Giulia Moroncelli ha 81 anni e vive a Castione Andevenno in provincia di Sondrio.

La cosa che ho fatto più di tutto nella vita è stato lavorare. Fin da piccola. Ho cominciato a cinque anni, per cui se posso dire che per un po’ il pane della mia mamma l’ho anche mangiato, quello del mio papà proprio mai; lui infatti è partito per l’Australia che io non avevo ancora due anni, alla fine del ‘26, ed è stato là nove anni e mezzo. Allora per noi era un po’ come oggi coi marocchini, andavamo là clandestini e tribulavamo per cercare il lavoro, in più c’era crisi pure in Australia e così non riusciva a mandarci niente e non poteva contribuire alla famiglia, lavorava per mangiare. Ha fatto un po’ di tutto, nelle miniere, nei boschi, ha girato tanti posti, poi nel luglio del ‘35 è tornato. Io avevo fatto i 10 anni in aprile, per noi è stata una festa, una grande cosa, però la nostra vita non è cambiata: ho continuato a lavorare come prima. Per questo dico che il pane del mio papà non l’ho mai mangiato. Allora aiutavo la mamma in campagna; noi bambini facevamo quello che riuscivamo, zappavamo il prato, dovevamo rastrellare, portare il fieno e il letame. Al posto della palla ci han comprato il gerlatt, la gerla piccolina, poi, in base all’età, ce lo compravano sempre un po’ più grande, finché si arrivava al campacc, il gerlo più grande. Quelli lì erano i nostri sfoghi. Per tenerci al pari con la scuola la mattina ci portavamo il libro per studiare la lezione mentre andavamo al pascolo con le pecore, la sera si faceva il compito e la mattina si leggeva la lezione, poi alle nove si andava in classe fino a mezzogiorno, si rientrava alle due e si tornava a casa alle quattro. Al giovedì c’era riposo, allora si faceva festa e si andava volentieri anche in campagna, perché la scuola ci annoiava. Non che la scuola non andasse bene, anche i genitori ci mandavano volentieri, ma io, per modo di dire, ero ignorante, non ero tanto brava e per me era difficile la scuola: un giorno c’era matematica, un altro storia o italiano o grammatica, e ogni giorno c’era il suo compito. Si capiva che bisognava andare, perché s’imparavano tante cose, ma forse più che altro ero un po’ timida e quindi facevo più fatica, però tutte le maestre mi volevano bene e poi sempre, ovunque sono andata, mi hanno voluto bene. E comunque, se anche avessi imparato, che cosa potevo fare? Niente. Ne ero convinta già da piccola, non era come adesso, praticamente io ho fatto la quinta e basta, di più non si poteva fare, sì, qualcuno andava alla media, ma a Castione erano forse due o tre e dovevano andare fino a Sondrio a piedi. I miei poi non hanno mai insistito per mandarmi avanti a studiare, eravamo poveri, bisognava arrangiarsi. Da mangiare ce n’era, la patata, poi ogni quindici giorni si faceva il pane, alla fine aveva su la muffa ma lo mangiavi lo stesso, una volta tanto si mangiava anche la carne, avevamo le galline e la pecora, per la festa. Grossi divertimenti non ne avevamo, c’era il gioco della palla (con la palla fatta da noi con le pezze), quando pioveva invece noi bambini ci si radunava tutti in un fienile a far la tombola di fagioli, perché non avevamo neanche le carte da giocare; tra di noi non parlavamo tanto, non c’era molto da dire, non avevamo niente, neanche le scarpe, solo zoccoli. Il mio primo paio di scarpe l’ho avuto a 14 anni, preso col primo stipendio quando ero andata a servizio a Como. Mi aveva trovato il posto una mia cugina di 18 anni; la mamma mi aveva lasciato scegliere se andare o no, sono andata perché qui c’era miseria, non c’era la pensione per il papà e la mamma. Il viaggio me lo ricordo tutto, avevo dovuto dire alla mia cugina come mi sarei vestita così il padrone poteva riconoscermi alla stazione, era la prima volta che vedevo una città grande, e non l’ho poi neanche mai vista tutta, quel giorno ho visto solo il pezzo dalla stazione a casa dei padroni, due sposini siciliani, lui era ingegnere e lei stava in casa col bambino. Poi lui l’hanno richiamato soldato e noi siamo rimaste sole, non so dove l’avevano assegnato, comunque tornava una volta al mese. Con loro stavo bene, erano bravi, ma, pur poveri che eravamo, mi mancavano i miei genitori e i miei fratelli, anche se la mia vita era cambiata in meglio. Il mio primo stipendio era stato di 45 lire e avevo potuto comperare le scarpe, perché alla festa c’erano due ore di libera uscita e mi trovavo con la mia cugina e altre persone di Castione che erano giù anche loro ...[continua]

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