A conti fatti
l’allora europarlamentare verde aveva ri- fiutato la dichiarazione di appartenenza a un gruppo linguistico (tedesco, italiano o ladino), una condizione necessaria per poter partecipare alle elezioni ammini- strative in Alto Adige. Langer, che si tol- se la vita pochi mesi dopo, era rimasto sconvolto proprio dalla guerra in quella Bosnia che avrebbe poi adottato, come tentativo di convivenza, un sistema non troppo dissimile da quello sudtirolese di cui lui sognava un superamento. Nonostante tutto, però, grazie al soste- gno e al pungolo dell’unione europea, la Bosnia nel 2013 è riuscita a condurre un censimento, subito contestato, già in cor- so d’opera, da alcuni importanti leader politici della comunità serbo-bosniaca. Ma poi, passavano i mesi e passavano gli anni, e dei risultati del censimento non c’era traccia. Bruxelles dovette ricorrere alle minacce perché a metà del 2016 uscissero i dati definitivi che rivelarono una triste verità: la “pulizia etnica”, sia quella violenta che aveva originato que- sta espressione aberrante, sia quella più sottilmente pervasiva fatta del fastidio di vivere in un ambiente ormai “in-salu- bre”, di una sensazione di isolamento e anche solo di banale stanchezza, aveva funzionato benissimo. È un fenomeno che si osserva chiaramen- te già limitandosi a Sarajevo e a Banja Luka, e cioè ai capoluoghi della Federa- zione croatomusulmana e della Republi- ka Srpska, le due “entità” che formano lo stato bosniaco. Nel 1991, pochi mesi pri- ma dello scoppio della guerra, a Sarajevo i bosgnacchi musulmani erano il 50,5% della popolazione della città, i serbi il 25,5% e i croati il 6,7%. Nel 2013 i mu- sulmani bosgnacchi erano diventati l’80,7%, i serbi il 3,7% e i croati il 4,9%. Il contrario è avvenuto a Banja Luka: lì, nel 1991, i serbi erano il 49%, i musulma- ni il 19,3% e i croati l’11%, mentre nel 2013 la situazione era cambiata così: ser- bi 87,2%, musulmani 5,4%, croati 3%. Questi dati sono come un bacio in fronte al triplice ultranazionalismo per il “buon lavoro” eseguito nella costruzione di re- cinti etnicamente compatti al loro inter- no. Ma il fatto che quelle che erano delle robuste minoranze siano diventate delle minoranze molto esigue ha due effetti op- posti. Da un lato appare più che mai ne- cessario proteggere i diritti di queste co- munità molto fragili (ed ecco quindi che gli ultranazionalisti possono urlare a di- fesa dei fratelli e delle sorelle rimasti soli soletti nel posto sbagliato) e, dall’altro, appare però sempre più difficile sostene- re la necessità di tutelare i diritti di que- ste minoranze ormai statisticamente quasi irrilevanti (ed ecco quindi che gli stessi ultranazionalisti possono urlare che non è necessario collocare la scritta anche in caratteri latini, o in caratteri ci- rillici, se i cittadini a cui questa scritta si rivolge sono rimasti quattro gatti). D’altra parte, se i numeri usciti dal cen- simento hanno confermato i timori che essi potessero contribuire all’entropia na- zionalista, si è visto anche che i consi- stenti flussi migratori interni e verso l’estero dei cittadini bosniaci, non si sono sempre accompagnati a formali cambi di residenza. Altrimenti non si capirebbe come mai a Srebrenica abbia vinto le ele- zioni un sindaco serbo. Secondo il censimento del 2013, in que- sta cittadina -che è stata teatro di un grande eccidio di musulmani a opera del- le milizie serbe, ma che per ragioni geo- grafiche è poi rimasta dalla “parte sba- gliata” della Bosnia, e cioè nella Republi- ka Srpska- i cittadini musulmani sono ancora la maggioranza (il 54% a fronte di un 45% di serbi e di uno zero virgola di croati). Eppure nelle ultime amministra- tive ha prevalso un candidato serbo. E, no, non si è trattato di un lodevole sot- trarsi degli elettori ai recinti eretti dai partiti nazionalisti, né di un episodio di virtuosa collaborazione interetnica, ma è probabilmente l’esito di un disallinea- mento tra i numeri che compaiono nel censimento e l’effettivo numero delle per- sone che vivono (e votano) a Srebrenica. Nel caso della Croazia, invece, il proble- ma è legato al fatto che alcuni diritti per le minoranze (ad esempio, quelli lingui- stici) scattano soltanto quando quella mi- noranza costituisce almeno un terzo degli abitanti di un determinato comune. Per quanto riguarda la minoranza italia- na, che (dati del censimento del 2011) su- pera la soglia solo nel paese di Grisigna- na/Grožnjan dove costituisce il 39,4% dei residenti e la sfiora senza raggiungerla a Buie/Buje (33,2%), il riconoscimento a vari livelli della lingua, in virtù di deci- sioni autonome da parte delle ammini- strazioni locali istriane, si è esteso anche ad altri comuni in cui vivono comunità di italofoni più piccole. Ma in altre zone della Croazia ci sono in- vece stati seri scontri legati a quella so- glia del 33,3%. L’esistenza di una quota precisa perché una minoranza possa avere determinati privilegi (come ad esempio la cartelloni- stica stradale nella propria lingua) non è di per sé una cosa strana. In Finlandia, ad esempio, una località acquisisce lo status di comune bilingue finlandese- svedese soltanto se i residenti apparte- nenti alla minoranza di lingua svedese superano l’8% del totale (o le 3.000 uni- la Bulgaria sta “spingendo” perché molti macedoni si registrino alla pressoché inesistente minoranza bulgara reprint 28
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