Cari amici,
a gennaio, una mattina presto, quando gli uccelli erano troppo assiderati per cantare, sono andata a un convegno aperto agli artisti, agli scrittori e ai devoti della cultura; una riunione che faceva parte di "What Next?”, l’iniziativa volontaria nazionale creata allo scopo di promuovere i valori fondamentali dell’arte, nel tentativo di frenare la reazione istintiva, in tempi di crisi, di far scendere la mannaia dei tagli sulla cultura. In passato è già accaduto, e la mannaia è pronta a calare ancora una volta. I finanziamenti del governo centrale alle autorità locali sono stati ridotti del 28% nell’arco di quattro anni (2011-2015), cosa che, per l’arte, significa tagli su tagli. Perfino il budget del Consiglio delle arti è stato considerevolmente limato. Ciò che è emerso durante il convegno, davanti a un caffè -caldo, per fortuna- e dai discorsi strategici, è cosa succederebbe se coloro che hanno votato i tagli, la gente che non vede l’arte come questione di interesse politico, fossero messi davanti a un mondo privo di qualunque forma d’arte.
Com’è ovvio, non si è trattato dell’unico scenario ipotizzato. È questa una questione che invade le arti visive e la letteratura. I romanzi che partono da simili premesse sono moltissimi! E se... la Germania nazista non fosse stata sconfitta? E se il Titanic non fosse affondato? E se gli Stati Uniti e la Gran Bretagna non avessero invaso l’Iraq? Oltre un decennio fa, l’Eden Project -a St. Austell, in Cornovaglia- ha ospitato un’installazione di arte meccanica incentrata su un nucleo familiare volta a mostrare come sarebbe la vita senza più piante o alberi. Quel che rimaneva era un mucchio di corpi meccanici privi di vita. Nient’altro. Tutto morto. E se l’arte fosse strappata via dalle nostre vite? Anche dal quotidiano, e non solo dai momenti speciali?  Forse al mattino saremmo ancora in grado di indossare qualcosa, ma cosa? In un mondo del genere non ci sarebbero più vestiti firmati. Mangeremmo ancora, ma sceglieremmo il cibo da menu concepiti senza gioia. La nostra fantasia appassirebbe. La nostra capacità di capire il mondo e le altre persone si affievolirebbe.
Stamattina, alla radio, il vescovo di Norwich ha riflettuto sul valore che hanno arte e cultura nel capire l’altro. Forse, si chiedeva, in questi tempi estremi, se dessimo un’occhiata all’arte e alla cultura del mondo islamico, capiremmo meglio e diverremmo più tolleranti rispetto a coloro che sono diversi. È in questo che le arti funzionano meglio: svelano altri mondi, altri modi di pensare, altre idee; portano le cose a progredire quando tutto il resto è immobilizzato dai nodi della politica.
Anni fa, durante la guerra in Bosnia, mentre infuriava l’assedio di Sarajevo, un bosniaco coraggioso allestì una stazione radiofonica per trasmettere musica, qualsiasi tipo di musica: bella musica, perfino serba. A quel tempo, non tutti apprezzarono il suo gesto di pace. Alcuni non riuscivano a capire perché un musulmano bosniaco trasmettesse rock serbo, quando la città veniva bombardata e la gente moriva di fame. Il graffiti più bello che io abbia visto a Sarajevo, sul finire della guerra, raffigurava le parole "Edith Piaf” scritte al contrario sotto un balcone. Sono passati decenni, e un altro ponte musicale è stato costruito tra un pianista israeliano, Idan Raichel, e un chitarrista maliano, Vieux Farka Toure, i quali, attraverso il gruppo Toure-Raichel Collective hanno creato una fusione di stili musicali giunta ai vertici delle classifiche mondiali di ­iTunes. Le arti e la cultura uniscono la gente quando la belligeranza e la miseria formano ostruzioni; accrescono la salute fisica e spirituale di un paese, danno impulso all’economia locale e nazionale. Peter Bazalgette, presidente del Consiglio delle arti in Gran Bretagna, ha recentemente scritto dei modi in cui l’arte crea un senso di benessere, prevenendo le malattie. Sono sempre più numerosi i medici e gli operatori sanitari che guardano all’arte come misura preventiva per far risparmiare milioni alle casse della sanità. Le donne pensionate, che cercano faticosamente di convivere con un’artrosi dell’anca, frequentano corsi settimanali di scrittura creativa, tenendo così a bada la depressione, e riuscendo a intrattenere rapporti sociali significativi.
Ci sono dei corsi di ballo per coloro che soffrono del morbo di Parkinson, e i portantini di un ospedale della costa orientale realizzano dipinti durante la pausa pranzo. I libri cambiano la vita; tutti noi ricordiamo libri che sono entrati a far parte della nostra struttura molecolare, che si tratti del viaggio d’infanzia attraverso Alice nel paese delle meraviglie o di sprofondare nel caldo realismo e nell’accogliente sporcizia di un romanzo di Jacqueline Wilson. Oggi esiste un’iniziativa chiamata "Books on Prescription”, un servizio esteso in tutto il paese che prevede -non scherzo- la prescrizione di libri ai malati e ai loro medici, e che sta guadagnando sempre più consensi.
Quanto davvero gioverebbe alla ministra dell’educazione inglese Nicky Morgan la prescrizione di un buon libro sull’arte? Mentre lanciava la campagna per promuovere lo studio della scienza, della tecnologia, dell’ingegneria e della matematica (Stem), la ministra ha messo in guardia la gente sul fatto che le arti e gli studi umanistici non sono più materie utili di studio per i giovani. Studiare materie artistiche nelle scuole potrebbe "tirare indietro (i giovani) per il resto della loro vita”. Sembra che solo gli studi Stem, le scienze e la matematica "possano aprire porte e offrire possibilità nel futuro”. 
E se... le fantasie distopiche divenissero realtà? E se...
©Belona Greenwood
(traduzione di Antonio Fedele)