una città - n. 295 - settembre 2023

similati troppo, per cui Dio ci stava punendo. Ho passato in Inghilterra tutti gli anni della guerra. Riguardo gli inglesi ancor oggi devo riconoscere che sono stata nei bunker assieme a loro, con gli aerei tedeschi che volavano sopra di noi e mai uno di loro mi ha detto che quello non era il mio posto. Hanno veramente dimostrato grande comprensione e grande sensibilità. Un giorno ebbi di nuovo l’occasione, dopo molti anni, di sentir parlare tedesco e per giunta il più stretto dialetto di Berlino. Ero venuta a sapere che a Manchester si era creata un’associazione culturale di emigrati dalla Germania. La sede, per mia fortuna, si trovava giusto a un chilometro di distanza dal luogo in cui abitavo; più di tanto, infatti, a noi non era consentito allontanarci da casa. E fu lì che nel 1943 conobbi colui che sarebbe diventato mio marito. Non era ebreo, era comunista, aveva fatto la resistenza fra la Germania e la Cecoslovacchia, poi si era rifugiato in Inghilterra. Allo scoppio della guerra era stato internato in Canada dagli inglesi, ma richiamato nel marzo 1943 perché avevano bisogno di braccia. Tre mesi dopo ci sposammo. Credo che il fatto di essere sola e sentire terribilmente la solitudine contribuì alla mia decisione di sposarmi dopo soli tre mesi. Sentivo il bisogno di potermi di nuovo appoggiare a qualcuno (lui aveva 13 anni più di me). Mio marito lavorava come elettricista a Manchester e io nel negozio di un ottico, dove mi occupavo dell’amministrazione e della vendita. Nel 1945 nacque nostra figlia Vera. Vera aveva appena compiuto quattro settimane quando ebbi le prime notizie, prima dalla Croce Rossa e poi dal ministero degli esteri britannico. Nessuno nelle numerose famiglie di emigranti ebrei aveva ancora avuto notizie. Fui la prima. Una prima lettera smentiva che un certo Alfred Lewin fosse stato rinchiuso in un lager in Olanda; una seconda mi diceva della morte in Italia di mia madre e di mio fratello. Non riuscii a sapere altro. Non credo sarei riuscita a sopravvivere a quella notizia se non avessi avuto la mia bambina da stringere fra le braccia. La sua esistenza fu così determinante che mi sono sentita sempre in debito verso di lei. Sono passati 56 anni e in tutti questi anni mi ha sempre tormentato l’idea di non sapere come fossero finiti i miei. Pensavo che i loro corpi fossero stati sotterrati chissà dove. Quando altri portavano fiori sulle tombe dei loro cari, dicevo sempre: “Voi almeno potete farlo, io non saprei dove portarli”. Per cui il fatto di poter essere qui è come un sollievo”. È una storia che si chiude. Adesso posso pensare più serenamente alla loro morte. Quindi sono estremamente grata a chi ha reso possibile che io fossi qui. una città 44 le storie

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