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nirono con una corda al collo, altri rimasero
per un lungo periodo in carcere, anche se
avevano già scontato la pena stabilita dai
Tribunali della Rivoluzione.
Nel 2013 gli iraniani sono chiamati alle
urne per eleggere un nuovo presidente.
L’Iran è un paese complicato e imprevedibi-
le. è ancora presto per fare delle previsioni.
sull’elezione del prossimo presidente inci-
derà in parte l’esito delle presidenziali ame-
ricane che si terranno a novembre. Influirà
il negoziato sul nucleare che è ripreso dopo
un lungo periodo di stallo. Infine, l’elemento
interno che condizionerà le elezioni del 2013
è la situazione economica. In Iran c’è una
classe media di burocrati e dirigenti delle
aziende che ha un pacchetto di richieste di
libertà civili. Questi hanno a loro favore il
fatto di essere necessari al funzionamento
dello Stato, ma proprio perché dipendono
economicamente dallo Stato non si muove-
ranno fino a quando non saranno sicuri di
raggiungere degli obiettivi. In Iran si è crea-
to anche un fronte di poveri che si allarga di
giorno in giorno. Se questi due settori della
società riusciranno a fare fronte comune, al-
lora le cose potranno cambiare.
(A.R.)
Giornalista, sposato dal 2001 con Narges
Mohammadi, ha passato 15 dei suoi 52
anni in carcere. è stato uno dei consiglieri
dell’hojatolislam Mehdi Karroubi, candi-
dato alla presidenza nel 2009. All’inizio del
2012 ha deciso di trasferirsi in Europa per
sfuggire a un nuovo arresto.
Signor Rahmani, perché Narges è stata
arrestata nuovamente?
Credo per esercitare una pressione psicologi-
ca perché io rientri nel paese. Poi, visto che
l’arresto di Narges coincide più o meno con
la ripresa dei negoziati con l’Occidente, per
far sapere all’opposizione interna che sulla
questione dei diritti umani non ci sarà alcun
cambiamento di rotta. L’arresto di Narges,
inoltre, è anche un messaggio all’Occidente:
non ci piegheremo alle vostre pressioni per
quanto riguarda la situazione interna.
Perché sua moglie, che aveva una con-
danna a sei anni sospesa, non ha lasciato
il paese insieme a lei e ai vostri due figli?
Io ho scelto di uscire dall’Iran, non solo per-
ché ho passato già 14 anni in carcere e ne ho
altri sette da scontare, ma soprattutto per-
ché non potevo più svolgere alcuna attività.
All’estero forse potrò contribuire meglio alla
lotta per la democrazia nel mio paese. Nar-
ges aveva fatto un’altra analisi. Lei è con-
vinta che, come attivista per i diritti umani,
può essere più utile rimanendo sul campo.
Abbiamo discusso molto e, alla fine, io a ma-
lincuore ho lasciato il paese, mia moglie e i
miei figli.
In questi ultimi due anni sembra che ci
sia un gran via vai dalle carceri. Come
mai, cos’è cambiato?
è cambiata la strategia del governo. Grazie
all’aumento degli introiti del petrolio e del
gas, il governo di Mahmoud Ahmadinejad
dispone di un apparato repressivo molto
forte, ben strutturato e direi anche ben pre-
parato. Oggi le persone vengono arrestate
in massa, ma giudicate a piccoli gruppi,
fatta eccezione per alcuni personaggi consi-
derati estremamente pericolosi che vengono
fatti entrare e uscire dal carcere per dare
una continuità alla repressione. Con la gen-
te che viene messa in carcere tutti i giorni,
la paura diventa una costante nella vita di
chi fa politica. Il governo, poi, rilascia molte
persone con cauzioni molto pesanti, trasfor-
mandole di fatto in ostaggi. Basta un nien-
te per perdere la casa o il lavoro. Un’altra
novità di quest’ultimo periodo, cioè dopo
le presidenziali del 2009, è di riservare un
trattamento diverso ai detenuti noti e illu-
stri. Questi vengono sottoposti a torture psi-
cologiche, ma mai fisiche.
Lei fu arrestato per la prima volta ne-
gli anni ’80...
Sì, con la ridicola accusa di voler rovesciare
il regime con mezzi legali. Per la prima vol-
ta sentivo definire l’uso di mezzi legali un
atto di illegalità. Allora il problema non era
tanto la durezza del carcere, ma la violenza
a cui dovevi sottometterti una volta scon-
tata la pena. Ti chiedevano di pentirti da-
vanti alle telecamere della televisione, am-
mettendo di essere un elemento nefasto, di
appartenente a un’organizzazione diabolica
al servizio dell’imperialismo e delle potenze
straniere e che aveva come obiettivo quello
di tradire la rivoluzione.
Molti si rifiutarono, diverse centinaia, e fi-
Taghi Rahmani
Prigionieri di coscienza
Nucleare e riarmo atomico
Khamenei potrebbe non rinunciare al nucleare, bensì, se messo con le spalle al muro, rallentare il processo di riarmo atomico per evitare la catastrofe eco-
nomica. Una soluzione che sembra accettabile per le potenze occidentali. Le recenti avance degli Stati Uniti, i contatti presi dal nuovo presidente francese
subito dopo la sua elezione, che ha inviato a Teheran in visita privata l’ex premier socialista Michel Rocard, sono segnali che confermano questa ipotesi.
Ipotesi che preoccupa molto chi in Iran lotta per la democrazia e il rispetto dei diritti umani. Personaggi di spicco dell’opposizione in Iran, come Shirin
Ebadi, Premio Nobel per la Pace, hanno già lanciato l’allarme: l’Occidente potrebbe sacrificare i diritti umani sull’altare di un compromesso sul nucleare.
Quello che, nello scambio del silenzio sui diritti umani con la rinuncia alla corsa nucleare, non viene preso in considerazione, è il fatto che difficilmente
la Repubblica Islamica rispetterà i patti. La sospensione dell’arricchimento dell’uranio nel 2003, ai tempi della presidenza Khatami, in realtà non ha
fermato la corsa al riarmo. Al momento della firma dell’accordo sulla sospensione dell’arricchimento dell’uranio tra la delegazione europea, guidata dallo
spagnolo Javier Solana, all’epoca il massimo rappresentante per la politica estera e sicurezza dell’Unione Europea, e il governo di Mohammad Khatami,
la Repubblica Islamica disponeva di 2.000 centrifughe. Nel 2006, quando il nuovo presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha dichiarato la fine della
sospensione, erano 9.000 le centrifughe che sono entrate in funzione. Puntare sul rispetto degli accordi raggiunti con la Repubblica Islamica è una vera
scommessa. “Solo un governo eletto dalla popolazione e con il dovere di rendere conto agli elettori, potrebbe mantenere fede ai suoi impegni con la comuni-
tà internazionale”, continua a ripetere Shirin Ebadi. “Una svendita dei diritti dei cittadini iraniani in cambio di un accordo sul nucleare con la Repubblica
Islamica -afferma la Ebadi- è un tradimento che lascerà i segni nelle relazioni tra gli iraniani e gli occidentali. Come il contributo americano al golpe di
stato del 1953 contro il governo del nazionalista Mohammad Mossadegh, che ha aperto una ferita nelle relazioni tra gli iraniani e gli americani che non
si è ancora rimarginata”.
(A.R.)