Quando una tradizione letteraria e un sistema stilistico vanno in frantumi, si apre un vuoto che forse (ma niente è garantito) lascia spazio a nuovi linguaggi.  Questo significa che qualcosa è avvenuto prima e fuori della letteratura. Qualcosa di drammatico, traumatico e a volte liberatorio. Cambia la società, cambia la situazione e la vita degli scrittori. Il pubblico non è più lo stesso. Un patto comunicativo che prima fondava l’accordo, l’intesa fra autori e lettori, ora viene meno. Dopo la comparsa di autori-evento come Baudelaire, Whitman, Dostoevskij, Rimbaud, Nietzsche, niente poteva rimanere come prima. Non il romanzo, non la filosofia, non la poesia.
In Italia i due autori più sintomatici, nel senso che si esprimono consapevolmente come sintomo di un’interruzione irreparabile di continuità e di accordo, sono Carlo Michelstaedter e Dino Campana. Il primo, suicida a ventitré anni nel 1910. Il secondo, deceduto in manicomio a quarantasette anni nel 1932, dopo quattordici anni di degenza.
L’arrivo del Novecento, più che essere liberatorio (lo è solo per i futuristi), ha qualcosa di luttuoso. Smarrimento, instabilità, malinconia, angoscia, rifiuto di obbedienza, inguaribile senso di solitudine non risparmiano nessuno dei nuovi poeti. Un’intera generazione nata fra il 1880 e il 1890 entra nel nuovo secolo inventando, in stato di necessità, un nuovo modo di esprimersi. Un nuovo, inusitato modo di intendere la poesia e di scriverla. Cambia l’esistenza degli autori e cambia il metodo, l’uso del linguaggio. Fra due estremi, quello del tradizionalista Gozzano (che amava perdute scenografie ottocentesche) e quello di un innovatore radicale come Ungaretti, destinato a un lungo e glorioso futuro, Michelstaedter e Campana sono i primi a vivere il trauma, sono le più esemplari vittime o i più eroici e spericolati nemici di una società in trasformazione che preparava lo sterminio morale degli individui.
Qualche continuità con il passato c’era. I precedenti, i prototipi li aveva forniti il romanticismo. Il suicidio di un personaggio come Werther, quello di uno scrittore come Kleist, la follia di Hoelderlin, la disperazione di Leopardi, le visioni e le allucinazioni di Coleridge e di Poe avevano mostrato che la modernità poetica prendeva forma come rifiuto della modernità sociale.
Genio filosofico come forse nessun altro nel Novecento italiano, Michelstaedter pensa e scrive alle soglie della vita: pensa la vita con una tale intensità subito definitiva, che decide di non viverla pur di non perderne o tradirne la pienezza. La persuasione e la rettorica, sua tesi di laurea e suo solo libro, è un’opera che dispiega e sintetizza in termini irriducibilmente antitetici la sua riflessione sull’esistenza individuale e sulla storicità sociale che la nega e la aliena, deviandola da se stessa. È filosofia dell’esistenza e poema filosofico in prosa per l’eccezionale tensione e condensazione stilistica in formule, figure, parabole e allegorie. Non molte le sue poesie, che non fanno pensare a nessuna  tendenza riscontrabile nei poeti della sua generazione, pur avendo qualcosa in comune con Rebora e Sbarbaro. Ma la sua filosofia è così autobiografica che ha più lo statuto della poesia che della filosofia professionale.
Nato a Gorizia da famiglia ebraica nel 1887, studiò matematica all’Università di Vienna e poi lettere e filosofia a Firenze. La sua tesi di laurea nasce come studio su Platone e Aristotele, per trasformarsi in un’analisi della vita nel mondo contemporaneo. Il suo stile poetico è più immaturo, ma anche potentemente scolpito. Sembra non avere precedenti se non in Leopardi e qualche affinità con l’espressionismo tedesco.

Giaccio fra l’erbe
sulla schiena del monte, e beve il sole
il mio corpo che il vento m’accarezza
e sfiorano il mio capo i fiori e l’erbe
ch’agita il vento
e lo sciame ronzante degli insetti.
Delle rondini il volo affaccendato
segna di curve rotte il cielo azzurro
e trae nell’alto vasti cerchi il largo
volo dei falchi...
(...)
No, non son questo corpo, queste membra
prostrate qui fra l’erbe sulla terra,
più ch’io non sia gli insetti o l’erbe o i fiori
o i falchi su nell’aria o il vento o il sole.
Io son solo, lontano, io son diverso -
altro sole, altro vento e più superbo
volo per altri cieli è la mia vita...
Ma ora qui che aspetto, e la mia vita
perché non vive, perché non avviene?
Che è questa luce, che è questo calore,
questo ronzar ...[continua]

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