Riccardo Sarfatti, architetto e imprenditore, è titolare della Luceplan di Milano

Come è nata la sua impresa?
Luceplan è nata nel ‘78, fondata da tre architetti in anni in cui l’idea che un architetto potesse fare l’imprenditore suscitava un certo scandalo. Alle spalle avevo l’esperienza di mio padre che, con Arteluce, aveva creato la prima azienda d’illuminazione italiana ispirata ai principi dell’architettura moderna, un’operazione culturale di notevole spessore, perché prima di allora erano stati pochissimi coloro che si erano occupati di questo settore in termini di modernità. La sua attività aveva avuto inizio nel ’39, quindi in un momento in cui il movimento dell’architettura razionale aveva già avuto i suoi successi, dovuti all’iniziale collaborazione col fascismo, e i suoi insuccessi, quando si aprì la contraddizione tra le istanze di rinnovamento e i regimi totalitari europei. Dopo la parentesi della guerra la ripresa dell’attività coincise con una straordinaria capacità innovativa in tutti i termini, ad esempio nell’utilizzo della tradizionale struttura produttiva artigianale italiana mirando alla sua evoluzione in senso industriale. Ma l’apporto innovativo fu notevole anche nel settore delle tipologie e del rapporto coi materiali. I materiali tipici italiani (l’ottone, il marmo e l’acciaio) e le nostre tecnologie tradizionali (le tornerie in lastra e quelle in barra o la fusione in terra) venivano utilizzati insieme ai nuovi materiali scoperti dall’industria bellica dei paesi europei più avanzati, soprattutto le materie plastiche, che facevano allora la loro comparsa. In quel periodo nel settore dell’illuminazione erano tre le aziende che, per quanto di piccole dimensioni (40 o 50 operai), potevano definirsi tali: Arteluce, Azucena di Cacciadominioni e Stilnovo, la più giovane. Per tutti gli anni ’50 e ’60 Arteluce fu leader nel settore e il negozio di corso Matteotti divenne un luogo di ritrovo per i giovani architetti. Mio padre però aveva una concezione particolare dell’azienda, non delegava niente, faceva tutto da solo, dal disegnare i prodotti al seguirne la produzione, fino a imbucare la posta la sera prima di rientrare a casa. Era un tipo di organizzazione sempre meno compatibile con le esigenze di una produzione che tendeva ad orientarsi verso il consumo.
Un tipo di organizzazione che lei ebbe modo di sperimentare direttamente...
Sono entrato in azienda nel dicembre del ‘65, subito dopo la laurea. Tenevo molto alla mia autonomia, sia rispetto alla famiglia che ai vincoli aziendali. Nel periodo fra il ’60 e il ’65 si può dire che sono vissuto nella facoltà di architettura del Politecnico, ci stavamo dalle 12 alle 14 ore al giorno, fino a che, il 6 febbraio del ‘63, l’abbiamo occupata. Era la prima occupazione di un’università italiana dopo quelle dei primi decenni del secolo scorso, prima ancora di quelle dei campus americani. Finì il 5 marzo con un successo, ma non fu facile, per prepararla impiegammo sei mesi passati a convincere ogni singola persona; certo, i numeri erano limitati, noi del secondo anno di corso eravamo in 90 e la facoltà nel suo insieme aveva meno di 200 iscritti.
Non avevamo appigli teorici, il ragionamento su che cos’era la facoltà e su come l’avremmo voluta si sviluppava esclusivamente sul piano dell’intuizione e delle aspettative individuali.
Ai tempi del liceo con 4 o 5 compagni coi quali giocavo a pallone in piazza Sant’Ambrogio discutevamo, altrettanto per gioco, sull’idea di dar vita ad una cellula del partito comunista cinese in Italia, eravamo affascinati -per come a metà degli anni ’50 arrivavano le informazioni- dalla mitologia della lunga marcia e delle comuni, puro romanticismo giovanile; a scuola studiavamo Hegel, ma di Marx si sapeva ben poco. Quando poi siamo arrivati ad architettura e ci siamo ritrovati a dover disegnare i capitelli ionici e a fare le prove di resistenza sul cranio umano non capivamo più qual era il mondo in cui stavamo vivendo. I piani di studio erano quelli ereditati dal fascismo, il preside non era cambiato, sentivamo che la nostra era rimasta la facoltà del ventennio, senza nessun rinnovamento. Da lì l’occupazione come ipotesi di smantellamento radicale dell’università fascista: non volevamo più quei professori, quei piani di studio, quel modo di frequentare l’università come fosse un liceo, infatti avevamo gli ex tempore e allora tutti in classe a fare il disegnino o l’espressione matematica. I dissidenti erano ...[continua]

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