Una città n. 282

una città 27 appelli 17 marzo 2022 Il vertice europeo di Versailles ha perso una grande occasione per stabilire, in un luogo altamente simbolico, un nuovo ordine postbellico per l’Europa. Non siamo dei sognatori. Sappiamo che entrare nell’Unione europea (Ue) non è una passeggiata e che l’Ucraina è, in linea di principio, soggetta alle stesse procedure dei paesi candidati dei Balcani. Eppure c’era l’opportunità di gettare le basi per un’unione politica preliminare a una futura piena adesione. Invece, i capi di stato hanno preso la via procedurale, come se le regole di routine dell’Ue si applicassero sempre, anche in un caso così estremo come una guerra in Europa. Ancora una volta, le argomentazioni dei tecnocrati europei hanno sostituito il progetto di libertà e di pace. D’ora in poi l’Unione europea non sarà più l’unione economica che abbiamo conosciuto. Senza volerlo, Putin l’ha riportata alle sue origini di alleanza normativa e istituzionale. O, almeno, questo è quello che dovrebbe tornare a essere. Ormai non si tratta solo di proteggere l’Ucraina dall’aggressione russa, ma anche di rafforzare la protezione dei nuovi membri, soprattutto i paesi baltici, e di includere tutti gli Stati che desiderano entrare nell’Ue. Una nuova guerra è possibile Un “triangolo di Weimar allargato” è necessario per vigilare, in particolare sullo sviluppo regionale e concertato della politica di sicurezza dell’Ue. Questo triangolo Germania- Francia-Polonia e gli Stati baltici dovrebbero impegnarsi in una cooperazione rafforzata in materia di politica di sicurezza, anche nel campo delle armi nucleari, se necessario. Il Regno Unito, da parte sua, deve ricostruire l’alleanza politica che ha incautamente abbandonato. Ma una maggiore protezione contro la Russia richiede anche di affrontare i cavalli di Troia di Putin, come l’Ungheria di Orban o la Serbia di Vucic. Questo ovviamente solleva delle domande sulla stessa appartenenza all’Ue dell’Ungheria e sullo status di candidato della Serbia. In questo contesto, la Bosnia Erzegovina merita un’attenzione speciale. I politici serbi di Banja Luka e Belgrado stanno alimentando tendenze secessioniste. Trent’anni dopo l’inizio della guerra in Jugoslavia, la fragile confederazione della BiH è minata e una nuova guerra tra gruppi etnici diventa possibile. I separatisti della “Grande Serbia” possono certamente contare sul sostegno attivo del regime di Putin. Il piano alla base di queste manovre vergognose è stato reso esplicito da Vladimir Putin fin dal 2008 in Georgia e nel 20132014 in Ucraina. L’Unione europea non ha battuto ciglio. Ha preferito ignorare le provocazioni e gli annunci del Cremlino. Infine, ha minimizzato le forze centrifughe e le intenzioni di coloro che, da Marine Le Pen a Viktor Orban, vogliono rompere l’Unità europea o addirittura lasciare l’Ue. Mentre Putin preparava meticolosamente i suoi piani di attacco, la dipendenza energetica dell’Europa aumentava drasticamente, contemporaneamente la difesa tedesca diminuiva in proporzione inversa. Una situazione attivamente incoraggiata, soprattutto in Germania, dai principali attori politici. E questo nonostante la chiara evidenza di un neo-imperialismo russo. Questo ci costringe oggi alla necessità di un impegno particolare. Imparare la lezione di Sarajevo Al risentire gli spari, gli europei si sono riuniti di nuovo per difendere i loro valori e le loro istituzioni. Insieme, hanno adottato sanzioni contro la Federazione Russa e consegnato armi all’Ucraina. Queste iniziative non possono però evitare le sofferenza dei civili, e nemmeno mitigarle. Se abbiamo fallito non attivando queste sanzioni e non fornendo le armi non appena l’esercito russo si è schierato alle frontiere nel 2021, possiamo ancora evitare che sia troppo tardi per la Bosnia e Erzegovina. Nel 1992, quando Sarajevo era sotto assedio, abbiamo chiesto un energico intervento europeo. Ma è stato inutile. C’è voluto un genocidio perché finalmente l’intervento avesse luogo. Un intervento che è arrivato troppo tardi e che non è stato in grado di portare a una pace duratura nei Balcani. Oggi, l’Ue dovrebbe dimostrare di aver imparato la lezione e dichiarare inequivocabilmente le sue intenzioni di integrare la Bosnia e Erzegovina in un’unione politica che fornirebbe assistenza in caso di provocazione o aggressione. Una tale alleanza sarebbe un avvertimento contro i separatisti serbi. Dovrebbe quindi imporre alla Croazia e alla Slovenia il pieno sostegno alla Federazione di Bosnia e Erzegovina e permettere la creazione di un ordine postbellico stabile nei Balcani. Il governo serbo deve capire che se mina la precaria pace nei Balcani e cerca di seguire l’esempio di Putin espandendo il suo territorio, può dire addio al suo status di candidato all’U2. I serbi devono scegliere da che parte stare Putin e il suo “mondo russo” hanno avuto, come sappiamo, un precursore nientemeno che in Slobodan Milosevic, il cui “mondo serbo” prevedeva il rimpatrio dei popoli della Bosnia e del Montenegro a immagine delle “etnie” russe del Donbass nel 2014. Il sogno di Milosevic è finito alla Corte penale internazionale. I serbi di Banja Luka e Belgrado devono scegliere da che parte stare. Milorad Dodik si è opposto alle sanzioni contro la Russia. I russi (e i cinesi) vicini a Putin continuano ad andare e venire a Belgrado senza essere disturbati. Un chiaro segnale a favore della Bosnia e Erzegovina e del Montenegro, già membri della Nato, dimostrerebbe che questi due Stati sono considerati come appartenenti al mondo democratico e che hanno il loro posto in un’Europa allargata. Gli sforzi per allontanarsi dalla proporzionalità etnica nelle leggi elettorali e nell’amministrazione statale stanno trovando un crescente sostegno nella società civile bosniaca. Soprattutto tra i giovani che hanno capito che il nazionalismo etnico non offre prospettive di pace e prosperità. C’è la possibilità che Putin abbia, ancora una volta, rafforzato involontariamente la coesione politica dell’Unione europea? (traduzione a cura di Bettina Foa) Daniel Cohn-Bendit, ex membro del Parlamento europeo; Timothy Garton Ash, professore di studi europei all’Università di Oxford (Regno Unito); Pawel Karolewski, professore di teorie politiche e democratiche all’Università di Lipsia (Germania); Claus Leggewie, professore di scienze politiche alla JustusLiebig di Giessen (Germania). (appello pubblicato su “Le Monde”) L’UCRAINA E LA BOSNIA UNA CITTA’ Redazione: Barbara Bertoncin, Giorgio Calderoni, Stefano Ignone, Silvana Massetti, Giovanni Pasini, Paola Sabbatani, Gianni Saporetti (direttore), Giuseppe Ramina (direttore responsabile). Collaboratori: Isabella Albanese, Katia Alesiano, Rosanna Ambrogetti, Oscar Bandini, Luca Baranelli, Michele Battini, Amalia Brandi Campagna, Dario Becci, Antonio Becchi, Alfonso Berardinelli, Sergio Bevilacqua, Guia Biscàro, Stephen Eric Bronner, Thomas Casadei, Flavio Casetti, Alessandro Cavalli, Giada Ceri, Luciana Ceri, Francesco Ciafaloni, Michele Colafato, Luciano Coluccia, Francesca De Carolis, Carlo De Maria, Ildico Dornbach, Bruno Ducci, Fausto Fabbri, Roberto Fasoli, Adriana Ferracin, Enzo Ferrara, Bettina Foa, Vicky Franzinetti, Andrea Furlanetto, Iacopo Gardelli, Wlodek Goldkorn, Belona Greenwood, Joan Haim, Massimo Livi Bacci, Giovanni Maragno, Emanuele Maspoli, Lisa Massetti, Franco Melandri, Annibale Osti, Cristina Palozzi, Cesare Panizza, Irfanka Pasagic, Andrea Pase, Lorenzo Paveggio, Edi Rabini, Alberto Saibene, Ilaria Maria Sala, Massimo Saviotti, Sulamit Schneider, Massimo Tirelli, Fabrizio Tonello, Alessandra Zendron. In copertina: foto di Sipa/Usa. Hanno collaborato: Sheri Berman, Taras Bilous, Zoran Herceg, Lea Melandri, Adriano Sofri, Michael Walzer. Proprietà ed editore: Una Città società cooperativa. Cda: Rosanna Ambrogetti, Barbara Bertoncin, Giorgio Calderoni, Enrica Casanova, Francesco Ciafaloni, Stefano Ignone, Silvana Massetti, Giovanni Pasini, Paola Sabbatani, Gianni Saporetti, Massimo Tirelli. Questo numero è stato chiuso l’11 aprile 2022.

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