Una città n. 285

una città 39 lettere, rubriche, interventi Si tratta di uno sconvolgimento nel corso del quale datori di lavoro e Stato saranno buttati fuori dai produttori organizzati. I nostri intellettuali che sperano di ottenere i primi posti della democrazia, saranno rimandati alla loro letteratura; i socialisti parlamentari, che trovano nell’organizzazione creata dalla borghesia i mezzi per esercitare una certa parte di potere, diventeranno inutili. (Ibidem, pagina 398) In quella lotta fra lavoratori da un lato, datori di lavoro e Stato dall’altro, che non potrà che essere una “guerra sociale”, ogni mediazione culturale e istituzionale, incarnata da intellettuali e da politici parlamentari, sarà eliminata, epurata con l’uso della violenza: La guerra sociale alla quale il proletariato non cessa di prepararsi all’interno dei sindacati, può produrre gli elementi di una civiltà nuova adatta a un popolo di produttori. Non mi stanco di richiamare l’attenzione dei miei giovani amici sui problemi che presenta il socialismo considerato dal punto di vista di una civiltà di produttori; mi è dato constatare che oggi si va elaborando una filosofia che segue un disegno che qualche anno fa si supponeva a malapena: questa filosofia è strettamente legata all’apologia della violenza [...]. L’idea dello sciopero generale, prodotta dalla pratica degli scioperi violenti, comporta la concezione di uno sconvolgimento che non accetta riforme. Vi è in ciò qualcosa di spaventoso [...] ma nell’intraprendere un’opera grave, terribile e sublime, i socialisti si levano al di sopra della nostra società frivola, e si rendono degni di insegnare al mondo vie nuove. (Ibidem, pp. 398-99) Continuamente evocato solo per essere continuamente liquidato come uno degli “errori” che il movimento operaio e la sinistra (riformista, socialdemocratica) devono assolutamente evitare, in realtà il “sorelismo”, l’anarco-sindacalismo e lo sciopero insurrezionale violento non hanno mai smesso di circolare. La sinistra non ha mai cessato di essere attratta da ogni logica di estremizzazione, in nome di una più coraggiosa, o immaginaria, coerenza. La violenza moralmente, filosoficamente giustificata ha un forte magnetismo pratico-simbolico anche quando, come oggi, appartiene più alla società dello spettacolo che alla storia delle rivoluzioni sociali. Ma l’idea stessa di rivoluzione è diventata, in particolare dagli anni sessanta in poi, un’idea-mito più culturale che politica. Da quando neppure l’essere o il sentirsi comunisti richiede più che si pensi nei termini della teoria di Marx o di Lenin o di Gramsci, da allora rivoluzione è idea e gesto, un’evocazione e allusione culturalista e filosofeggiante, senza per questo avere un reale contenuto politico e pratico. Le maschere culturali oggi si moltiplicano e vengono indossate da chi immagina di essere ciò che non è. La stessa violenza è diventata di per sé un mito culturale di massa e di consumo, che poi di tanto in tanto esplode in azioni criminali inconsulte e insensate. Tornando al primo Novecento, anche un marxista come Gramsci, benché sostenesse la necessità di un Partito comunista come guida del proletariato, non parlò con disprezzo di Sorel. Più tardi però Sorel parlò con ammirazione sia di Lenin che di Mussolini, il che certo non rassicura sulla sua capacità di discernimento e sulla attendibilità delle sue valutazioni politiche. La questione della guerra è insieme così depressiva e angosciante (di cosa è fatta l’umanità? Perché torniamo sempre a queste terribili pagine?) e così difficile da interpretare che onestamente non ho molta voglia di parlarne e non mi pare di avere nulla da dire, se non condividere il grande stordimento che provo. Il succedersi di emergenze “assolute” sembra la cifra del nostro tempo: già il tema dell’anti-vaccinismo ha perso di interesse e di presa sulle coscienze non appena avevamo iniziato a ragionarci con calma insieme. E ora eccoci qui. Provo comunque a dire poche cose. Cartine e carte Usciti i virologi, nei talk show sono entrati in massa i geopolitici. E dal dilagare dei grafici sulla diffusione del Coronavirus (le diverse “ondate”, “appiattire la curva”…) si è passati al trionfo delle “cartine”. “Vediamo sulla cartina…”, “in rosso sulla cartina…”, “se la regia ci mostra la cartina…”. Una delle prime cose che insegno ai miei studenti all’università è che “cartina” non è un termine corretto: si parla di “carte geografiche” e non di “cartine”. Al di là della questione terminologica e del diminutivo inappropriato, c’è un punto di grande rilievo in questa inflazione di infografiche di zone occupate, assi di penetrazione, target militari, linee di scontro. La “geopolitica”, almeno quella a uso dell’informazione massmediale, è una semplificazione estrema di una materia, la geografia politica ed economica, che ha ben altro spessore: la “cartina”, che è la sintesi più efficace della geopolitica, semplifica drasticamente questioni complesse, schiacciandole in una geometria di relazioni di potere e di scontri di forza, che finiscono con l’ignorare o, quando va bene, nel dare per scontato tutto ciò che è la “vita” del territorio e delle genti che lo abitano. Le “cartine” sono strumenti persuasivi più che interpretativi: il consiglio che mi sento di dare è di guardarle sempre con un certo sospetto. Altra cosa è il tessuto di relazioni, di storie, di vite che si muovono in quegli spazi, o meglio si muovevano, perché oggi quel tessuto in Ucraina, come in Siria, in Yemen e in tanti troppi altri luoghi, è lacerato, dilaniato e chissà quando e come potrà iniziare a essere rammendato. Eventi e processi Il sinologo François Jullien ha descritto come il pensiero cinese sia orientato al processo, alla trasformazione silenziosa, piuttosto che all’evento, all’accadere subitaneo e fragoroso. Forse anche per questo ci risulta così difficile capire la strategia cinese, pure in quest’ultimo frangente. C’è senz’altro un’antica saggezza nel volgere lo sguardo ai processi silenziosi piuttosto che agli eventi puntuali e assordanti. Vorrei allora provare a uscire dalla prospettiva dell’evento, per quanto terribile esso sia e nonostante la forza con cui esso invade la nostra coscienza, per provare a ragionare in termini di processo. In particolare mi vengono in mente due processi, silenziosi ma possenti: il primo è relativo al ruolo dei combustibili fossili nelle “necropolitiche” contemporanee; il secondo invece ha a che fare con la circolazione di derive psicotiche e paranoiche nel “buco nero” della globalizzazione. Tutti e due questi processi sono evidenti nella crisi attuale: da una parte, per il peso del petrolio e soprattutto del gas come arma di ricatto nei confronti dell’Europa da parte di Putin, dall’altra nell’ampio e disturbante utilizzo di materiali complottisti e di miCarte e cartine di Andrea Pase

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