una città - n. 295 - settembre 2023

una città 10 il convegno del ‘92 Vorrei innanzitutto ringraziare gli organizzatori di questa manifestazione e l’università che ci ha ospitato, per averci dato la possibilità di incontrare il pubblico di Forlì. Io lavoro come ricercatrice presso un centro studi di Milano che da parecchi anni si è posto come finalità quella di cercare di ricostruire l’ambiente e i nomi delle persone arrestate e scomparse in Italia durante l’occupazione tedesca e la Repubblica Sociale Italiana, tra il ’43 e il ’45. Questo lavoro fu iniziato da uno storico francese, Serge Karlfeld, che negli anni Settanta si mise in testa di ricostruire l’elenco esatto degli ebrei che, dalla Francia, erano scomparsi nel nulla. Si parlava di centomila persone di cui non si avevano più tracce, ma non c’era nessun lavoro organico che ricostruisse il loro destino. Ricerche di questo genere furono fatte in seguito anche in Belgio, in Olanda, in Germania, per la parte ex-federale, e ora anche in Italia. In questo lavoro ho speso tredici anni della mia vita, ma era un lavoro che era già iniziato ben prima di me. La finalità principale -che ne è anche una lettura un po’ morale- è quella di restituire un volto, una personalità, una dignità a persone destinate a scomparire nel nulla. La ricerca va quindi nell’esatto senso contrario a quello inteso dalle finalità naziste. Che cosa avevano in testa i nazisti per gli ebrei d’Europa? Dal 1941 in poi, avevano in testa di eliminarli completamente, non solo fisicamente, ma di eliminarne anche il ricordo, la memoria, la cultura, i beni, la possibilità di generare figli. Il procedimento che venne loro applicato fu studiato e portato a termine scientificamente. Questa gigantesca impresa, che i nazisti chiamavano la “soluzione finale” del problema ebraico, iniziò appunto nel 1941 ed ebbe conclusione solamente con la liberazione dell’Europa nel 1945. Nel frattempo la maggior parte della comunità ebraica europea era stata distrutta. L’Europa era il luogo più abitato da comunità ebraiche; c’era una Polonia popolosissima di ebrei, si parla di tre milioni di persone; la Russia invasa dalle armate tedesche era piena di ebrei e quando dico ebrei, intendo tutta la loro cultura, il loro modo di pensare, di agire, il loro modo di rapportarsi alla società, di leggere i libri, di leggere la loro tradizione e di prospettare un loro futuro. Tutto venne distrutto. La Polonia di oggi non ha più alcuna memoria ebraica; era un paese che contava tre milioni di ebrei e oggi ne ha tre, quattromila. Sono rimaste pochissime tracce; in quel luogo, oggi, si parla ormai di archeologia. Quando i nazisti occuparono l’Italia nel 1943, dopo l’8 settembre, misero in pratica quello che negli altri paesi occupati era già stato pienamente avviato. Nel resto dell’Europa il progetto di sterminio era già in pieno svolgimento. Ci furono varie fasi. Si iniziò nel 1941, con le fucilazioni in massa degli abitanti di interi villaggi ebraici nella Russia sovietica. Le armate tedesche che avanzavano per invadere l’Unione Sovietica avevano alle spalle uno speciale distaccamento, le “einsatzgruppen”, gruppo di assalto speciale, formato da fucilieri di professione, addestrato alle fucilazioni. Ogni volta che arrivavano in un villaggio, facevano il censimento e separavano gli ebrei dal resto della popolazione. Dovete immaginare che era una popolazione assolutamente rurale, molto semplice, nessuno era in grado di elaborare, di capire, di orientarsi bene su che cosa stesse succedendo; stiamo parlando di piccoli villaggi dello shtetl dell’Unione Sovietica. Quindi anche la domanda oziosa che mi viene posta certe volte: perché non si ribellavano? Non si ribellavano perché nessuno aveva capito che cosa stesse succedendo, questa è la verità. Queste “einsatzgruppen” fecero un enorme bagno di sangue di più di un milione di persone nel giro di un anno e questa è materia documentata; tutti i tentativi dei revisionisti, di questi storici cosiddetti revisionisti, che osano negare la realtà dei fatti, sono assolutamente una menzogna pretestuosa: rimangono le relazioni che i capi delle “einsatzgruppen” ogni sera mandavano a Berlino sulla quantità di persone che erano riusciti a uccidere in quel giorno; ci sono dei filmati, ci sono delle fotografie. Dopo questa prima fase della cosiddetta soluzione finale, una fase, per così dire, selvaggia, ce ne fu una seconda più pensata, più politicamente mirata, e fu la fase della “ghettizzazione”, della riunione dentro i ghetti degli ebrei di tutti i paesi dell’Europa dell’est. Il procedimento era questo: si riunivano progressivamente le persone all’interno di zone separate della città che avevano delle mura, dalle quali non potevano né entrare né uscire se non sotto sorveglianza tedesca; i tedeschi, dall’esterno, avevano nelle mani la gestione del vettovagliamento generale, sicché potevano con grande agio affamare e debilitare la popolazione interna. Nel giro di sei mesi, nel ’42, ’43, migliaia di persone si ritrovarono all’interno di questi ghetti -il più famoso dei quali, per la grande rivolta che vi ebbe luogo, fu il ghetto di Varsavia- a vivere in contiguità, in promiscuità assolute; si parla di quindici persone in una sola stanza. Queste persone erano debilitate anche psicologicamente. A un certo punto venne messa in atto la deportazione dei ghetti verso delle strutture di sterminio appositamente create. Ogni ghetto aveva nelle vicinanze, tra i trenta e i quaranta chilometri di distanza, un cosiddetto campo della morte, di cui quasi nessuno conosce l’esistenza. Sono nomi che non ci sono noti, nomi polacchi e russi, provo a dirne qualcuno: Treblinka, Maidanek, Chelmno, Sobibor; erano campi di sterminio, in pratica dei mattatoi. Per esempio, dal ghetto di Varsavia, al mattino, venivano caricati dei treni, venivano date delle pagnotte alle persone, veniva loro detto che li si portava fuori per farli lavorare, venivano portati a Treblinka e lì veniva data loro la morte immediatamente tramite delle rudimentali camere a gas. Questo succedeva ogni mattina. Al pomeriggio i treni ritornavano vuoti delle persone. Questo andò avanti per sei-sette mesi, fino a quando i giovani del ghetto di Varsavia non cominciarono a pensare che qualcosa non andava, non era possibile che tanta gente andasse a lavorare al mattino e non ritornasse la sera. Quello fu proprio l’inizio della decisione della rivolta. Questi campi della morte entrarono in funzione per circa un anno, un anno e mezzo, coprirono la fine del 1941 e tutto il 1942. Erano strutture molto rudimentali, non erano state studiate bene: le camere a gas non erano abbastanza grandi, qualche volta la morte non sopravveniva in fretta, non si sapeva cosa fare dei cadaveri, così ci furono varie riunioni nelle centrali berlinesi della polizia, nei vari ministeri degli interni, per pensare a un metodo che fosse più efficace, soprattutto nella previsione della deportazione e dello sterminio degli ebrei anche dell’Europa occidentale. Dai responsabili dei ministeri tedeschi dopo questa conferenza di Grosser Wannsee, che CHI ARRESTO’ QUESTE PERSONE? di Liliana Picciotto

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