A conti fatti
Giulia Galera dal 2008 è ricercatrice senior presso Euricse. I suoi interessi di ricerca ri- guardano in particolare il fenomeno del- l’impresa sociale in prospettiva internazio- nale e comparata. Ha collaborato e collabo- ra con varie istituzioni internazionali (Commissione europea, Undp, Oecd, Parla- mento europeo, Ilo). Dal 2019 è presidente di Miledù, un’impresa sociale finalizzata a favorire l’inclusione lavorativa e sociale di richiedenti asilo e rifugiati, che opera nel- l’ambito della valorizzazione e della tutela del paesaggio. Nel quarantennale del censimento etnico del 1981, condivido alcuni pensieri su cosa abbia significato crescere a Vipiteno-Ster- zing negli anni del fervido “separatismo et- nico”, intrecciandoli con i risultati di un la- voro di ricerca realizzato per la mia tesi di laurea a fine anni Novanta. Mentre nelle prime due sezioni ripercorro attraverso una ricostruzione auto-biografica gli anni della mia infanzia, nelle ultime due analiz- zo gli aspetti più controversi dell’istituto del “censimento etnico” e osservo alcune tendenze della società civile altoatesina- sudtirolese, utilizzando come chiave di let- tura le esperienze di cooperazione. 1. Vipiteno-Sterzing ai tempi dell’istituzione del “censimento etnico” Più ci separiamo, più ci capiremo Il lavoro di ricerca per la tesi di laurea è stato un percorso non pianificato di risco- perta del territorio in cui sono nata e cre- sciuta: l’Alto Adige-Südtirol. A livello per- sonale, questa prima esperienza di ricerca ha rappresentato, quindi, molto più di un esercizio di ricostruzione dell’evoluzione normativa del sistema di tutela sudtirolese e di ricerca sul campo. È stata una tappa fondamentale che, guidandomi nell’analisi critica di un sistema e di un contesto socia- le nelle cui contraddizioni ero inconsape- volmente immersa, mi ha permesso di ri- congiungermi con il territorio in cui ho vis- suto per molti anni. In particolare, mi ha aiutato sia a comprendere le ragioni di quel senso d’inadeguatezza che mi ha accompa- gnato negli anni vissuti a Vipiteno-Ster- zing, sia di contestualizzarlo, portandomi così ad apprezzare anche le ricchezze e i va- lori di cui il territorio di frontiera in cui so- no cresciuta è ricco. La sensazione di disagio la associo cronolo- gicamente al momento d’iscrizione alla scuola dell’infanzia, che non poté essere quella in lingua tedesca, come deciso dopo tormentate riflessioni dai miei genitori. Es- sendo io “italiana” sia di padre che di “ma- dre”, la richiesta di iscrizione fu come da copione rigettata d’ufficio dai dirigenti del- la scuola dell’infanzia in lingua tedesca del tempo. Questo primo episodio di esclusione, rac- contatomi a più riprese dai miei genitori per denunciare la violazione di un diritto e rimarcare la loro ferma volontà di favorire il mio avvicinamento al gruppo tedesco, non rimase un caso isolato. Da lì in poi la sensazione di trovarmi nel posto sbagliato mi ha accompagnato in molte altre occasio- ni; non a scuola, dove tra la fine degli anni Settanta e buona parte degli anni Ottanta era tecnicamente impossibile incrociare bambini di lingua tedesca, essendo gli orari di entrata e uscita e le pause accuratamen- te sfasate 1 , ma nella maggior parte dei mo- menti extra-scolastici. A differenza dell’ambiente scolastico che era -e continua a essere salvo eccezioni- se- parato per gruppi linguistici, a Vipiteno- Sterzing era normale interagire con i bam- bini dell’altro gruppo linguistico in cortile o per praticare attività sportive. E lo stesso valeva per gli adulti. Trattandosi di un pic- colo paese con meno di 6.000 abitanti, le oc- casioni d’incontro tra persone appartenenti al gruppo italiano e tedesco, che condivide- vano le stesse passioni, erano diffuse. An- che a livello organizzativo era frequente strutturarsi per gestire insieme l’accesso ad attività sportive. Anzi, nella maggioran- za dei casi, la cooperazione tra italiani e te- deschi era l’unica soluzione possibile che garantisse la sopravvivenza delle piccole associazioni e società sportive. E quando dava vita a iniziative congiunte, funziona- va, a conferma della naturale inclinazione delle persone di madrelingua “tedesca” e “italiana” a interagire nella vita reale, se messe nelle condizioni di farlo. Non era in- vece questo il caso dei centri urbani di mag- giori dimensioni, dove era viceversa norma- le dividersi anche per praticare uno sport. A Bressanone, ad esempio, sono coesistiti fino a dieci anni fa circa il Tennis Club Ita- liano e il Tennis Verein Brixen, uno accan- to all’altro, quasi a voler rimarcare l’incom- prensibile differenza che può esserci tra il giocare a tennis in italiano e in tedesco. Stessa considerazione valeva per gli spazi e i quartieri; a differenza dei centri abitati più grandi, in cui esistono tuttora zone ita- liane e tedesche, a Vipiteno non vi erano aree urbane a prevalente popolazione di un gruppo o dell’altro. Si viveva praticamente gli uni accanto agli altri. Ma la vicinanza fisica non sempre basta, o almeno non è bastata, nel mio caso, a farmi sentire parte di una comunità. La percezio- ne di una divisione, a volte ben riconoscibi- le, altre volte invisibile tra “italiani” e “te- deschi”, ha continuato ad alimentare in me un senso di incompletezza. Questa sensa- zione trovava conferma nei discorsi degli adulti, in particolare dei miei genitori che non perdevano occasione per sottolineare quanto fosse fondamentale apprendere per- fettamente la lingua tedesca per poter tro- vare una buona occupazione. Archiviata definitivamente la possibilità di frequenta- re le scuole in lingua tedesca, si prodigaro- no per organizzare scambi di ospitalità e vacanze studio in Austria e Germania, af- finché io e le mie sorelle ci preparassimo adeguatamente a superare il tanto agogna- to esame di bilinguismo di gruppo A. Il vero obiettivo diventò apprendere l’ Ho- chdeutsch , considerata la barriera di acces- so al mercato del lavoro. Da un certo mo- mento in poi si smise di rimarcare l’impor- tanza di apprendere la lingua parlata dalla maggioranza della popolazione, quella che crea relazioni e connessioni: il dialetto. For- se perché la circostanza di vivere separati, 12 quasi a voler rimarcare l’incomprensibile differenza che può esserci tra il giocare a tennis in italiano e in tedesco Tracce di convivenza e cooperazione trasversale ai gruppi linguistici Riflessioni a quarant’anni dall’adozione del censimento etnico, tra ricerca e vissuto personale; la prima “esperienza di esclusione” alla scuola dell’infanzia, poi l’attività di volontariato in un’associazione bilingue; una tesi di laurea sul sistema di tutele in Alto Adige-Südtirol; un sistema di “schedatura etnica”che ha compromesso la convivenza. Di Giulia Galera. intervento
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