Angela Romanin da una decina d’anni lavora a Bologna presso la Casa delle donne per non subire violenza.

Com’è nata l’esperienza del Centro Antiviolenza?
Il Centro ha aperto i battenti all’inizio del ’90, per volontà di un gruppo di donne che aveva cominciato a interessarsi del problema della violenza ancora verso la metà degli anni ’80, in conseguenza di una serie di stupri avvenuti in città. Queste donne, una decina, alcune della sinistra Ds e altre che invece non si riconoscevano in alcun partito, erano accomunate dall’appartenenza alla sinistra e al movimento femminista e venivano dall’esperienza di gruppi di donne del bolognese. Cominciarono a riunirsi al Centro di Documentazione e a riflettere sulle problematiche legate alla violenza contro le donne, studiando il fenomeno sotto il profilo teorico e confrontandosi anche con analoghe esperienze di donne straniere -grazie soprattutto a una di loro, che era di Bolzano e aveva contatti con le donne del movimento femminista tedesco-; si resero così conto che all’estero l’elaborazione di questi problemi era molto più avanzata. Visitarono anche dei centro antiviolenza di altre nazioni, attivi già da anni, mentre in Italia non se ne sapeva niente. Giunsero così alla scoperta di un elemento nuovo, almeno sul piano della conoscenza: lo stupro è solo una goccia nel mare delle violenze; la parte del leone la fa il maltrattamento domestico, che è costituito da una somma di violenze. Il maltrattamento domestico consiste infatti in una serie di comportamenti quali l’uso della violenza fisica insieme a quella psicologica, vale a dire denigrazioni, ricatti, offese, minacce, pedinamenti, controllo del corpo, oppure chiudere la donna in casa o, viceversa, lasciarla fuori di casa; e poi la violenza sessuale e, spesso, anche quella economica, che può andare dalla privazione dello stipendio al lasciare moglie e figli senza alimenti. Fino ad arrivare, addirittura, alle minacce di morte. L’uso congiunto di queste forme di violenza crea il pattern del maltrattamento domestico, che è una forma gravissima di violenza, che gli studi scientifici equiparano ad una situazione estrema: il sequestro di persona con tortura, che subiscono le detenute nei regimi dittatoriali.
Sulla base di tale elaborazione personale e politica, questo gruppo di donne mise a punto un progetto e lo presentò al Comune di Bologna, all’allora assessore alle Politiche Sociali Silvia Bartolini. Il Comune lo accolse e diede un finanziamento e una sede, la sede storica di via dei Poeti. Da allora il centro riceve ogni anno circa 350 richieste d’aiuto, di cui una parte dà luogo a un percorso, oltrepassa cioè la prima telefonata. Il 70-80% delle chiamate proviene da Bologna, un altro 20-30% dalla provincia, e un’altra piccola parte dalla regione o extra-regione.
Puoi raccontarci come si articola la richiesta d’aiuto?
Di solito la donna chiama perché ha saputo da qualcuno del nostro numero, dalla rete amicale, dalle riviste femminili, dove spesso vengono pubblicati i nostri recapiti, oppure, a volte, anche dalla polizia o dall’assistente sociale. Telefona perché si rende conto di aver bisogno d’aiuto, di non farcela da sola, magari perché ha esaurito la rete amicale e i parenti non ne vogliono più sapere di lei. Occorre tener presente che in queste situazioni, all’inizio funziona moltissimo l’idea che “sì, cambierà, passerà”, “io ti salverò, io ti cambierò”; c’è tutto un vissuto di speranza legato al miglioramento della coppia, al sogno di salvare l’unione, soprattutto considerando come veniamo cresciute noi donne, nella mistica del principe azzurro, che purtroppo funziona e agisce nel concreto. Infatti, di solito, il percorso che porta le donne a uscire dalla violenza non è lineare; non è che una prende la decisione e va; spesso la ricerca d’aiuto ha un carattere circolare, di corsi e ricorsi che si muovono lungo una spirale. Anzi, spesso molte donne ritornano dal marito violento. Questa dinamica riproduce un po’ anche il circolo della violenza domestica, nel senso che anche il maltrattamento segue dei cicli che hanno l’andamento di una spirale crescente, in cui la violenza aumenta progressivamente. Magari inizia con un conflitto di coppia, e la donna, che nella dinamica relazionale ha più facilità a confliggere con le parole -a noi insegnano a fare così da bambine, siamo più brave a parlare- non vuole mollare e lui, visto che non riesce ad averla vinta con le parole, passa alle vie di fatto e agi ...[continua]

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