una città n. 295 mensile di interviste settembre 2023 euro 8 Forlì, settembre ’44
una città 2 la lettera di Maria Carcere Civile, Forlì, 13 Settembre 1944 Carissimo Giorgio, mio solo tesoro, Oggi è un mese che sono arrivata qui. La disgrazia avvenne l’8 agosto, nel pomeriggio. Eravamo a Camerigiolo, in un podere, a circa 6 chilometri da S. Angelo, in cui eravamo rimasti come sfollati per sei settimane, quando sette soldati tedeschi armati della polizia, ci hanno fatto prigionieri. Ci hanno perquisito i bauli, togliendoci tutti i documenti, le lettere ecc. Poi ci hanno portato ad Urbania, vicino a S. Angelo, dove siamo stati detenuti dalla polizia fino al 12 Agosto. Siamo arrivati qui la mattina del 13 Agosto, dopo una notte intera di viaggio su un autocarro. Il tuo povero padre fu portato via il 5, di sera, con altri otto ebrei a lavorare in Germania. Giorgio carissimo, fino a quando tuo padre era qui potevo almeno vederlo tra le sbarre guardando dalla finestra. La vera tragedia comincia quando sono rimasta qui sola, con il cuore straziato dalla pena e dalla tortura, al pensiero della fine che potrebbe aver fatto il tuo povero padre e di ciò che accadrà a me. Ci sono sette di noi qui, tutte ebree, che aspettano di essere portate via in ogni momento. Ti sto dando tutte queste informazioni, caro Giorgio, così che quando la guerra sarà finita conoscerai tutti i dettagli necessari per rintracciarci o per sapere cosa ne è stato di noi. La polizia ci ha consegnato al Qg delle SS tedesche, noi ora dipendiamo da loro. Tutte le proprietà di valore che avevamo addosso ci sono state confiscate; a tuo padre hanno preso 1.370 lire e 1.000 lire a me. Ci hanno tolto anche gli anelli nuziali, che noi tenevamo come sacri e come i simboli della nostra unione matrimoniale. Hanno portato via anche la sveglia che ci avevi regalato. Mi hanno lasciato 100 lire così che ho potuto comprare della frutta. Ho aiutato tuo padre con la frutta per quanto ho potuto ma ora, Caro Figlio, tuo padre è senza un soldo. Non ha né mezzi né vestiti invernali. Preghiamo solo Dio giorno e notte che ci aiuti e ci faccia ritrovare tutti insieme. Che Dio ci aiuti presto e ci salvi. Le cose sono molto tristi per noi; il mio solo desiderio ora è quello di salvare la mia vita e di trovare tuo padre sano e salvo e te carissimo Figlio. Se sarà desiderio di Dio quello di non salvarci, mio carissimo Giorgio, sarò felice se un giorno potrai venire a S. Angelo in Vado a trovare la nostra cara padrona di casa, insegnante, Signorina Wilna Clementi, Via Zuccari n. 18. Questo spirito nobile e sua sorella Edda, sono state molto gentili con noi; ci hanno sempre aiutato e ci sono state vicine nei momenti di sconforto. In quest’ora così grave il mio spirito è con loro e con i loro figli, e pure con il marito di Edda, Carlo. Il mio cuore è pieno di gratitudine e saluti. Con Wilna sono rimaste tre scatole piene di nostre proprietà, magari è riuscita a salvare qualcosa. Forse è riuscita a tenersi le mie due pellicce, una macchina da scrivere Olivetti, un po’ di argenteria e della biancheria. Tutte le altre cose ci sono state tolte dai tedeschi, e dopo l’arresto ci è stato preso tutto quello che avevamo addosso. A Camerigiolo, l’ultimo posto dove abbiamo alloggiato, i padroni di casa Annibale e Augusta Bigini, erano nostri amici. Magari riuscirai a trovare anche loro a S. Angelo in Vado, a casa loro in Piazza Garibaldi. Erano presenti quando ci hanno portato via. Ho consegnato alla signora Augusta una scatola che ci era stata spedita da G.B. il cugino di tuo padre. Forse questa scatola è stata tenuta per te. Il Signor Annibale teneva i nostri due bauli nel suo armadio. Uno era pieno di vestiti, mentre nell’altro c’era della biancheria. Vedrai se questi oggetti sono ancora là. Non troverai il secondo baule con i vestiti e gli oggetti di valore e neppure la borsa grande con la biancheria da letto poiché erano nel rifugio dove vivevamo. Ma troverai sicuramente tutto quello che Wilna è riuscita a tenere per te, a casa sua. Mentre ero qui, in prigione ho consegnato due fotografie alla Sorella Valeriana che con me è stata come una madre. Le fotografie sono tue, di quando eri bambino; le ho consegnato anche un diario su di te del 1925, scritto da me. Le ho dato anche una penna stilografica, un regalo che mi fece tuo padre nel 1938, una comune collana di corallo, e altre tre spille. Tieni queste cose, caro Giorgio, come le ultime di tua madre e come ultimo saluto. Se Dio vuole, tutto potrebbe ancora finire bene, e noi potremo ancora ritrovarci tutti insieme ed essere felici. Chiedo a Dio con tutto il mio cuore e il mio spirito questa grazia. Sono molto modesta adesso, Giorgio. Non penso a cose terrene, il mio solo pensiero è quello di ritrovare tuo Padre e di poter stare ancora con te. Se Dio mi farà questa grazia sarò felice con quel poco che possiedo. Non chiedo nient’altro, carissimo Giorgio, e spero che tu sia in buona salute e in buone condizioni. L’ultima volta che abbiamo ricevuto tue notizie è stato con il telegramma del 19 Agosto ’43; il giorno del mio compleanno. Tutte le altre lettere dal luglio ’43 al dicembre ’43, ci sono state rispedite nel 1944 con un francobollo che diceva ‘Servizio Sospeso’. Abbiamo spedito alcuni messaggi attraverso la Croce Rossa. Non sappiamo cosa tu stia facendo né dove tu sia al momento, Carissimo Figlio. Spero che tu sia stato in grado di studiare come hai sempre desiderato, carissimo Giorgio. Quando eri piccolo sei sempre stato la mia gioia e il solo scopo della mia vita. È stato il volere di Dio che ci separassimo quando eri ancora un bambino, a soli 14 anni. Sono passati più di sei anni da quando ci siamo separati. In questi anni sarai cresciuto molto, Figlio mio; avrai anche sofferto, caro. Quanto sto aspettando ed ho aspettato il giorno in cui ti potrò riabbracciare. Adesso, mentre scrivo questa lettera, e credo che il Buon Dio ci farà la grazia, mi faccio coraggio e paziento. Giorgio, caro, immagino che tu sia un uomo buono e bello; come vorrei poterti vedere, forte, coraggioso, e capace di crearti una vita indipendente. Vorrei vederti sposato ad una brava ragazza che sia in grado di darti la felicità che desideri. Vorrei poter vedere i tuoi figli; mi piacerebbe avere un nipotino mio. Dio, fammi la grazia di riuscire a vivere per te e per tuo Padre. Sii buono mio caro Figlio e moderato in tutto. Non chiedere troppo dalla vita. Se sarai abbastanza fortunato di vivere nell’abbondanza, pensa sempre a coloro che sono poveri e sfortunati. La fortuna va e viene, così pensa ad essere in buona salute, soddisfatto del tuo lavoro e felice nella vita con la tua famiglia. Che Dio ti benedica Carissimo e sia sempre con te. Ti mando tutto il mio cuore e tutto l’amore più tenero di una madre e tutti i miei pensieri. È un peccato che non riesca ad esprimere in italiano tutto quello che vorrei dirti. Porta il mio amore ai parenti che riuscirai a rintracciare e a tutti i nostri amici, soprattutto a M.B. Ti abbraccio con le mie povere braccia afflitte, esauste, ma pur ancora piene di speranza. Spero che tuo Padre sia ancora in Italia e che non sia stato mandato in Germania. Perdonami, Caro Figlio, per le volte che sono stata cattiva con te; sono stati momenti di nervosismo, perdonami poiché ti amo davvero tanto. Tua Madre. P.S. 17 Settembre 1944, questa mattina ci portano via. I migliori Auguri. Tua Madre. Questa è la lettera che Maria Rosenzweig Pacht scrive al figlio Giorgio che non vede da anni e che è in Svizzera. La lettera si chiude con un post scriptum del 17 settembre ’44, il giorno in cui Maria, insieme ad altre sei ebree, verrà fucilata dalle SS tedesche. Dieci giorni prima erano stati fucilati diciassette detenuti fra cui il marito Karl Joseph. In copertina: una facciata della lettera di Maria, da microfilm dell’archivio militare inglese. CON LE MIE BRACCIA AFFLITTE, ESAUSTE
una città 3 Ci restavano ancora sette ebree, mogli o parenti degli uccisi, a loro non avevamo detto la verità sui loro cari, ma che erano stati fatti partire per la Germania, ove fra breve li avrebbero raggiunti. Credevamo davvero che le donne sarebbero state risparmiate, perché un ufficiale delle SS ci aveva assicurato che le avrebbero rimpatriate. Le preparammo quindi a partire dando loro cibo e una quantità di mele. Ma quando fui in giardino mi ferì la già nota allucinante visione: camionette, mitra! [...] Una nel salire inciampò e un pacchetto si ruppe lasciando correre via tutte le mele, io mi precipitai a raccoglierle, i tedeschi mi lasciarono fare, anzi lasciarono pure che le riconsegnassi. Questa clemenza mi dette speranza e seguii il corteo più sollevata, ma quando vidi le macchine piegare sulla sinistra, invece che andare dritte per la via del Comando, la speranza si frantumò e mi sommerse un'onda di desolazione. Poche ore più tardi sapemmo la terribile realtà; erano state fucilate come gli altri, alle “Casermette”, nelle buche prodotte dalle bombe... (dal diario di suor Pierina Silvetti) RESTAVANO ANCORA SETTE EBREE...
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una città 5 le fosse comuni Il 9 marzo del 1945 i soldati inglesi aprono le fosse comuni. Sono passati solo cinque mesi e mezzo circa. I corpi sono riconoscibili e infatti le suore, addette al reparto femminile del carcere, pur sconsigliate vivamente dal Vescovo, perché la scena poteva essere “troppo impressionante”, andranno a riconoscere le donne e identificheranno anche il corpo di Alfred Lewin, probabilmente perché lo conoscevano bene per via dei rapporti con la madre. Che fossero riconoscibili lo attesta anche il fatto che parenti delle vittime italiane porteranno via i corpi dei loro cari per seppellirli nelle tombe di famiglia. Ai secondini invece verrà dato l’ordine di non andare. Il danno di tale inspiegabile noncuranza sarà irreparabile: tante tombe resteranno senza nome per sempre. Dopo dieci anni, nel 1955, i “resti mortali” verranno tumulati nei loculi che si intravedono nella foto dell’ossario alle pagine 8 e 9: lassù, nella seconda fila da sinistra, prima quelli col nome e poi, a seguire, tutti quelli anonimi. Lì sono rimasti fino al 1992. Nelle pagine che seguono, i certificati della tumulazione in cui compare anche la causa della morte, redatti nel 1945 e che riportano: “colpi di arma da fuoco” per i più, ma per una donna “strangolamento con benda”, per altri si indicano anche “ferite alle gambe” e per un altro la causa di morte è “soffocamento”. Secondo la ricerca fatta dall’Istituto storico della Resistenza di Forlì il battaglione che operava in quel periodo a Forlì, responsabile degli eccidi, era lo stesso delle Fosse Ardeatine.
una città 6 i certificati
una città 7 i certificati
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una città 9 l’ossario
una città 10 il convegno del ‘92 Vorrei innanzitutto ringraziare gli organizzatori di questa manifestazione e l’università che ci ha ospitato, per averci dato la possibilità di incontrare il pubblico di Forlì. Io lavoro come ricercatrice presso un centro studi di Milano che da parecchi anni si è posto come finalità quella di cercare di ricostruire l’ambiente e i nomi delle persone arrestate e scomparse in Italia durante l’occupazione tedesca e la Repubblica Sociale Italiana, tra il ’43 e il ’45. Questo lavoro fu iniziato da uno storico francese, Serge Karlfeld, che negli anni Settanta si mise in testa di ricostruire l’elenco esatto degli ebrei che, dalla Francia, erano scomparsi nel nulla. Si parlava di centomila persone di cui non si avevano più tracce, ma non c’era nessun lavoro organico che ricostruisse il loro destino. Ricerche di questo genere furono fatte in seguito anche in Belgio, in Olanda, in Germania, per la parte ex-federale, e ora anche in Italia. In questo lavoro ho speso tredici anni della mia vita, ma era un lavoro che era già iniziato ben prima di me. La finalità principale -che ne è anche una lettura un po’ morale- è quella di restituire un volto, una personalità, una dignità a persone destinate a scomparire nel nulla. La ricerca va quindi nell’esatto senso contrario a quello inteso dalle finalità naziste. Che cosa avevano in testa i nazisti per gli ebrei d’Europa? Dal 1941 in poi, avevano in testa di eliminarli completamente, non solo fisicamente, ma di eliminarne anche il ricordo, la memoria, la cultura, i beni, la possibilità di generare figli. Il procedimento che venne loro applicato fu studiato e portato a termine scientificamente. Questa gigantesca impresa, che i nazisti chiamavano la “soluzione finale” del problema ebraico, iniziò appunto nel 1941 ed ebbe conclusione solamente con la liberazione dell’Europa nel 1945. Nel frattempo la maggior parte della comunità ebraica europea era stata distrutta. L’Europa era il luogo più abitato da comunità ebraiche; c’era una Polonia popolosissima di ebrei, si parla di tre milioni di persone; la Russia invasa dalle armate tedesche era piena di ebrei e quando dico ebrei, intendo tutta la loro cultura, il loro modo di pensare, di agire, il loro modo di rapportarsi alla società, di leggere i libri, di leggere la loro tradizione e di prospettare un loro futuro. Tutto venne distrutto. La Polonia di oggi non ha più alcuna memoria ebraica; era un paese che contava tre milioni di ebrei e oggi ne ha tre, quattromila. Sono rimaste pochissime tracce; in quel luogo, oggi, si parla ormai di archeologia. Quando i nazisti occuparono l’Italia nel 1943, dopo l’8 settembre, misero in pratica quello che negli altri paesi occupati era già stato pienamente avviato. Nel resto dell’Europa il progetto di sterminio era già in pieno svolgimento. Ci furono varie fasi. Si iniziò nel 1941, con le fucilazioni in massa degli abitanti di interi villaggi ebraici nella Russia sovietica. Le armate tedesche che avanzavano per invadere l’Unione Sovietica avevano alle spalle uno speciale distaccamento, le “einsatzgruppen”, gruppo di assalto speciale, formato da fucilieri di professione, addestrato alle fucilazioni. Ogni volta che arrivavano in un villaggio, facevano il censimento e separavano gli ebrei dal resto della popolazione. Dovete immaginare che era una popolazione assolutamente rurale, molto semplice, nessuno era in grado di elaborare, di capire, di orientarsi bene su che cosa stesse succedendo; stiamo parlando di piccoli villaggi dello shtetl dell’Unione Sovietica. Quindi anche la domanda oziosa che mi viene posta certe volte: perché non si ribellavano? Non si ribellavano perché nessuno aveva capito che cosa stesse succedendo, questa è la verità. Queste “einsatzgruppen” fecero un enorme bagno di sangue di più di un milione di persone nel giro di un anno e questa è materia documentata; tutti i tentativi dei revisionisti, di questi storici cosiddetti revisionisti, che osano negare la realtà dei fatti, sono assolutamente una menzogna pretestuosa: rimangono le relazioni che i capi delle “einsatzgruppen” ogni sera mandavano a Berlino sulla quantità di persone che erano riusciti a uccidere in quel giorno; ci sono dei filmati, ci sono delle fotografie. Dopo questa prima fase della cosiddetta soluzione finale, una fase, per così dire, selvaggia, ce ne fu una seconda più pensata, più politicamente mirata, e fu la fase della “ghettizzazione”, della riunione dentro i ghetti degli ebrei di tutti i paesi dell’Europa dell’est. Il procedimento era questo: si riunivano progressivamente le persone all’interno di zone separate della città che avevano delle mura, dalle quali non potevano né entrare né uscire se non sotto sorveglianza tedesca; i tedeschi, dall’esterno, avevano nelle mani la gestione del vettovagliamento generale, sicché potevano con grande agio affamare e debilitare la popolazione interna. Nel giro di sei mesi, nel ’42, ’43, migliaia di persone si ritrovarono all’interno di questi ghetti -il più famoso dei quali, per la grande rivolta che vi ebbe luogo, fu il ghetto di Varsavia- a vivere in contiguità, in promiscuità assolute; si parla di quindici persone in una sola stanza. Queste persone erano debilitate anche psicologicamente. A un certo punto venne messa in atto la deportazione dei ghetti verso delle strutture di sterminio appositamente create. Ogni ghetto aveva nelle vicinanze, tra i trenta e i quaranta chilometri di distanza, un cosiddetto campo della morte, di cui quasi nessuno conosce l’esistenza. Sono nomi che non ci sono noti, nomi polacchi e russi, provo a dirne qualcuno: Treblinka, Maidanek, Chelmno, Sobibor; erano campi di sterminio, in pratica dei mattatoi. Per esempio, dal ghetto di Varsavia, al mattino, venivano caricati dei treni, venivano date delle pagnotte alle persone, veniva loro detto che li si portava fuori per farli lavorare, venivano portati a Treblinka e lì veniva data loro la morte immediatamente tramite delle rudimentali camere a gas. Questo succedeva ogni mattina. Al pomeriggio i treni ritornavano vuoti delle persone. Questo andò avanti per sei-sette mesi, fino a quando i giovani del ghetto di Varsavia non cominciarono a pensare che qualcosa non andava, non era possibile che tanta gente andasse a lavorare al mattino e non ritornasse la sera. Quello fu proprio l’inizio della decisione della rivolta. Questi campi della morte entrarono in funzione per circa un anno, un anno e mezzo, coprirono la fine del 1941 e tutto il 1942. Erano strutture molto rudimentali, non erano state studiate bene: le camere a gas non erano abbastanza grandi, qualche volta la morte non sopravveniva in fretta, non si sapeva cosa fare dei cadaveri, così ci furono varie riunioni nelle centrali berlinesi della polizia, nei vari ministeri degli interni, per pensare a un metodo che fosse più efficace, soprattutto nella previsione della deportazione e dello sterminio degli ebrei anche dell’Europa occidentale. Dai responsabili dei ministeri tedeschi dopo questa conferenza di Grosser Wannsee, che CHI ARRESTO’ QUESTE PERSONE? di Liliana Picciotto
una città 11 il convegno del ‘92 ebbe luogo il 20 gennaio del 1942, fu deciso che tutti gli ebrei d’Europa, i sopravvissuti ai bagni di sangue della Russia, della Polonia, e anche quelli dell’Europa occidentale, dovessero finire in un unico luogo. Fu scelto Auschwitz, in Alta Slesia, un territorio polacco protetto rispetto agli Alleati che intanto stavano combattendo contro la Germania (dalla Polonia difficilmente trapelavano le notizie). Questo campo funzionava già per i prigionieri di guerra sovietici e come campo di punizione per i polacchi antinazisti. In una sua parte, chiamata Birkenau, a qualche chilometro di distanza, nel circondario, fu creato un gigantesco luogo dotato di tutti i moderni sistemi per dare la morte. Questo nuovo campo si chiamò Auschwitz-Birkenau. Lì furono costruiti, con grandissima rapidità, dei nuovi impianti che consistevano in giganteschi saloni -chiamiamoli così- che servivano per “gasare” le persone; avevano le porte stagne, era stato studiato tutto il sistema di aerazione. Quindi non sono responsabili solo coloro che ordinarono di fare questo campo: ci furono schiere di ingegneri che studiarono le strutture per lo sterminio, ci fu l’azienda che le costruì. Queste camere a gas potevano uccidere qualche migliaio di persone in una sola volta, dopodiché i corpi venivano cremati da degli addetti. Arrivavano ad Auschwitz-Birkenau giornalmente decine di treni da tutta Europa; le persone venivano arrestate nei loro luoghi di residenza dalla polizia tedesca o, in certi casi, dalla polizia locale. E così veniamo all’Italia. Chi arrestò queste persone? Chi riuscì a trovarle, a rintracciarle? Perché anche questo è un problema. Mentre nell’Europa dell’est gli ebrei hanno una cultura particolare, una lingua particolare, che è l’yiddish, qualche volta si vestono anche in maniera particolare, hanno queste barbe, sono facilmente riconoscibili -lo erano perlomeno quando ce n’erano-, nell’Europa occidentale c’era una grandissima integrazione, anche a livello di costumi e di cultura, per cui un ebreo che passava per la strada non era assolutamente riconoscibile. Per questo motivo, in tutti i paesi occupati, i nazisti si preoccuparono di avere degli alleati. La polizia tedesca non era assolutamente sufficiente per rintracciare tutte le persone che dovevano essere arrestate, portate in un campo di internamento e di transito e, quando il loro numero era sufficiente, mandate ad Auschwitz-Birkenau. Sicché, anche in Italia, la polizia tedesca dovette giocoforza appoggiarsi alla polizia italiana. Questo lavoro, il recupero di queste persone, di queste personalità è, prima di tutto, un lavoro di tipo morale, ha una valenza morale prima ancora che storiografica: quella di riuscire a ritrovare i nomi di tutti coloro che erano destinati a scomparire nel nulla. È quindi un lavoro che va nel senso contrario a quello desiderato dai nazisti, è un lavoro antinazista per eccellenza. È inoltre per noi un richiamo alla nostra coscienza, alla nostra memoria e alla loro memoria. Questo lavoro è stato fatto per tredici lunghi anni, per arrivare a queste settecento pagine, che sono pagine ossessive, dolenti, che contengono questo elenco forse un po’ ripetitivo, ma si è voluto farlo ripetitivo, ossessionante, ossessivo, cosicché il lettore abbia l’idea, quando apre il libro, che anche in Italia c’è stato un gigantesco disastro, che queste sono pagine e pagine e queste sono persone e persone, e questi sono bambini e bambini. Nel corso di questo lavoro il Centro di Documentazione Ebraica ha avuto la possibilità di vedere moltissimi documenti. Per una fortunata coincidenza, nel 1971 in Germania iniziò il processo contro un criminale tedesco che si era macchiato di crimini in Italia, Friedrich Bosshammer, e la Procura di Stato di Berlino chiese al mio centro studi di cercare tutte le prove a carico per accusarlo. In questo modo ottenemmo i permessi di accesso per gli archivi di stato, permessi che per allora, nel 1970, era assolutamente impossibile ottenere. Così riuscimmo a vedere i fondi della questura e della prefettura di vari archivi di stato periferici. Ricercando le prove a carico di questo persecutore, ritrovammo centinaia di documenti e moltissimi erano ordini di arresto di questo o di quell’ebreo nelle varie province. Ordini di arresto che non sono affatto firmati da tedeschi, ma da questori e prefetti della Repubblica Sociale Italiana. Dovemmo rendercene conto e forse fino ad allora non l’avevamo fatto. La persecuzione antiebraica in Italia ebbe, sì, una fase iniziale tedesca. A Roma ci fu il
una città 12 il convegno del ‘92 rastrellamento del ghetto -molti film e molti libri vi sono dedicati- che avvenne il 16 ottobre del 1943: i tedeschi arrivarono a Roma e agirono nel giro di ventiquattro ore con un rastrellamento ferocissimo, di sorpresa, penetrando nelle case alle cinque del mattino, sfondando le porte, portando via la gente che ancora era addormentata. Fu una retata autonoma, nel senso che venne fatta da tedeschi con metodi tedeschi. Questa fase durò per tutti i mesi di ottobre e di novembre. Ma alla fine di novembre iniziò la compenetrazione della politica nazista con quella della Repubblica Sociale. Fino al 30 novembre la Repubblica Sociale non era ancora saldamente consolidata, Mussolini aveva dei problemi perché i tedeschi non volevano lasciargli un esercito, non si sapeva se la polizia era fedele al regime, se la burocrazia e l’amministrazione avrebbero retto la nuova Repubblica Sociale e così i tedeschi approfittarono di questo vuoto di potere italiano per fare rastrellamenti come quello di Roma. Ma dal 30 novembre 1943 è lo stato italiano, lo stato della Repubblica Sociale che, in piena autonomia, decide la persecuzione. Cosa significa? Significa che un ordine di polizia viene emesso e con questo decreto tutti gli ebrei sul suolo devono essere arrestati, internati e tutti i loro beni sequestrati. Questo vuol dire che dal 30 novembre i tedeschi possono tranquillamente passare la mano agli italiani perché saranno loro a trovarli, ad arrestarli, a internarli. Non certo a deportarli perché la politica italiana mantiene pur sempre una grande differenza con quella tedesca e comunque non è volta allo sterminio. Ma tutto il primo passaggio viene fatto dalla polizia italiana. Volevo aggiungere ancora qualcosa rispetto alla nostra storia, la storia locale. Fabio Levi mette ben in rilievo che la politica fascista della legislazione antiebraica, che durò dal ’38 al ’43, aveva preparato sia gli animi, sia una successiva politica più forte e persecutoria che venne messa in atto dal ’43 al ’45. Non dimentichiamo che in Italia c’erano migliaia di ebrei stranieri fuggiti dalla Germania, dalla Cecoslovacchia, dalla Romania e dalla Polonia perché pensavano che da qui avrebbero potuto imbarcarsi per gli Stati Uniti o per la Palestina sotto mandato britannico. Queste migliaia di ebrei, che erano in parte clandestini, non conoscevano la lingua, non conoscevano i luoghi ed erano strettamente sorvegliati dalla polizia italiana, erano alla mercé dei rastrellamenti e delle razzie. Vi faccio un solo esempio: due delle diciotto vittime del campo di aviazione di Forlì sono i coniugi Amsterdam o Amsterdamer. Erano arrivati nel 1940 dalla Romania, erano scesi a Trieste per raggiungere Bengasi e di lì emigrare in Palestina. A Bengasi dovevano incontrare altri profughi, anche loro scesi dall’Europa orientale, e lì formare una nave per tentare di forzare il blocco inglese al largo della Palestina, cosa difficilissima allora, perché la Palestina era sotto mandato britannico e questo impediva agli ebrei perseguitati e fuggitivi di entrarvi; c’erano al largo le navi inglesi che fermavano i profughi e li mandavano indietro. A Bengasi questi profughi si riunirono effettivamente, si imbarcarono, erano più di trecento, ma non tentarono neanche di forzare il blocco inglese, quindi cominciarono a vagare per il Mediterraneo. Ritornarono a Bengasi dove trovarono le autorità italiane che li accolsero con un regime poliziesco, nel senso che li internarono tutti e li mandarono in Italia nel campo di internamento di Ferramonti di Tarsia. E lì si fermarono, sotto stretta sorveglianza poliziesca. Ora, si dà il caso che Ferramonti, vicino a Cosenza, sia stato uno dei primi campi di internamento europei a essere liberato dalle armate alleate che risalivano la penisola, nell’autunno del 1943. Ma questi poveri coniugi Amsterdam, da Ferramonti di Tarsia, furono trasferiti più a nord, in internamento a Forlì, dalla polizia italiana, e lì successe quel che successe, furono due delle diciotto vittime dell’aeroporto. Questo per dimostrare come questa stretta interdipendenza tra polizia italiana e polizia tedesca non va assolutamente dimenticata, e fu quella che procurò alla fine i maggiori disastri per gli ebrei italiani. Grazie. Vi parlerò in particolare del periodo che va dal 1938 al 1943, periodo che comincia con l’emanazione delle leggi antiebraiche e si conclude con la caduta del fascismo e l’armistizio dell’8 settembre, cioè la fase precedente alle deportazioni. È un periodo che è stato studiato assai poco, anche perché è sempre risultato schiacciato da quanto è successo dopo, soprattutto nella memoria dei sopravvissuti. Evidentemente l’enorme rilevanza e la gravità di quello che è successo dopo il ’43 ha fatto sì che quanto è accaduto tra il ’38 e il ’43 sia diventato meno importante. Eppure credo sia interessante cercare di capire che cosa è successo dal momento in cui sono state emanate le leggi razziali fino all’armistizio dell’8 settembre: infatti vale la pena chiedersi quanto le leggi razziali e la loro applicazione, in quel periodo non proprio breve -si tratta di ben cinque anni- possano aver preparato quanto è successo dopo, in particolare le deportazioni. Non credo vi sia un nesso necessario tra le leggi razziali e le deportazioni. Non è che le leggi razziali siano state emanate in funzione delle deportazioni; né, d’altra parte, credo vi sia un nesso necessario tra NELL’ARCHIVIO DI OGNI ENTE PUBBLICO di Fabio Levi
una città 13 il convegno del ‘92 l’avvento del fascismo e l’emanazione di leggi razziali, non è che il fascismo dovesse necessariamente portare a quelle; credo però che ci sia un rapporto molto stretto sia tra fascismo e leggi razziali, sia tra leggi razziali e deportazioni, ed è proprio questo rapporto che, a mio avviso, va studiato a fondo, anche perché le ricerche sul campo sono soltanto all’inizio. Quello che qui vi propongo è semplicemente un indice di problemi e di terreni di ricerca -cercando anche di entrare un poco nel merito- che vale la pena percorrere, nel tentativo di andare più a fondo di quanto fino adesso non si sia andati. Credo che la prima questione da studiare sia proprio il momento dell’emanazione delle leggi, ossia quanto succede nel 1938. Le leggi razziali rappresentano una svolta repentina, improvvisa, in gran parte imprevista, anche dal punto di vista, in particolare, di chi quelle leggi doveva subire. In realtà si tratta di un avvenimento che aveva delle profonde radici nella storia precedente del fascismo. È appunto di quelle radici che bisogna parlare, bisogna cercare di individuare quelle radici. Le leggi razziali sono state emanate in ragione, innanzitutto, dell’avvicinamento dell’Italia alla Germania, dell’influenza crescente del nazismo sulla politica di Mussolini, e anche in ragione del clima generale che si stava manifestando in giro per l’Europa; un clima sempre più irrespirabile per il mondo ebraico nei vari paesi dell’Europa occidentale e, a maggior ragione, dell’Europa orientale. Quindi c’è questo primo dato rilevante: il sempre più stretto rapporto tra l’Italia e la Germania e la crescente influenza di Hitler su Mussolini. C’è però un secondo elemento importante che riguarda la politica coloniale del fascismo, cioè il fatto che, negli anni immediatamente precedenti il 1938, Mussolini si era lanciato nell’avventura imperialista, coloniale e aveva sviluppato un proprio specifico razzismo in ragione della volontà di prendere possesso dell’Etiopia e soprattutto nel tentativo di combattere il cosiddetto meticciato, cioè la mescolanza delle razze -così veniva definito dal fascismo- e in particolare la mescolanza della razza italiana con quella africana. Un terzo elemento importante riguarda le aspirazioni sempre più totalitarie del regime nella seconda metà degli anni Trenta; la politica razziale del fascismo si inquadra perfettamente in questo ambito. Un ultimo elemento importante, che interviene a favorire il processo che porterà poi all’emanazione delle leggi razziali, riguarda il progressivo allontanamento del fascismo dal sionismo internazionale e la scelta, in funzione antinglese, sempre più filoaraba del regime italiano nell’ambito della propria politica mediterranea. Tutti questi elementi, che hanno profonde radici nelle caratteristiche specifiche del regime fascista, conducono all’emanazione delle leggi razziali. Si può quindi vedere assai bene come, da un lato, le leggi razziali rappresentino una svolta, una decisione relativamente improvvisa, da parte di Mussolini e dei gerarchi fascisti, ma, nello stesso tempo, esista un rapporto molto stretto tra quella scelta e i connotati del fascismo, così come si vengono a definire nel corso degli anni Trenta. È questo un primo terreno di indagine che in parte è già stato arato, ma su cui indubbiamente si possono fare altri passi. Un secondo terreno di ricerca riguarda le modalità attraverso cui le leggi razziali sono state applicate nel corso di un periodo, dal ’38 al ’43, che, ripeto, non è un periodo breve, è un periodo relativamente lungo. Credo che la politica razziale del fascismo possa essere definita come una politica voluta dall’alto, venutasi a realizzare a partire da una spinta molto forte del vertice del regime, una politica che aveva come obiettivo quello di coinvolgere il più possibile l’insieme della società nell’attacco agli ebrei, nel processo di progressiva emarginazione del gruppo ebraico dall’insieme della società. Consideriamo alcuni aspetti particolari di questo processo di progressiva applicazione della legislazione razziale: innanzitutto il grande sforzo messo in campo dal regime nel tentativo di identificare gli ebrei. Non era facile capire chi fosse ebreo e chi non lo fosse, chi fosse da assoggettare a un regime restrittivo e chi non dovesse esserlo. Il regime mette in campo uno sforzo consistente, a partire dal censimento del 22 agosto del 1938, che è precedente alle leggi che verranno emanate a partire dal novembre; e questo grande forzo, teso all’identificazione degli ebrei, implica la collaborazione di moltissima gente, di moltissimi impiegati dei più diversi uffici dei comuni, delle prefetture, della questura; implica anche uno sforzo teso ad alimentare un clima generale di sospetto che rappresentava il primo passo nella prospettiva di creare intorno agli ebrei un vuoto sempre più difficile da sopportare. C’è dunque questo primo passaggio, ma c’è poi una serie molto numerosa di altri passaggi importanti: innanzitutto la progressiva espulsione degli ebrei dall’amministrazione pubblica; sappiamo bene qual è il peso in Italia dell’amministrazione pubblica, quanti sono gli impiegati dello stato e quindi quanti sono coloro i quali, come colleghi, come funzionari, venivano coinvolti nel processo di individuazione e poi in quello concreto di espulsione, di cacciata, degli ebrei dai più diversi ambiti dello stato. Quindi una grande massa di persone è stata coinvolta. E badate bene, negli archivi degli enti pubblici, in ogni archivio di qualsiasi ente pubblico, c’è un capitolo “ebrei”, perché in ogni ufficio pubblico si è trattato di individuare e di cacciare gli ebrei che facevano parte dell’amministrazione dello stato, dell’esercito e così via. Un altro aspetto importante riguarda l’espulsione degli ebrei dalla scuola e qui l’obiettivo del regime era evidentemente quello di influenzare molto direttamente l’ambiente della cultura, ma anche, soprattutto, di condizionare il mondo dei giovani in funzione antiebraica. Ancora un
altro aspetto importante -ce ne sarebbero ancora numerosi a cui non riuscirò ad accennare- riguarda l’attacco alle attività economiche ebraiche, i licenziamenti degli ebrei da numerose aziende oltre che pubbliche anche private, e l’attacco diretto alle proprietà degli ebrei: gli ebrei non potevano possedere più di un certo valore, per esempio nel campo immobiliare. Anche qui si mette in moto un processo, più lento, ma comunque estremamente significativo, che va avanti nel corso degli anni in modo sempre più radicale, teso a espropriare gli ebrei di una parte consistente dei loro patrimoni. A che cosa conducono tutte queste azioni, che si concentrano in un’unica direzione? Conducono al progressivo impoverimento degli ebrei, a una riduzione progressiva delle risorse su cui potevano contare e, su un altro versante, a un isolamento progressivo di ogni singolo ebreo nel rapporto con la società che gli stava intorno. Tutto questo rappresenta un ambito di ricerca estremamente importante che ci consente di capire con più precisione che cosa è successo tra il ’38 e il ’43. Un altro ambito di ricerca riguarda invece le reazioni da parte degli ebrei di fronte all’attacco che progressivamente veniva scatenato contro di loro. Anche qui gli studi sono soltanto all’inizio. C’è da sottolineare, in una prima fase, un atteggiamento di generale incredulità da parte di una gran parte degli ebrei, non di tutti, una oscillazione continua tra un atteggiamento di incredulità e vari gradi di percezione, di consapevolezza del pericolo. C’è da ricordare che gran parte del mondo ebraico, come, d’altra parte, gran parte della società italiana, era composto di fascisti o comunque di persone che avevano accettato nei fatti l’esistenza del regime; immaginate che cosa poteva voler dire, per tutti costoro, scoprire improvvisamente che il regime aveva deciso di emanare una serie di norme tese ad espellerli progressivamente dal loro ambiente di lavoro, a isolarli dal resto della società. Via via che passa il tempo le cose cambiano, si mette in moto una serie di iniziative da parte di famiglie, di singoli, di gruppi, tese a contrastare quanto il regime stava cercando di realizzare. Ci sono tentativi di eludere la normativa antiebraica, anche se non era così facile, soprattutto nella prima fase, quando la spinta all’applicazione delle leggi era molto forte. Ci sono varie forme di contrattazione con l’amministrazione pubblica, ci sono tentativi di corrompere i funzionari per non subire le conseguenze più negative di quella normativa, c’è una forte spinta all’emigrazione e ci sono numerosissimi tentativi tesi a far sì che gli ebrei potessero mimetizzarsi nella società, cercando varie forme di solidarietà e cercando soprattutto di evitare di essere individuati da parte delle istituzioni. Vorrei sottolineare come, per chiunque dovesse subire i rigori della legge, fosse estremamente difficile riuscire a valutare l’entità dei rischi che si presentavano. Cito un esempio, a mio avviso molto significativo, che si riferisce al periodo tra il ’43 e il ’45. Ancora nel ’44, a Vercelli e a Biella, il 50% degli ebrei che possedevano una cassetta di sicurezza -dal ’43 viene emanata una normativa che impone l’apertura forzata delle cassette di sicurezza- non l’aveva ancora svuotata. Questo vi dà l’idea di come fosse difficile, per chi subiva la normativa antiebraica, riuscire a percepire l’entità del rischio che si stava correndo. Un penultimo terreno di ricerca, che però a mio avviso è di grande rilevanza, riguarda l’atteggiamento dei non ebrei nei confronti delle leggi razziali. In proposito vi propongo qui un’ipotesi di lavoro, un’ipotesi che credo possa essere suffragata dalle ricerche che ci saranno. Si tratta di un problema controverso, ma penso che si possa individuare chiaramente una fase iniziale caratterizzata da una sostanziale acquiescenza da parte della generalità della popolazione nei confronti delle leggi antiebraiche: ci furono ovviamente piccole forme di opposizione, ci fu una serie di persone che cominciò a distaccarsi dal fascismo proprio in ragione dei provvedimenti antiebraici, ma, nell’insieme, possiamo affermare che la società italiana all’inizio non reagì e si dimostrò sostanzialmente acquiescente. C’è poi, in una seconda fase -credo che il fenomeno si manifestasse soprattutto a partire dall’entrata in guerra dell’Italia, dal 1940 in avanti- una progressiva crescita della solidarietà intorno agli ebrei, in ragione, innanzitutto, dell’aggravarsi della loro condizione, ma anche, e credo che questo sia l’aspetto principale, per il progressivo distacco della popolazione dal regime che stava disgregandosi. Un ultimo aspetto, e con questo concludo, riguarda la svolta del 1943. Su questo non mi soffermerò a lungo. Quello che vorrei sottolineare è che dal ’43 in avanti, ovviamente, la condizione degli ebrei cambia radicalmente. La presenza dei tedeschi è una presenza minacciosa, i tedeschi puntano direttamente alla deportazione, però, contemporaneamente, si assiste a un aggravarsi progressivo della legislazione antiebraica emanata dalla Repubblica Sociale (mi riferisco ovviamente al territorio della Repubblica Sociale Italiana e non a quello dell’Italia meridionale, dell’Italia liberata, dove, peraltro, malgrado l’arrivo degli alleati, i provvedimenti antiebraici vengono aboliti con estrema lentezza, e anche questo dato è estremamente significativo). Tutto ciò significa che il rapporto tra gli italiani e i tedeschi dal ’43 in avanti è estremamente complesso, perché da un lato c’è l’iniziativa diretta, esplicita, da parte dei tedeschi, finalizzata alla deportazione, dall’altro c’è però un’iniziativa specifica, autonoma dell’amministrazione della Repubblica Sociale che continua a fare quello che si è fatto prima, ma in forma molto più grave, e c’è, in terzo luogo, una collaborazione esplicita degli italiani con i tedeschi, un appoggio diretto, in prima persona, di vari ambiti delle istituzioni rimaste ancora in piedi per favorire le iniziative dei tedeschi tese alla deportazione. In definitiva, risulta molto chiaramente come, nel periodo tra il ’43 e il ’45, la burocrazia italiana agisce come se si fosse progressivamente allenata nei cinque anni precedenti. A questo bisogna aggiungere gli effetti del progressivo isolamento che gli ebrei avevano subìto nel corso del quinquennio precedente tali da renderli particolarmente vulnerabili ai nuovi attacchi perpetrati contro di loro dal ’43 in avanti. una città 14 Qualcuno ha chiesto, e non so se gli abbiamo risposto, perché torna la svastica. È un ritorno, in effetti, preoccupante a tutti i livelli. Abbiamo letto notizie inquietanti sul presidente della Croazia, sulla Lituania... Sono emerse cose pazzesche sulla Lituania: voi sapete che molti lituani cominciarono, durante la Seconda guerra mondiale, a lottare al fianco dei nazisti contro gli occupanti sovietici, ma poi finirono anche per PROBLEMI RITENUTI GIÀ CHIARI E DEFINITI il convegno del ‘92 di Gianni Sofri
una città 15 collaborare nella persecuzione degli ebrei. Su questo triste episodio non c’è stata per ora alcuna autocritica, anzi!... Insomma, quando parliamo di antisemitismo oggi non dobbiamo credere che si tratti solo dei naziskin che abbiamo visto nella trasmissione di Giuliano Ferrara. Oggi l’antisemitismo è fortemente presente in larghe fasce giovanili, ma non solo giovanili, della Germania orientale; è presente in buona parte dei paesi dell’Europa orientale, benché i milioni di ebrei che vi abitavano prima della Shoah siano ridotti a poche decine di migliaia; è presente in alcune tendenze, diciamo così per intenderci, di destra, nazionaliste e panrusse, della Chiesa ortodossa russa, come Pamjat. Più vicino a noi, in Francia e in Svizzera, si violano turpemente tombe di ebrei. Esiste anche un antisemitismo di altro tipo, di difficile assimilazione a quello europeo, nel mondo arabo e musulmano (ma per il momento lo metterei da parte). Quindi quello dell’antisemitismo oggi è un grosso fenomeno. Dicevo prima che la storia non risolve quasi mai un problema una volta per tutte: lo vediamo oggi con la rinascita dei nazionalismi, delle guerre di religione, ecc. Persino rispetto all’antisemitismo, neppure un evento spaventoso e indicibile come lo sterminio è stato un vaccino sufficiente. Per lo meno non per sempre. Vorrei insistere dicendo che la storia non risolve i problemi una volta per tutte, non peno a piccoli residui più o meno innocui e facili da controllare. La ripresa odierna dell’antisemitismo è un fenomeno grosso, che non va sottovalutato. Non si può abbassare la guardia. Noi in Italia abbiamo avuto degli episodi, anche molto brutti. Ci sono elementi, non tanto di antisemitismo (come in alcuni movimenti francesi), quanto di razzismo più generale, nelle leghe. Soprattutto, abbiamo una fetta di mondo giovanile che si agita riesumando vecchi slogan e facendo propria una cultura quanto meno ambigua e inconsistente, una pseudo-cultura. Ora, come comportarsi rispetto a queste cose? Questo è un problema politico, ma anche culturale, molto importante. Io credo che una prima cosa da dire sia questa: che bisogna sempre guardarsi dall’assimilare il presente al passato. O meglio, è vero che esiste una continuità nella storia del razzismo su base “scientifica” (parlo di questo, perché altrimenti, se per razzismo intendiamo ogni forma di etnocentrismo, allora non finiamo più, cioè si parte dalla preistoria, dalle società primitive, ecc.). Quindi c’è una continuità che va tenuta presente: per esempio, non è un caso che i naziskin possano avere tra le mani una copia del Mein Kampf. E però sarebbe sbagliato da parte nostra privilegiare l’elemento della continuità anziché sforzarci, con tutte le nostre forze, di vedere lo specifico che di volta in volta si presenta nel fenomeno. E allora -ma qui non è certo il momento né il luogo per farlo, e io non ne sarei in grado, perché ci vorrebbe il contributo di analisti del mondo giovanile, di sociologi, di psicologi, di pedagogisti e studiosi della politica, la mia sensazione è che, molto spesso, anche l’uso di tesi alla Faurisson sulla non-esistenza dei campi di sterminio, l’uso di vecchi testi, di vecchie simbologie, ecc., si colleghino in un amalgama assai confuso, che non è immediatamente (e semplicemente) riconducibile al nazismo. Però, detto questo, uno sarebbe tentato di concludere: “Ma allora dobbiamo lasciarli fare?”. È un problema molto inquietante. Rispetto al lasciarli fare, se è vero che la storia qualche cosa insegna (non che sia magistra vitae, per carità!, non ci crede più nessuno), allora, nei primi anni Venti, Hitler era uno dei tanti, che andavano in giro dicendo che prima o poi gli ebrei andavano sterminati. Se qualcuno li avesse fermati, se qualcuno li avesse mandati da un buon psichiatra (e ce n’erano, soprattutto in Germania, di eccellenti) forse le cose avrebbero preso un’altra piega. Per carità, la storia non è mai, lo sappiamo, solo opera di singoli individui. La storia esige che si muovano forze profonde, strutture, eccetera. Però, se intanto si fermassero in qualche modo i singoli individui sarebbe un buon risultato: non sufficiente da solo, certo, ma comunque... Voglio dire che a volte, nella storiografia, bisognerebbe recuperare il naso di Cleopatra. Voi sapete che Croce aveva -e giustamente- attaccato questa forma di storiografia che lui accusava di essere quella del “naso di Cleopatra” appunto: una storiografia secondo cui i rapporti tra romani, egizi e in genere le cose che accaddero allora nel Mediterraneo avrebbero preso una certa piega perché Cleopatra aveva un nasino all’insù particolarmente affascinante, in grado di conquistare alcuni importanti leader politici romani. Croce, naturalmente, ironizzava su questo e diceva: no, le strutture profonde, lo Spirito della Storia, l’Idea, ecc. (altri avrebbero detto i rapporti di produzione) fanno la storia. In realtà, a volte, la storia è fatta davvero anche di coincidenze, di circostanze banali, e credo che noi lo stiamo proprio riscoprendo in questo periodo: altrimenti nessuno capirebbe, per esempio, gran parte della politica italiana dell’ultimo anno, nella quale è difficile vedere strutture profonde, mentre c’è un gran fiorire di nasi di Cleopatra... Naturalmente, si potrebbe discutere se questo sia Storia, ma tant’è... Vengo all’ultimo punto, che vuole essere anche da parte mia un saluto e un ringraziamento a voi tutti. Io non so se gli organizzatori... Massimo Tesei, per esempio, avrebbe voluto magari dei risultati maggiori. Devo dire che personalmente ho trovato molto interessante questa serata, ho trovato interessante l’iniziativa in sé (mi sono anche fatto raccontare come sono andate le cose, le puntate precedenti, di stamattina e del pomeriggio). Non credo che in una situazione del genere potessero emergere né una serie di importanti rivelazioni storiche improvvisamente fermentate all’interno di una sala del Comune di Forlì, né una soluzione di problemi quali quello del nostro rapporto col razzismo, per dirne uno. Tuttavia, di problemi ne abbiamo messi a fuoco tanti, che chiaramente non si potrebbero mai risolvere in una serata, in un gruppo volenteroso di persone, quando sono problemi che invece impegnano al loro massimo la nostra cultura e altre culture da alcuni decenni. Trovo che invece sia stato molto positivo da tutti e due i punti di vista sia di aver presentato in maniera non accademica quello che avrebbe potuto essere un tipico prodotto accademico, e cioè i risultati di una ricerca. Risultati non freddi (come spesso è nelle ricerche accademiche), ma, come ho cercato di dire prima nella mia breve introduzione, palpitanti di vita e per questo commoventi, coinvolgenti, anche per persone, come molti di noi qui dentro, che non sono studiosi ma che amano e vogliono ricordare. Quindi credo che questo sia stato importante, ed è un primo punto. Mentre il secondo punto importante credo sia stato semplicemente questo: che un numero elevato di persone, considerando le tre volte in cui ci si è radunati a discorrere, stamattina, questo pomeriggio e stasera, sia stato invitato a ripensare a dei problemi che forse molti di noi ritenevano, a torto, già chiari e definiti. Io sono, ovviamente, d’accordo con la signora che prima diceva: “Noi sappiamo che i campi di concentramento, i campi di sterminio ci sono stati”. Non c’è bisogno di discutere di questo. Però ci sono ancora tante cose che dobbiamo capire, e che riguardano anche noi, o per lo meno i nostri figli, se noi stessi non ci sentiamo più in grado di fare progetti per il nostro futuro. Ecco, da questo punto di vista, non so voi di Forlì, che forse puntate molto in alto..., noi che abitiamo in città lievemente più grandi siamo diventati forse più stanchi e scettici, e ci contentiamo più facilmente. Io, di questa serata, sarei molto contento. il convegno del ‘92
una città 16 LA DEGNA SEPOLTURA
una città 17 la degna sepoltura Nelle foto: Cesare Finzi e il rabbino Luciano Caro sovrintendono alla sepoltura delle cassette contenenti i resti mortali delle sette vittime delle stragi dell’aeroporto di Forlì la cui identità era stata accertata, settembre 1992
una città 18 Il saluto di Tullia Zevi, Presidente delle Comunità ebraiche italiane. Ottobre 1992. Signor prefetto, signor sindaco, signor rabbino, cari amici, cari compagni e, se mi permettete, cari fratelli e sorelle, perché penso che il fatto di essere qui riuniti in questa pia, straordinaria e nobile cerimonia fa di noi tutti fratelli e sorelle. Devo esprimere, anche a nome di tutte le comunità ebraiche italiane, il profondissimo apprezzamento e la gratitudine per questa decisione del Comune di Forlì di dare sepoltura, anche se a 50 anni di distanza, a queste vittime del nazifascismo. Voglio esprimere gratitudine a quella suora che, malgrado il suo stesso vescovo la sconsigliasse, ebbe il coraggio di andare a riconoscere quelle povere salme e questa fu la preparazione all’onorata sepoltura che ricevono oggi; e alla dottoressa Saiani che, con pazienza e intelligenza, ha fatto tutte le ricerche e gettato luce su un passato che rimaneva pieno di ombre. Mi pare che questa cerimonia sia carica di significati simbolici, perché questo è un monumento alla memoria, al dovere della memoria, è un monito a non dimenticare. Oggi alcuni, troppi movimenti e individui si sforzano di cancellare, di distruggere, di negare la memoria. È stato detto che chi dimentica il proprio passato è condannato a riviverlo. Per questo è importante ricordare, perché i segnali di una possibilità di rivivere questo passato che non vuole passare sono molti e minacciosi. Proprio la notte scorsa, anniversario della riunificazione tedesca, sono stati compiuti oltraggi contro cimiteri ebraici. Nel solo 1991 in Germania sono stati profanati 84 cimiteri ebraici, e devo dire che queste dissacrazioni e orrori non hanno risparmiato la Francia e hanno sfiorato l’Italia. L’Europa è percorsa, minacciata da fremiti di nazionalismi esasperati, di xenofobia violenta, di antisemitismo. Le radici sono diverse, ma sono concomitanti nella minaccia alla democrazia in Europa. Che cosa significa oggi la xenofobia, specialmente rivolta contro gli extracomunitari? È la paura del diverso, è il continente che ha conosciuto il benessere, ma che dà segni di crisi e attraversa disagi fortissimi, e si sente minacciato nella propria sicurezza. L’antisemitismo ha radici diverse, ma praticamente si assomma alla xenofobia e al razzismo. Con questa cerimonia noi simboleggiamo coloro che hanno il dovere di ricordare. In questo cimitero, gli uni vicini agli altri, ci sono ebrei, atei, cattolici. Significa che dobbiamo stare insieme, essere uniti, dialogare ed operare per il bene comune. Alle nostre porte, l’ha ricordato il signor sindaco, stanno avvenendo cose atroci. Abbiamo visto fotografie che pensavamo non fossero possibili in quest’Europa che si considera civilissima, ahimè. Questa nostra presenza qui oggi mi pare che sia simbolica del dovere di ricordare e di lavorare insieme perché gli orrori che hanno percorso l’Europa 50 anni fa non solo non vengano dimenticati, ma non debbano ripetersi. CON QUESTA CERIMONIA... la tomba
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