Angelo Piccinin, imprenditore, è socio fondatore del Mobilificio Santa Lucia di Prata, Pordenone.

Sono nato nel 1937 e quindi ho ricordi abbastanza precisi del dopoguerra e della miseria che in questa zona, da metà degli anni ’40 a inizio anni ‘50, ha portato a un’emigrazione di circa il 50% della forza lavoro.
Io sono figlio di una società prettamente contadina. Mio padre era un piccolo coltivatore diretto e mia madre casalinga, avevo poi quattro fratelli.
Fortunatamente ho avuto la possibilità di studiare, prima in modo abbastanza rocambolesco alle medie, poi all’istituto tecnico, quale perito industriale, dove mi sono diplomato nel ’57.
La mia prima esperienza di lavoro è stata in un’azienda pordenonese, la Savio. Da agosto ’60 al febbraio del ’66 sono stato alla Pirelli, nel settore organizzazione industriale, tempi, metodi e costi.
Poi è arrivata l’alluvione del ’65 e con quella l’incontro con i sei falegnami, che poi sarebbero diventati miei soci.
Il loro piccolo laboratorio era stato distrutto dall’acqua. Ho ancora un ricordo lucidissimo di quell’incontro: stavo andando a casa in bicicletta quando ho visto queste persone sotto una tettoia. Uno di loro aveva sposato una mia cugina, per cui mi hanno fermato: "Noi avremmo bisogno di uno che sa far di conto, tu accetteresti di venire con noi?”. Ho risposto: "Venite stasera a casa e ne parliamo”. Sono venuti i due più anziani a cui alla fine ho detto: "Va bene, io accetto, ad una condizione: che troviamo, intanto, un terreno dove non sia arrivata l’alluvione perché qua, se si ripete, andiamo a mollo, e magari un capannone piccolo, ma nuovo”.
Fortuna ha voluto che il falegname che aveva sposato mia cugina fosse proprietario, assieme al fratello, del terreno dove siamo adesso, che è stato graziato anche dall’alluvione del ’66. Allora ho detto: "Sì, vengo, però devo prima fare il settimo anno alla Pirelli per avere la liquidazione totale, per cui comincio a febbraio”.
Nel frattempo era stato costruito un piccolo capannone da 2-300 metri quadrati. Avevano fatto loro da muratori, c’era un capomastro, ma han fatto tutto loro, una roba incredibile. A quel punto occorreva un prestito. Abbiamo pensato di chiedere un aiuto, un finanziamento, al Mediocredito del Friuli, perché questa era zona depressa. Ci hanno concesso nove milioni di allora, dicendoci però che come garanzia dovevamo mettere almeno un milione a testa. Siccome la maggior parte di noi non aveva neanche quello, abbiamo dovuto chiedere a prestito da conoscenti anche il capitale di garanzia!
Lo sviluppo di questa zona ha contraddetto tutte le regole dell’economia. In genere si parla dei quattro fattori dello sviluppo. Bene, qui non ce n’era neanche uno. Capitali iniziali: zero; infrastrutture, ferrovie e strade: zero; materia prima: zero; professionalità specifica: beh, si veniva fuori dalle scuole serali di disegno, ma era quinta elementare, quindi insomma zero anche lì.
Quali sono stati allora i fattori determinanti? Il lavoro, il lavoro, il lavoro e ancora il lavoro.
Io facevo il contabile, ma davo una mano anche in fabbrica durante il giorno. L’orario di lavoro dei sette soci era: dalle sette del mattino fino a mezzogiorno; dall’una e un quarto fino alle sei e mezza, dopodiché andavamo a mangiare, ma dopo cena tornavamo a caricare il camion fino alle undici, mezzanotte. Al sabato si smetteva alle sei e mezzo di sera. Per un lungo periodo venivamo anche alla domenica mattina a caricare il camion.
All’epoca io avevo la morosa conosciuta a Milano. Lei mi scriveva e io, non avendo il tempo di risponderle, la chiamavo all’oratorio dei Salesiani, a Sesto San Giovanni, alle cinque e mezza della domenica pomeriggio, quando finivo di fare la contabilità. Per dire l’entità dell’impegno…
E’ stato così che in poco tempo questo territorio, a cavallo tra le province di Pordenone e di Treviso, è esploso. Così è andata anche nella zona della sedia a Manzano e, per un certo tipo di mobile, anche a Bassano del Grappa e a Verona.

Qui quasi tutte le piccole realtà imprenditoriali sono state messe su da ex operai.
Dei miei sei soci, due avevano fatto i falegnami all’estero, in Francia e in Svizzera. Uno fra l’altro c’era andato come clandestino, lo dico perché si sappia bene, perché quando sento dire "clandestini, clandestini!”… Gli altri quattro, invece, facevano tutti i falegnami in quest’area, nei primi laboratori. All’epoca c’erano quattro grossi artigiani, piccol ...[continua]

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