Marianella Sclavi è ricercatrice e docente di Antropologia Culturale al Politecnico di Milano.

La scuola come chiave per capire
in modo diverso, in una prospettiva dell’arte di ascoltare, le deportazioni di massa in Kosovo

Il vicino col quale hai condiviso per anni migliaia di sigarette (ho capito in Kosovo cosa significa " Fumare come un turco") e caffè e rapporti di lavoro e di vita, appare sulla porta di casa col fucile puntato: "Andatevene. E’ meglio che andiate via", esclama: "Ma come... ti conosco, ci conosciamo... Dove vado?", "Se non vai via, ti uccido".
Ho chiesto ai miei interlocutori di riferirmi le parole precise di quei momenti spaventosi e tragici. Sono, con pochissime variazioni, quelle che ho riportato fra virgolette.
Mi è stato affidato un incarico di consulente del programma di microcredito che nei prossimi tre anni verrà gestito dalla Grameen Bank nei villaggi del Kosovo. Non perché mi intendo di microcredito, ma in veste di esperta di arte di ascoltare e gestione creativa dei conflitti. I fondi sono dieci miliardi messi a disposizione dalla Missione Arcobaleno-fondi privati, quella gestita dal Prof. Marco Vitale.
Quindi ho incominciato ad andare nei villaggi del Kosovo per cercare di capire, perché è chiaro che il microcredito, specie quello gestito secondo l’approccio Grameen (vedi il libro di M. Yunus Il banchiere dei poveri, Feltrinelli, 2000) va avanti se va avanti la pace e un processo di democratizzazione e riconciliazione. Nel comprensorio di Radavc, a nord di Peja-Pec, ai confini col Montenegro, ho ascoltato decine di contadini, di tutte le età (sono famiglie numerose, piene di figli, di bambini), maestri e insegnanti, alcuni magistrati, ho assistito a una riunione di donne in un villaggio, moltissime giovani e giovanissime. Mi sono messa nei loro riguardi in un atteggiamento di ascolto attivo, e cioè: rispetto e riconoscimento, lasciare che siano loro ad indicare cosa è importante e cosa marginale, e ho applicato in particolare quella regola dell’arte di ascoltare che dice: "Se vuoi capire quello che l’interlocutore ti sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a capire come e perché".
I miei giovani interpreti erano Milly, di diciassette anni (la cui famiglia in Albania ha ospitato dei profughi kosovari e che poi li ha seguiti nel rientro, in cerca di lavoro e in fuga dal caos e corruzione del proprio Paese), e Sami un kosovaro di trentatré anni, studente universitario a Zagabria alla fine degli anni ’80 (individuato come "pericoloso" perché organizzatore di manifestazioni di solidarietà con i minatori albanesi licenziati nella miniera di Trepca, rifugiatosi in Svizzera dove è rimasto a lavorare per otto anni, tornato, come molti altri, per partecipare alla lotta di liberazione). Quello che tutti i miei interlocutori, con estrema determinazione e dovizia di particolari desiderano fortemente raccontare non sono gli eventi di questi due ultimi anni di guerra (1998-1999), ma il grande movimento di disobbedienza civile che ha interessato in particolare la scuola nei dieci anni precedenti. Ritengono infatti che "se l’Europa occidentale ci avesse ascoltati allora, la guerra avrebbe potuto essere evitata" e anche perché "se il mondo non capisce almeno adesso cosa è successo in quei dieci anni, il processo di pace sarà in continuo pericolo, non riuscirà a divenire una conquista degli animi".
Si creano crogiuoli di parenti e vicini intorno ai luoghi del racconto; ognuno desidera aggiungere la propria testimonianza e si va avanti per ore e ore, con le donne che continuano a portare caffè, yogourt e piccoli dolci per farti sentire ben accolta e perché non ti venga in mente di interrompere la magia terapeutica di quelle sedute di rievocazione. I colloqui sono resi più rivelatori dalla mia profonda ignoranza, dal mio sconcerto e stupore; quasi tutto quello che mi dicono mi risulta nuovo e diverso da come me l’ero immaginato. Eppure in Italia leggo ogni giorno un paio di quotidiani. (Tornata a Milano ho riletto gli articoli sui Balcani sulla New York Review of Books alla quale sono abbonata e ho scoperto che lì le informazioni c’erano, ma obnubilate dalle preoccupazioni sugli schieramenti politici e rapporti di forza internazionali. Anch’io evidentemente avevo in precedenza letto quegli articoli con questa ottica).

Avdi Sefaj è un maestro elementare. Negli ultimi dieci anni, dal 1991 al 1999, ha insegnato nella "scuola parallela" del villaggio ...[continua]

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