Goffredo Fofi, critico, saggista, direttore della rivista "Lo straniero", è il prefatore de La rivolta libertaria (ed. Eléuthera), antologia di scritti politici di Albert Camus. Riportiamo di seguito il suo intervento alla presentazione del volume tenutasi alla Libreria Utopia di Milano il 13 febbraio scorso.

L’unica giustificazione alla mia presenza qui, e alla mia incapacità a dire cose particolarmente precise e dotte, può essere data dal fatto che sono un lettore di Camus da sempre, fin dalla prima adolescenza, e che ho affrontato a più riprese, sia per ragioni biografiche che per interesse culturale, l’esame di quell’area di pensiero che fa capo a un gruppo di pensatori, di intellettuali, di scrittori, di letterati, di artisti che, capendo quello che le maggioranze non capivano perché erano o manipolate o complici, hanno illuminato il secolo, questo secolo tremendo che si sta per chiudere.
Camus è stato molto vicino a persone che credo gli anarchici amino molto: Andrea Caffi per esempio, che lavorò con lui.
Strano e straordinario personaggio di russo, figlio di padre italiano e madre russa, Caffi aveva fatto la rivoluzione del 1905, era stato segretario di Angelica Balabanow, segretario dell’Internazionale nel 1917; essendo socialista rivoluzionario, anarchico, naturalmente aveva litigato con Lenin, era fuggito e se n’era venuto in Italia da dove, poi, per motivi di antifascismo, dovette rifugiarsi in Francia, dove entrò nel giro di Gallimard e lavorò assiduamente come redattore; nell’immediato dopoguerra era nello stesso ufficio con Camus. Caffi fu legato al movimento di Giustizia e Libertà, a Carlo Levi, Chiaromonte, Renzo Giua, Ginzburg. I maligni dicevano che era lui l’autore degli Indifferenti di Moravia perché essendo stato molto amico del giovanissimo Moravia, gli aveva corretto il libro; aveva fatto quello che oggi si chiama editing. Tutti si stupivano che un ragazzo giovanissimo come Moravia scrivesse di primo acchito un capolavoro. L’influenza di Caffi è stata effettivamente di una qualche utilità. Caffi era stato amico dei grandi intellettuali russi del suo tempo e aveva una dimestichezza con il grande romanzo dell’Ottocento e dei primi decenni del Novecento che Moravia aveva in modo più limitato.
Camus fu anche il promotore e il curatore della pubblicazione da Gallimard di tutte le opere di Simone Weil dopo la sua morte. Camus fu poi legato direttamente con personaggi della cui importanza ci stiamo accorgendo solo ora in Italia: Silone e soprattutto Nicola Chiaromonte.
Chiaromonte conobbe Camus e diventò suo amico perché fuggendo dall’Italia si rifugiò in Francia, e da lì in Algeria; poi Chiaromonte finì in America e lì fu il tramite dei rapporti tra Camus e la rivista di Dwight Mc Donald, un altro personaggio straordinario di libero pensatore del nostro tempo, intorno alla quale ruotavano tutta una serie di intellettuali fra i quali spiccava Hannah Arendt. Quindi le due più grandi pensatrici del secolo, Simone Weil e Hannah Arendt, ebbero un legame di vicinanza con Camus. Ma ci sarebbero tanti altri personaggi di cui parlare: Orwell, tutti i dissidenti degli anni ’40 e ’50...

Camus morì nel ’60 in un incidente automobilistico poco tempo dopo aver preso il Nobel e mentre stava terminando il suo ultimo capolavoro, Il primo uomo, che è uscito solo due anni fa. Camus era più giovane di quegli intellettuali che negli anni ’30 si bruciarono sotto Mussolini, sotto Franco, sotto Stalin, nel conflitto, e nella difficoltà di scegliere, tra una destra rappresentata dall’America capitalistica o dalle dittature fasciste come quella italiana, tedesca e spagnola e una sinistra che veniva identificata con la Russia di Stalin. Lui, in qualche modo riuscì a schivare il dilemma degli anni Trenta per ragioni di età; altrimenti, probabilmente, non avrebbe avuto la vita facile, probabilmente non avrebbe superato lo scoglio della guerra e di quel dilemma. A me piace metterlo in rapporto con altri grandi personaggi un po’ ereticali e coraggiosi di quegli anni: Machado, per esempio, al quale anche in questo libro Camus dedica alcune righe molto affettuose, il più grande poeta spagnolo del secolo, che seguì i destini della repubblica e, fuggendo con tutti gli altri profughi inseguiti dalle armate di Franco nel momento della sconfitta, morì nella fuga al confine tra Spagna e Francia, di vecchiaia e di stenti, anche lui vittima del franchismo.

Rispetto a Camus, la figura contraddittoria di amico-nemico (non solo nemico perché per molto tempo ci fu fra i due un legame molto forte) fu quella di Sartre e, indirettamente, quella di Simone de Beauvoir.
Simone de Beauvoir scrisse un romanzo molto tendenzioso, I mandarini, oggi forse illeggibile, ma che negli anni ’50 e nei primi anni ’60 fu molto amato. In Italia questo volumone Einaudi era letto e discusso da tutta la sinistra ed era un testo che, nel raccontare il conflitto Sartre-Camus e la vicenda degli intellettuali francesi dell’epoca di fronte al problema capitalismo-comunismo, democrazia e dittatura, stava ovviamente tutto dalla parte di Sartre.
Con Sartre la rottura si consumò attorno al problema russo, il che non vuol dire che Sartre fosse stalinista; Sartre sicuramente non era stalinista, ma fu un compagno di strada dei comunisti, credeva che comunque, nell’Urss, malgrado i gulag, di cui conosceva certamente l’esistenza, ci fosse un sistema pieno di contraddizioni e assolutamente migliore di quello capitalista. E’ rimasta famosa la sua risposta (non ricordo a chi, ma è ormai una risposta storica, che è scritta, documentata) a chi gli ricordava che in Russia c’era il gulag, c’erano le persecuzioni contro i dissidenti e le deportazioni in massa dei kulaki e dei contadini, c’erano le stragi, c’era la Siberia: "Sì, va bene, lo sappiamo, però questo lo possiamo sapere noi, ma -disse testualmente- il ne faut pas troubler Billancourt", "non bisogna turbare gli operai della Renault" (Billancourt per la Francia è come dire Mirafiori in Italia, a Billancourt, nella periferia parigina, c’è la Renault ed è la località emblema della classe operaia francese). Cioè a dire: non bisogna turbare la classe operaia dicendogli che il comunismo non c’è, che il comunismo è in realtà un’altra dittatura, perché il nemico principale, il nemico principale di sempre è il capitalismo, il nemico principale è l’America e quindi... La logica era sempre quella del ricatto: prima era il fascismo, poi era stato il capitalismo; c’era sempre un nemico principale da abbattere e per farlo bisognava allearsi con gli altri, con l’altra parte. Quest’idea che bisogna sempre essere compagni di strada di qualcuno, bisogna sempre allearsi con qualcuno, con un qualche potere forte, è poi l’idea contro cui Camus si è ribellato.

Nell’opera di Camus credo ci sia, forse, la frase che di tutta la letteratura francese di questo secolo resterà più famosa, una frase su cui Camus ricama da par suo ne L’uomo in rivolta: "Mi rivolto, dunque siamo". "Siamo" e non "sono": la ribellione è un atto eminentemente individuale, si parte da un’indignazione, da una conoscenza, da una coscienza, ci si rivolta contro un’ingiustizia subita o vista subire da altri, ma il momento della rivolta individuale apre a un momento eminentemente collettivo, comunitario. Ci si rivolta in funzione di una collettività di persone che nella coraggiosa rivolta individuale di qualcuno trovano il loro punto di riferimento. Ci si ribella per se stessi e per gli altri nello stesso tempo. Nella ribellione è implicito un atto di solidarietà estremamente forte, un atto di comunità, di collettività.
Nel pensiero di Camus questo discorso della rivolta contrapposta al discorso della rivoluzione presenta una serie di passaggi a volte anche ambigui, perché, nel corso del tempo, dalla rivolta -dice Camus- deve nascere la rivoluzione. La rivolta individuale non può che portare alla rivolta veramente collettiva, anche se il moto immediato è individuale. Però nel momento in cui la rivolta diventa rivoluzione diventa un’altra cosa, perde la sua tensione, la sua capacità di controllo, la sua morale, si potrebbe dire, e diventa un qualcosa che deve essere gestito da qualcuno, da un leader, da un partito, da un pensiero (quello marxista nel caso della storia di questo secolo) e quindi la rivoluzione tradisce la rivolta, diventa nemica della rivolta, e già si prepara a reprimere le rivolte future. Nel pensiero di Camus questa contraddizione è stata affrontata in modi diversi a seconda delle epoche, ma accentuando sempre di più l’elemento della rivolta sull’elemento della rivoluzione, però non dimenticando di questo elemento le contraddizioni intime, interne: per esempio l’aspetto, che pure a me non è molto chiaro, del pericolo, insito in un’azione di rivolta, dell’allontanamento dalla comunità, dalla collettività.
Questi pericoli tuttavia vanno corsi. Per Camus l’elemento etico è fondamentale, quindi a rischio di essere soli, di essere minoranza, bisogna osare e dar seguito fino in fondo alle proprie convinzioni.

Prima dicevo di Orwell. Non ricordo ora se Camus si è occupato di Orwell, sicuramente sì. Mi veniva però in mente, questa mattina, una lettera di Calvino, compresa in una delle raccolte dell’epistolario, quello delle lettere editoriali, in cui Calvino scrive qualcosa come "quell’imbecille di Orwell" e in cui si chiede qualcosa come: "Come si fa a prendere sul serio uno scrittore come Orwell?", insomma un giudizio pieno di disprezzo e di stalinismo. Lì veniva fuori il Calvino peggiore, il Calvino ancora legato alla storia del Partito comunista italiano. Ecco, politicamente Calvino certamente era più vicino a Sartre, anche se non lo amava assolutamente.
Raymond Queneau, grande scrittore molto amico di Calvino, era anche lui funzionario di Gallimard nello stesso momento in cui lo era Camus (che si occupava più della saggistica, Queneau si occupava più della letteratura). Avevano gli uffici l’uno accanto all’altro, partecipavano insieme alle riunioni e di recente sono usciti i diari di Queneau dove si parla molto spesso di Camus quasi con una sorta di sorpresa nei confronti di questo personaggio, che in fondo non considerava straordinario. Queneau evidentemente, come Calvino, metteva al primo posto nel giudizio su un intellettuale più l’intelligenza che non le altre cose; più l’arte del giocare con la cultura che non la convinzione, la persuasione profonda investita nelle cose che si fanno.
Silone, per esempio, è un altro scrittore disprezzato da Calvino e da tutti gli intellettuali per bene, i veri letterati, gli uomini di cultura italiani e d’area comunista di questo secolo. C’è qui una contrapposizione fra due aspetti interni alla storia della cultura che Calvino in un modo limpidissimo esemplificava dicendo che gli scrittori si dividono in due categorie: i viscerali e i loici, dove questi ultimi sono gente che lavora con le tecniche della letteratura e si basa sull’intelligenza più che sulla sensualità, il cuore, la milza, il fegato, l’esperienza e la storia. Si potrebbe allora iniziare un gioco e farlo durare a lungo: Céline e Genet sono viscerali, Dostoevski è un viscerale mentre Queneau è sicuramente un loico, Giorgio Manganelli e tutto il gruppo del ’63 sono dei loici, eccetera eccetera.
E’ curioso vedere come questa sorta di contrapposizione un po’ fittizia, oggi si riproponga nella cultura italiana, anche se in modi nettamente diversi, fra Calvino e Pasolini (è uscito addirittura un libro tutto di difesa di Pasolini contro Calvino, di recente, di una giovane studiosa, la Benedetti, da Bollati e Boringhieri). E’ indubbio che questi due personaggi così diversi tra di loro abbiano diviso in fondo le nostre simpatie generazionali e le nostre pulsioni intellettuali in un’epoca molto recente. Parlo per me, ma penso che questo valga per molti. Calvino considerava se stesso certamente un loico, e Pier Paolo Pasolini un viscerale. Ecco, Camus era nonostante tutto un viscerale mentre Sartre era sicuramente un loico, un filosofo, e lavorava col pensiero, con l’intelligenza

Il primo uomo, in cui con molto pudore non si usa mai la parola "io", è un’autobiografia. Finalmente Camus, verso la sua fine imprevista e prematura, parla di sé, racconta la sua vita, racconta la sua storia, e adesso vedremo come in questo percorso la politica ci sia entrata e come sia stata un’acquisizione di maturità rivendicare la propria diversità personale di proletario. La differenza con Sartre sta anche qui: Sartre era un borghese. Forse il libro più bello di Sartre resta, secondo molti e anche secondo me, Le parole, questo libro autobiografico in cui egli parla del suo rapporto con la cultura, di come è diventato un intellettuale. Parlando di questo, racconta niente di più e niente di meno che la storia della sua famiglia, che è una famiglia di ricchi; era nipote di Albert Schweitzer, grandissimo studioso e medico e poi anche sant’uomo, uno straordinario personaggio; una famiglia di professori universitari bilingui perché erano in Alsazia, tra Germania e Francia, una famiglia dove giocare con le parole, con la cultura era veramente un fatto di classe. E’ impressionante il paragone tra La parola e Il primo uomo.
A volte, quando Camus racconta del suo accesso alla cultura, a me viene in mente perfino quell’aneddoto di Di Vittorio, che si raccontava sempre negli anni Cinquanta, sulla formazione di una classe dirigente nata dal popolo: lui contadino, analfabeta, bracciante pugliese che a un certo punto scopre le parole, scopre il vocabolario e -racconta Di Vittorio- appena aveva imparato a leggere e scrivere, da adolescente, aveva cominciato a segnare su un libretto le parole che imparava, mettendo a fianco il loro significato, quando scoprì che esisteva un libro che si chiamava vocabolario. Scoprire che quel lavoro era già stato fatto da altri lo lasciò sbalordito e entusiasta. E’ chiaro che per personaggi di questo genere l’accesso alla cultura è qualcosa di sacro, la cultura serve per capire, per esprimersi, per impossessarsi del mondo, per avere una lettura del mondo e non è il gioco dei figli dei professori universitari che magari diventeranno grandi intellettuali o grandi scrittori.

Credo che una differenza fondamentale di Camus rispetto ai pensatori di questo secolo stia anche nelle sue origini; in un modo semplice, ne Il primo uomo, questo viene rivendicato. Anche se tutti nasciamo nello stesso modo e c’è una comune umanità a cui tutti noi apparteniamo (viene sempre in mente la famosa battuta di Totò, dandy a Capri, quando gli chiedono: "Ma lei come nasce?", intendendo il tipo di nobiltà e lui risponde: "Come nascono tutti" e fa il gesto dello strappo) però c’è anche una differenza estremamente forte non nella nascita ovviamente, ma nel contorno di quest’atto, nel luogo in cui questo atto avviene, nel tipo di agi in cui uno si trova inserito. In qualche modo in Camus il rapporto con la cultura esula da qualsiasi tipo di gioco, la cultura è una necessità. Come il pane.

Recentemente in un elogio che Christa Wolf ha fatto di Heinrich Böll, (Christa Wolf stava all’est, era comunque comunista, Böll stava all’ovest e era cattolico) ho letto questo rilievo che mi è parso straordinario: Böll è forse lo scrittore del nostro secolo (secondo me non conosceva Silone, ma sicuramente per i tedeschi aveva ragione) dove la parola pane viene usata più spesso. La parola pane nella letteratura contemporanea non esiste, ci sono le brioches, ma il pane no. La parola pane in Böll che ha conosciuto la guerra, la miseria, che era di origini proletarie, sta a indicare qualcosa di estremamente preciso, non è un simbolo, è qualcosa che serve per nutrirsi, per mangiare, è una necessità vitale, è una cosa assolutamente primaria.
Ci sono scrittori che partono da questa concretezza, scrittori che partono dalla pancia e scrittori che partono invece dalla testa. Camus parte dalla pancia, parte dal concreto, parte dall’immediato, dal preciso, dalle origini proletarie, dalla sua nonna, dalla sua mamma, dal papà che non ha conosciuto. C’è questa scena bellissima ne Il primo uomo quando lui va nel continente europeo, lui algerino viene in Francia per vedere la tomba di suo padre morto nella prima guerra mondiale, un padre morto a 18-19 anni, e lui ne ha 40 quando si interroga sul padre che non ha mai conosciuto. E’ una scena particolarmente significativa anche per i rapporti fra generazioni, e per il discorso sull’Algeria.

Sartre, comunque sia, è una figura di una straordinaria vitalità, di un’instancabile capacità di lotta e di movimento, che ha avuto politicamente i suoi meriti. Non è un caso che negli ultimi anni della sua vita, la sua frase preferita, che poi darà il titolo a uno dei suoi ultimi libri, che è l’intervista che rilascia a due militanti marxisti-leninisti del dopo sessantotto, è una frase di Mao: "Ribellarsi è giusto". "Ribellarsi è giusto" è una bella frase però "mi rivolto dunque siamo" è una frase più bella. Nel "ribellarsi è giusto" rischia di annidarsi l’inganno della delega ad altri dell’uso di questa ribellione. Non a caso la frase fu inventata da Mao per scatenare i giovani nella rivoluzione culturale contro i potenti del partito, suoi nemici. In realtà lo scatenamento della ribellione rischia di restare un gioco all’interno del potere in funzione del proprio rafforzamento in un momento di particolare debolezza. Mi sembra che in quella frase, che è di per sé giusta, e oggi più che mai in un mondo come quello occidentale avanzato dove non si ribella più nessuno, manchi quell’elemento morale e collettivo, quella carica che nel "mi rivolto dunque siamo" mi pare molto più concreta.

L’assurdo, l’esistenzialismo di Camus nasce da un filone di pensiero molto preciso contrapposto a quello di Sartre. Sartre, nonostante tutto, fa la pace con Hegel, parte dall’esistenzialismo per tornare verso Hegel, mentre Camus non fa mai la pace con Hegel, ma resta nella scia di Schopenauer, Kierkegaard... Kafka è lo scrittore che gli appartiene di più. Kafka ha visto il senso dell’assurdo, quel senso della burocrazia così come l’hanno visto Simone Weil, e Benjamin, e certi grandi pensatori americani degli anni ’20 e ’30: la burocrazia come il segno distintivo del secolo. La burocrazia è lo Stato e quello è il nemico, non solo Hitler; il nemico è il meccanismo, la macchina, e la macchina è la stessa in dittatura e in democrazia. E’ quello il punto cardine che fa somigliare tra di loro anche regimi molto diversi: il peso della burocrazia.
Ma c’è un rifiuto del nichilismo che può nascere anche dal cuore stesso dell’esistenzialismo, dal senso dell’assurdo dell’esistenza nel sistema in cui siamo inseriti, e consiste proprio nell’elemento della ribellione. Questo elemento è estremamente forte e attraversa una fascia di cultura che ci appartiene e che rende Camus simile anche ad altri nostri strani maestri. A me viene da pensare ad Aldo Capitini, il quale diceva e scriveva: c’è la morte, c’è il limite, c’è la malattia, c’è l’oppressione della storia, l’oppressione delle classi sociali, mi dicono che tutto questo è eterno, che è una legge, mi dicono che ci sarà sempre la morte, che il pesce grande mangerà sempre il pesce piccolo, che ci sarà sempre chi comanda e chi è comandato: ma io non ci sto, io non accetto. "Mi rivolto dunque siamo" e "non accetto" sono frasi che si assomigliano molto. E’ una rivendicazione positiva che parte dalla constatazione dei limiti e della negatività della storia e del mondo, dalla limitatezza delle nostre condizioni, della miseria delle nostre possibili esperienze: questo scatto di volontà è anarchico nel senso del volontarismo anarchico di Malatesta e di tanti altri pensatori.
La rivolta è un elemento di volontà individuale che cerca di rompere un meccanismo, un circuito, una macchina, una regola. Ci mette in mezzo un cuneo; la blocca e dice: io non ci sto, io cerco di fare che non ci sia più la morte, lotto perché non ci sia più l’oppressione, perché l’uomo possa mettere le ali e non so per quali altre possibili rotture dei limiti che in futuro potrebbero venire.

L’Algeria. Ne Il primo uomo, raccontando la storia dei cosiddetti pied noirs, dei francesi d’Algeria, e poi in tutti gli scritti del periodo della guerra d’Algeria, Camus prende le posizioni più delicate rispetto all’epoca. Era più semplice per lui essere solidale con i rivoltosi di Berlino e di Budapest, il che, comunque, gli mette contro Sartre e tutta la cultura europea di sinistra del tempo. Quella per lui era una scelta più immediata, più chiara, mentre la scelta sull’Algeria era più delicata perché sicuramente la Francia era un paese colonialista che aveva oppresso e speculato sull’Algeria per ingrassare i propri cittadini, soprattutto quelli ricchi. Però Camus ci ricorda che in realtà i coloni francesi erano la manodopera eccedente, i disoccupati delle grandi città, oppure gli espulsi dalle campagne dopo la rivoluzione del ’48 dell’altro secolo. Se le colonie erano state fondate di fatto da qualche generale e da qualche uomo politico, però i coloni veri erano stati ed erano in grandissima parte ancora dei morti di fame, dei proletari.
Di questo ci si dimentica anche in altri casi: pensate al cinema americano che in genere è stato tutto dalla parte dei bianchi contro gli indiani, ma che a volte è stato tutto dalla parte degli indiani contro i bianchi. C’è un solo grande film, che è Il piccolo grande uomo di Arthur Penn, dove questo bianco allevato dagli indiani continua a oscillare per tutto il film da una parte e dall’altra perché non sa bene qual è la sua vera comunità, la sua vera identità, chi ha ragione e chi ha torto, con chi deve stare. Chi aveva colonizzato il west americano? Dei morti di fame: contadini veneti o calabresi, ebrei degli Schtetl nella mittel-Europa, contadini miserrimi russi, polacchi, ungheresi, irlandesi, dei morti di fame, dei proletari mandati in lotta contro i cosiddetti primitivi o persone di altra cultura.
La realtà algerina era una realtà estremamente composita e il discorso puramente anticolonialista negava la complessità per appiattirsi completamente su una parte. Inoltre Camus, in un modo molto preveggente, vedeva che lì, tramite l’Fln, si sarebbe instaurato un regime militare dittatoriale. Le parti di questo libro dedicate all’Algeria sono fondamentali, di eccezionale lucidità storica. Rinvio alla loro lettura, nella bellissima scelta che ne ha fatto Alessandro Bresolin, un giovane di grande rigore.
Nel gioco di rapporti che facevo prima, certamente ci sono anche altri personaggi che contano moltissimo per Camus. Ne dico solo tre sui quali Camus ha lavorato assiduamente. Per Dostoevski ha ridotto per il teatro I demoni, che non a caso è un testo che riguarda il terrorismo; poi ovviamente c’è Kafka, di cui ha subito l’influenza come tanti scrittori importanti di questo secolo; e però, curiosamente, c’è Faulkner del quale ridusse per il teatro Il requiem per una monaca.
Se dovessi dire io quali sono i miei scrittori preferiti in questo secolo, direi Kafka per il Nord e Faulkner per il Sud. Faulkner, nonostante sia uno statunitense è un meridionale; tutti i grandi scrittori latino-americani sono partiti da lui. Salman Rushdie ha riconosciuto i suoi debiti nei confronti di Faulkner. Chiunque abbia voluto raccontare le società meridionali di questo secolo si è rifatto a un grande modello che era quello di Faulkner.
La differenza di Camus da altri intellettuali del suo tempo sta nel fatto che lui è meridionale, è algerino addirittura, e di madre spagnola e di padre francese. Più meridionale di così? Camus era nato a Orano in un contesto assolutamente meridionale. Le pagine che Camus ha scritto sul sole, sull’importanza del sole nella sua letteratura e nella società in cui è vissuto sono importantissime. Se uno va in Algeria e in Marocco scopre che il sole italiano è molto debole, forse il sud è caratterizzato più da una luce che dal sole. Forse appena in Sicilia si riesce a capire cos’è una società dominata dal sole. Forse bisogna andare nel deserto per capirlo fino in fondo.

Il paradigma spagnolo. Non solo la madre, come dicevo, era spagnola, ma Camus ha capito il mondo anche dai problemi della guerra spagnola degli anni ’30 vissuti da lui come ragazzo e studente nell’Algeria del suo tempo.
Però l’aspetto straordinario dei suoi interventi sulla Spagna è che sono interventi postbellici, contro il Franco che lentamente viene recuperato negli anni ’50 dall’Unesco, dal turismo internazionale di sinistra che leva quel blocco che prima quasi vietava di andare in Spagna. C’erano grandi discussioni nella sinistra italiana se fosse giusto andare a fare i turisti in Spagna: si portava la buona novella, si faceva vedere ai proletari spagnoli che era possibile vivere in altri modi che quelli miserabili della dittatura franchista o si finiva solo per aiutare l’economia di Franco e sostenere di fatto il franchismo?
Ebbene in quell’epoca dove con la Spagna tutti cominciavano a trattare, Camus insiste inflessibile nell’additare gli orrori della dittatura franchista e la responsabilità dell’Europa: non solo quella del non intervento degli anni ’30, ma anche quella di accettare come un dato di fatto una dittatura nata sull’oppressione dei proletari e sulla sconfitta non di una rivoluzione ma di uno stato democratico. Franco, non dimentichiamolo, era un golpista.

E’ curioso però che la vita di Camus si spenga nel ’60 un anno chiave, l’anno de La dolce vita per intendersi, l’anno della "mutazione", avrebbe detto Pasolini, l’anno di Accattone, di Rocco e i suoi fratelli, della grande migrazione dei contadini del sud verso le fabbriche di Milano e di Torino, un anno nel pieno della trasformazione dell’Italia ma anche del mondo perché viene a compimento quel processo della ricostruzione che alcuni storici cominciano a chiamare l’età della plastica, in cui la chimica sostituisce la metalmeccanica, in attesa di essere sostituita dall’elettronica. Sono gli anni in cui il mondo ha iniziato la sua china discendente, non solo perché c’è stata Hiroshima nell’aprile del 1945: l’atto finale della guerra che è anche l’atto iniziale della fine del mondo, probabilmente.
Se c’è una data dell’inizio dell’altra storia, della storia in discesa del mondo, è quella. Parte il disastro ambientale, la trasformazione materiale del nostro pianeta, la ricostruzione purchessia e la corsa all’arricchimento, il tutto sotto il nome di "progresso". Camus di tutto questo non si rende conto, perché muore troppo presto. Probabilmente i suoi dilemmi negli anni successivi sarebbero cambiati.
I problemi di oggi sono molto diversi da quelli di allora. Intanto, come dice Ignazio Ramonet, direttore di Le Monde diplomatique, non ci sono più i "sistemi totalitari", ci sono i "regimi globalitari", che mi pare una bella definizione per i regimi attuali, per il mondo che si prepara.
Non ci sono più i fascismi, perlomeno in Occidente. Il potere non ha più bisogno di dittature, al potere basta la tv e il benessere; la tv, intendendo con tv un sistema di fabbricazione del consenso, è importantissima.
Un altro personaggio curiosissimo tra questi maestri da ristudiare, fondamentali per capire questo secolo, è certamente Dietrich Bonhoeffer, il pastore protestante ammazzato da Hitler perché, partito non violento, si convinse che era giusto ammazzare il dittatore e partecipò all’attentato del 20 luglio e fu impiccato dai nazisti.
In carcere prima dell’impiccagione scrisse un saggio che si chiama Dieci anni dopo, cioè dieci anni dopo l’avvento di Hitler, e alla fine di questo saggio Bonhoeffer dice una cosa fondamentale: "Il problema fondamentale del nostro tempo è il problema degli stupidi". Allora chi sono gli stupidi nell’idea di Bonhoeffer? Gli stupidi siamo noi, sono le masse consenzienti, i manipolabili e manipolati, cioè sono coloro che aderiscono a un sistema di potere perché ne hanno degli apparenti vantaggi, e soprattutto perché vengono formati attraverso la scuola, la chiesa, i mezzi di comunicazione, i giornali e la tv, in modo da esser consenzienti. La grande fabbrica del consenso, "l’industria della coscienza" la chiama Enzensberger.

Questa industria della coscienza produce stupidi, persone la cui capacità di ribellione viene attutita dal fatto che gli si dà di che consumare e di che essere consenzienti. Altro che "1984"! D’altronde i messaggi che passa ogni sera la televisione ridotti all’osso sono due: consumate e siate d’accordo con questo stato di cose, con il mondo così com’è. Se ascoltiamo i nostri politici, saggisti, gli editorialisti, i professori dell’università, ci accorgiamo che nessuno di loro è capace di dirci che cosa pensa che bisognerebbe fare o che potrebbe accadere tra due, tre, quattro anni; i nostri politici hanno una visione della realtà lunga quanto il proprio naso, non vedono più in là di questo e ragionano in termini di immediato presente o di immediato futuro: domani, tra una settimana, tre mesi, un anno. Oltre nessuno osa più pensare, guardare e vedere. Così come nessuno sa più guardare seriamente indietro. Si lascia il compito di guardare indietro alle nuove destre, o alle vecchie, a tutte quelle forme di revisionismo che per parlar male di Stalin e del comunismo, il che è giustissimo, arrivano a sostenere che Mussolini aveva ragione, che Franco salvò la democrazia in Europa, e bestialità simili. Un antistalinista non può non essere anche antifascista, non sono cose diverse e ha anche il dovere di essere un critico della società democratica in cui vive, perché in detta società democratica la parola "democrazia" ha cambiato di senso nel corso degli anni, ed è diventata dittatura della maggioranza manipolata, dittatura degli stupidi.
Il discorso di Camus torna a essere attuale proprio per l’impostazione di fondo estremamente pessimistica e, però, estremamente attiva; per questa idea della necessità comunque della rivolta in funzione della comunità. La "comunità" oggi è probabilmente