nell’ambito di un processo avviato nel 1989, quando a Bruxelles un gruppo di rappresentanti israeliani e palestinesi, donne, si incontrarono per parlare della situazione, in particolare del fatto che le donne sembravano estromesse da qualsiasi luogo decisionale. Continuammo poi a vederci, una o due volte l’anno, fino al 1994, e poi si decise di creare una sorta di organizzazione-ombrello, denominata Jerusalem Link, costituita da due Ong indipendenti, autonome, una israeliana, Bat Shalom, e l’altra, il Centro delle donne di Gerusalemme, palestinese. Bat Shalom oggi ha una sede qui a Gerusalemme e una al nord, ad Afula. Il documento costitutivo è in ebraico e in arabo; lavoriamo spesso assieme alle donne palestinesi, in particolare quando sappiamo che la nostra voce congiunta può risultare più efficace.
Quali sono le attività?
Dipende. La situazione cambia continuamente e noi, come organizzazione politica, reagiamo contestualmente a quanto accade attorno a noi. Così c’è stato un periodo, quello iniziale, in cui Bat Shalom ha lavorato principalmente sul piano del dialogo, cercando di far incontrare e conoscere le donne dei due versanti. Non sapevamo nulla, le une delle altre, né sul piano storico, rispetto alle proprie narrazioni, né per quanto riguardava le rispettive speranze, i sogni, ma anche le difficoltà della vita quotidiana, la famiglie, il lavoro, i bambini…
In quegli anni l’obiettivo era di rompere questo isolamento, smantellare gli stereotipi reciproci, tesi a vedere la controparte esclusivamente come nemica. Il primo passo è stato creare contesti in cui le donne avessero l’opportunità di sedersi e comunicare. Perché spesso quando una donna siede e comincia a parlare con un’altra, condivide pezzi della sua vita, della sua storia.
E se io ti racconto di me è molto di più di un semplice incontro. Perché nel racconto si stabilisce una sorta di impegno, di contratto, con te: io ti rendo partecipe di un pezzo della mia vita e tu mi rendi partecipe di una parte della tua. Abbiamo stipulato un contratto, un impegno l’una verso l’altra.
Io tendo a parlare di “dialogo politico”. In altre parole: cercare di creare quante più occasioni possibili, localmente e sul piano nazionale, ma anche internazionale, per incoraggiare le donne, israeliane e palestinesi, a mantenere aperto un dialogo politico efficace, che sia autentico, vero, franco, che non tema di affrontare le difficoltà e le delicate questioni oggi sul tavolo.
Del resto, in un tempo in cui tutti, o comunque la maggioranza di entrambe le società, stanno dicendo che ormai non c’è più una controparte con cui dialogare, che oggi il dialogo semplicemente è impossibile, che altre prospettive si aprono?
Ecco, noi stiamo cercando di individuare altre opzioni, che non siano semplicemente l’annientamento reciproco.
Con il deteriorarsi della situazione, e l’esplosione della seconda Intifada, abbiamo attraversato momenti in cui la costruzione del dialogo era davvero difficile. Anche perché la situazione di disparità, di profonda ingiustizia, a cui i palestinesi sono sottoposti, talvolta diventa un ostacolo quasi insormontabile per l’evolversi di questo tentativo di dialogo. E non parlo solo degli impedimenti oggettivi, il coprifuoco o l’assedio e la chiusura delle città…
Io credo che noi abbiamo deluso le donne palestinesi. Davvero a volte mi chiedo cosa le spinga a proseguire con una tale tenacia, a continuare a fidarsi di noi. Non sono sicura che ce lo meritiamo.
Come si sono svolti i primi incontri? Quali sono state le reazioni delle donne?
Ovviamente è stato molto difficile. Quando due donne si siedono e decidono di investire nella ricerca di una soluzione, senza usare la violenza, senza gridare, senza usare il proprio potere, perché se io sono più forte posso semplicemente importi la mia volontà… insomma, è una sfida.
Bisogna considerare che qui la situazione è in costante deflagrazione e noi non siamo preparate a gestirla, non abbiamo avuto alcuna formazione, non ci hanno insegnato a vedere le nostre responsabilità, ad accettare e comprendere chi vive una realtà radicalmente diversa dalla nostra. La maggior parte di noi è nata e cresciuta in una società che ci insegna a conoscere e rispettare noi stessi, e a pretendere rispetto dagli altri, ma non abbiamo mai davvero imparato a fare lo stesso con ...[continua]

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