Wlodek Goldkorn è giornalista de L’Espresso.

Si parla tanto di antisemitismo. Ma esiste ancora? O meglio: esiste un qualche pericolo antisemita oggi?
Quando si parla di antisemitismo, se si vuol capire qualcosa, bisogna fare una premessa che riguarda il senso di colpa. Ma non tanto quello di cui parlano un po’ tutti, del fatto cioè che l’Unione Europea, come progetto politico, come progetto culturale, come progetto di civiltà (lo dice anche Alan Finkelkraut in una conferenza a New York) si fonda sull’assunto “mai più Auschwitz”. Che l’Europa venga costruita in negativo, sulla memoria della Shoah, mi sembra quasi un’ovvietà. Ma non mi riferisco neanche al senso di colpa che c’è in America, che è ancora più marcato, perché durante la catastrofe non è che abbiano fatto molto per evitarla; loro dicono che non potevano, forse non è vero, ma non ha importanza, fatto sta che hanno fatto poco. Mi riferisco soprattutto a un altro senso di colpa, che è quello personale. Quando si parla di antisemitismo dopo la seconda guerra mondiale, dopo la Shoah, (e ne parlano in genere ebrei, ed è ovvio, o persone amiche degli ebrei o che si sentono spiritualmente ebrei) bisogna partire dal presupposto, assolutamente soggettivo, del senso di colpa che tutti provano. Qualunque cosa uno faccia, un senso di colpa è ineliminabile: un mondo che c’è stato non c’è più; per questo ognuno si sente debitore. Il problema è ovviamente che cosa si fa con questo senso di colpa, che cosa implica, come lo si gestisce.
Quando si parla di antisemitismo oggi, dell’ondata di antisemitismo, io non capisco bene di cosa si sta parlando. Se si parla di anti-israelismo è un discorso, se si parla di un reale movimento antisemita in Europa non ci credo assolutamente. Il sospetto che ho, invece, è che qualcuno, inconsciamente o consciamente, stia pensando che siamo ancora in una situazione come negli anni ‘40, ‘41 e che si possa evitare la catastrofe.
Oggi a New York c’è gente normale che lo pensa, qualcuno lo scrive su giornali, che qui in Europa siamo alla vigilia della Shoah. Allora dire questo non denota solo una certa mancanza nella comprensione delle cose, ma una specie di squilibrio mentale di chi vorrebbe combattere oggi quella guerra che non è stata combattuta allora, la guerra per salvare gli ebrei da Auschwitz. Ma non è che la si può combattere oggi nella propria mente, proiettando sull’Europa pericoli che non esistono. La catastrofe c’è stata, non è stata evitata, ma non credo che domani ci possa essere una minaccia dello stesso tipo per gli ebrei, non ci sono le condizioni, non c’è un movimento antisemita che abbia preso il potere in un grande paese europeo.
Fu la miscela fra antisemitismo e totalitarismo a rendere possibile la catastrofe?
La Shoah è avvenuta in un’Europa dominata da un paese in cui un forte movimento antisemita (e di tipo razzistico, non di tipo culturale -sono molto diversi l’uno dall’altro) ha incontrato un potere totalitario.
Facciamo una parentesi. Si sta diffondendo un falso storico, raccontato spesso anche da ebrei americani, per cui l’Unione Sovietica sarebbe stata un bastione dell’antisemitismo. In Unione Sovietica l’antisemitismo si verifica tra il ‘48 e il ‘53. Dopo il ‘53, poi, in Unione Sovietica avvengono cose antipatiche nei confronti degli ebrei, che però non sono causate da una volontà specificatamente antiebraica, bensì dall’ingegneria etnica sovietica. La svolta antisemita avviene di nuovo nel ‘67 con la guerra dei sei giorni. Nel frattempo l’America era antisemita. In America durante la seconda guerra mondiale non si parlò dello sterminio degli ebrei, Roosevelt non voleva, perché “altrimenti -diceva- la gente penserà che stiamo facendo una guerra per gli ebrei”. In America in certi circoli gli ebrei non potevano entrare, in molte università non potevano essere professori, in molti condomini non potevano abitare. A Park Avenue, a Manhattan, gli ebrei non potevano prendere casa. E anche in America la svolta, in senso contrario rispetto all’Unione Sovietica, avviene nel ‘67 con la guerra dei sei giorni.
Ho detto questo per dire che né in un caso né nell’altro si è rischiato di arrivare a qualcosa che anche lontanamente potesse assomigliare a quello che l’intreccio fra antisemitismo e totalitarismo portò in Germania. Quindi tanto meno, francamente, vedo un pericolo del genere oggi. Nessuno si sente minacciato. E se uno domani ti insulta in quanto ebreo, in tutti i paesi europei, tutt ...[continua]

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