“Gli islamisti, in Algeria, minacciano la sicurezza nel Mondo. L’Occidente, che crede di detenere in questo flagello un mezzo di pressione su certi paesi, si sbaglia di grosso: sta preparando la sua propria caduta. L’esempio dell’Iran si espanderà a macchia d’olio e saranno centinaia di milioni di bombe umane che l’islam politico getterà nella battaglia ‘contro l’Occidente satanico’, secondo la fraseologia consacrata. Col voler manipolare troppo l’islam politico, l’Occidente creerà le opportunità della propria eventuale scomparsa. La Cia crede di sapere tutto mentre si fa abbindolare da dei pazzi col turbante: i mollahs, vampiri assetati di sangue. Carissimo Boualem, mi piacerebbe proprio venire in Italia, non per viverci, ma per fare delle conferenze sui pericoli dell’islamismo. Il nostro paese ha pagato per la stabilità degli altri e nessuno vuole riconoscere questo. Un diplomatico americano ha anche ostentato disdegno a proposito del pericolo planetario che rappresenta l’islamismo, questa nebulosa antropofaga. Roma aveva il suo splendore e la sua grandezza, cosa rimane? E allo stesso modo cosa rimane di Cartagine? O anche della Berlino del nazismo? Se la New York della Democrazia vuole conoscere la stessa sorte, deve solo continuare a flirtare con l’islam politico. Cari saluti a te e a tua moglie. Chourar Saïd. Guendouze, 4 marzo 1998”. (Una città, n. 67, 1998)

A volte, con quel che succede, viene da pensare che il nostro impegno, come quello di tanti altri, non sia che un modo per sentirsi vivi, un’autoterapia, ma in quanto a qualche utilità... Poi ci si ricompone, ci si dice che i tanti che anonimamente, nel loro piccolo, eccetera eccetera.
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Qualcosa di vero, però, dovrà pur esserci. Se il fondamentalismo islamico uscirà sconfitto (e si spera che la sua “spettacolare potenza” possa essere l’annuncio della fine, sia pure lunga e dolorosa per tanti) lo si dovrà alle tante algerine e algerini che, nell’indifferenza del mondo, hanno continuato a portare a scuola le loro bambine a rischio della vita; agli adolescenti che, a rischio di vedere il loro nome scritto su un foglio appeso alla porta della moschea, hanno continuato a baciarsi in pubblico e ad andare in discoteca; alle donne iraniane che in case private si ritrovano “all’occidentale”. E anche in Afghanistan, come ci hanno raccontato recentemente alcune insegnanti clandestine di Rawa, ci sono mamme che vogliono che le loro figlie abbiano un’istruzione malgrado il divieto impartito da maschi devoti non si sa a quale dio malvagio.
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Come ci dice Khalida Messaoudi, l’Algeria non è caduta in mano al nuovo totalitarismo e questo, forse, ha salvato il mondo. Ma nessuno muove ancora un dito per aiutare quel paese impegnato in un difficile, e niente affatto scontato, processo di democratizzazione e laicizzazione.
(Grandezza della politica: i buoni servigi “per la pace e il dialogo” di una comunità di cattolici italiani potevano gettare l’Algeria nell’incubo della legge divina fondamentalista e provocare una catastrofe di proporzioni planetarie; e ai tanti esperti occidentali che in Europa si levarono a difesa della vittoria elettorale dei nemici delle libere elezioni, noi chiediamo ancora: il diritto della loro bambina a un’istruzione lo lascerebbero dipendere da un risultato elettorale, ottenuto per di più con meccanismo maggioritario? Esiste allora il “golpe democratico”? Preferiamo parlare di “diritto di resistenza”, che andrebbe sempre sancito in ogni costituzione. Alla nostra Costituente fu proposto, purtroppo senza successo).
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Che fare? Era più semplice decidere sul Kossovo. Intervenire per soccorrere una minoranza che un regime fascista-comunista minacciava di eccidi, deportazioni ed esodo forzato da terrore era un dovere che autorizzava l’uso della forza. L’analisi costi-benefici in questi casi suona sempre sinistra e cinica, eppure è importante, anche da un punto di vista morale: 200 morti da bombardamento fra la popolazione civile serba a fronte della liberazione di un popolo di due milioni di kossovari (di tradizione musulmana) e della conseguente caduta di un regime che per dieci anni ha insanguinato i Balcani, rendendosi responsabile, fra l’altro, del martirio di Vukovar, dello spietato assedio di Sarajevo, dello sterminio dei maschi di Srebrenica, sono forse un prezzo accettabile.
Ma questa volta? Rispondere quando si è attaccati è moralmente del tutto legittimo, e però, mentre l’eccesso nell’uso della forza nel bloccare un prepotente può non creare problemi, l’eccesso di legittima difesa li crea, eccome. L’idea che le donne afghane, invece che trarre beneficio dall’intervento, debbano scontare nuovi lutti, nuovi stenti e infine una nuova oppressione tradizionalista da parte del futuro consiglio delle tribù del nord, del sud, o dell’ovest è agghiacciante.
E si sta attenti coi civili come si fece in Serbia? E che cosa si fa per i profughi?
Politicamente poi, si ha l’impressione sgradevole che finora tutto quello che sta succedendo sia stato previsto dal mandante degli attentati, il che, per fortuna, non esclude affatto che abbia sbagliato tutti i suoi calcoli. Ma se così non fosse? Se ci si impantanasse fino a dove si è disposti a spingersi per vincere una guerra che non si può perdere?
E si pensa veramente, poi, di passare all’Iraq, alla Somalia, alla valle della Bekaa e via bombardando? Sono domande “che si possono fare”? Ringraziamo i censori in mimetica spaparanzati nelle loro redazioni, ma noi pensiamo addirittura che siano dovute le risposte.
D’altra parte si poteva aspettare? Non sappiamo rispondere. Una cosa è certa: quello militare è solo uno degli aspetti di una guerra che è iniziata da tempo senza che ce ne accorgessimo: “fronti” culturali, politici, geopolitici e diplomatici, finanche teologici, sono altrettanto decisivi. Confidare esclusivamente nella soluzione militare senza aprire gli altri fronti rischia di favorire il nemico. Insomma, che durante questa guerra nasca la Palestina indipendente è altrettanto importante che catturare Bin Laden; se non di più.
Infine: fin dove si è disposti a spingersi nel cambio libertà con sicurezza? Si è iniziato con la censura alla stampa, si è introdotto il fermo di polizia, si parla finanche di tortura e di “eliminazioni” (quanta strada ha ricominciato a fare questa parola in pochi mesi!). Dove stiamo andando? Il nemico è mortale, ma non lo è proprio perché odia mortalmente le nostre libertà e quei diritti dell’individuo che da noi si tenta di rispettare?
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Salmodiare condanne del terrorismo senza assumersi la responsabilità di alcuna proposta concreta e realisticamente efficace, come fanno alcuni esponenti no-global, oppositori di tutte le guerre e sostenitori di tutte le guerriglie, è pura “stupidità col nemico”. Chiediamo invece ai pacifisti: non si rischia di trasformare la pace, obiettivo nobile e umanissimo se concreto, prosaico, calato nell’attualità, in un ideale gelido, disumano? Ripetiamo le solite, poche domande: chiedereste di bombardare i binari per Auschwitz? Fu giusto combattere Hitler? Viene prima la pace o la libertà? Il pronto soccorso è un dovere e la legittima difesa un diritto? Se ci si trovasse d’accordo nelle risposte poi si potrebbe discutere di tutto e lavorare tutti insieme (e, beninteso, giudicare intollerabile una qualsiasi guerra o intervento militare). I verdi sudtirolesi, peraltro isolati dal loro partito, hanno trovato grande interesse tra le gerarchie militari per una loro proposta di unificare la formazione dei soldati e dei volontari internazionali, per la parte che riguarda la prevenzione, l’interdizione, l’arte del parlamentare, la cura dei civili. Non è una buona idea? Ed è proprio impossibile immaginare un ranger capace non solo di “portare l’inferno” ma anche la salvezza all’inerme in pericolo?
Di fronte allo scoppio non già di guerre civili, ma di “guerre contro i civili”, bisogna forse accettare la possibilità di una “guerra per i civili”, con tecniche, regole, armi, e addestramento adeguati al fine; certo, come ultima possibilità, ma che darebbe anche forza a tutte le altre. Si può? O è una bestemmia contro un qualche dio della pace?
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Sotto sotto alcuni, a sinistra, pensano che le torri siano crollate per cedimento strutturale: le democrazie plutocratiche causa di tutti i mali. Che dire? Che senza accorgersene stanno sfiorando gli antipodi. Un sacerdote pacifista in una pubblica conferenza ha paragonato le torri a quella di Babele. E in questa versione l’aereo guidato da Atta cosa sarebbe? La mano di un destino segnato dalla follia megalomane dell’uomo occidentale? Comunque potrà anche non piacere al prete ma in quelle torri si capivano, eccome: la lingua del cosmopolitismo c’è.
Forse, invece, l’espressione “cedimento strutturale” si potrebbe usare a proposito dell’aereo che si schianta: forse il fascismo è sempre un cedimento strutturale; delle coscienze individuali, delle maggioranze, delle fedi; è un cedimento della libertà alla sicurezza e alle certezze, a una comunità cementata dall’odio e dal risentimento, al fascino della prepotenza e del potere di vita e di morte. E in un mondo ormai così unificato, la vittoria del fascismo in un qualsiasi paese interroga ognuno di noi: perché la libertà non conquista i cuori e le menti?
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Il groviglio di scelte, collusioni, calcoli d’interesse occidentali che sta sotto l’avanzata dei fondamentalisti nel mondo è impressionante. E questa volta sì, che ci sono di mezzo oleodotti e quant’altro. A essere indulgenti si può pensare che solo una valutazione miope del proprio interesse nazionale abbia portato a un disastro di proporzioni così colossali. Con l’11 settembre forse l’interesse nazionale ha subìto un colpo mortale (anche se, purtroppo, sono già lì a tener conto di nuovo dell’interesse nazionale del Pakistan sull’Afghanistan, ecc. ecc.). Forse si può cominciare a pensare a un qualche “interesse internazionale” come a un proprio interesse vitale. D’altra parte ogni abitante di una qualsiasi città di un paese libero ha sentito che l’attacco alle torri era diretto al proprio essere cittadino. E sempre più sta avvertendo come proprio interesse primario che si diffondano in tutto il mondo il rispetto dei diritti umani, la democrazia e quel minimo di benessere che ne è condizione.
Allora, se il movimento cosiddetto “no-global” è certamente finito con l’11 settembre, per quello “sì-global”, quello, cioè, per la globalizzazione dei diritti, delle libertà e della democrazia, si aprono spazi inusitati (era lo stesso movimento?). Per la sinistra, allora, che sembra stare lì, immobilizzata dal panico, fra chi è tentato di non stare, un po’ sinistramente, “né con quello né con l’altro” e chi, invece, è attratto da zelanti e un po’ oscene tifoserie delle bombe (già, basta un mese a far cambiare di segno alle cose; le bombe, poi, si possono anche buttare, ma non si dà che si vada in piazza ad applaudire mentre cadono), avrebbe ben altro e tantissimo da fare: impegnarsi per un nuovo internazionalismo! E quello che a volte non possono fare i governi, possono farlo i partiti, le associazioni, le reti, i singoli: incontrare, stringere amicizie, cooperare con chiunque lotti per la libertà.
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Decidiamo: se democrazia, diritti umani e libertà della donna sono patrimonio dell’occidente, un patrimonio genetico, etnico, ecologico (da zona temperata, come l’erba spagna) allora lo scontro di civiltà è inevitabile, non stiamo a perdere tempo con quattro democratici occidentalizzati e teniamoci buone le nostre mura, le nostre armi e la nostra bella democrazia. Ma non dimentichiamo mai che in Europa è democrazia senza ebrei.
Se è vero invece che noi siamo solo arrivati per primi, aprendo la strada ad altri a prezzo di sacrifici immani per chi ha lottato e di sofferenze tremende inflitte a intere popolazioni; e se è vero che la libertà alberga nel fondo dell’animo di ogni uomo e di ogni donna, allora andrà pure bene fare la guerra a un regime islamista totalitario, e perseguire fino in fondo i terroristi colpevoli di crimini contro l’umanità, e fare anche “grandi coalizioni” con chiunque, pur di superare un momento delicatissimo (sempre che il conto non lo debbano pagare tibetani, taiwanesi e ceceni), ma a decidere, alla fine, sarà la lotta dei democratici in quei paesi in cui le libertà sono conculcate.
Per sostenere quelle lotte ognuno di noi può fare, umilmente, qualcosa di importante.
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A proposito di scontro di civiltà. Il relativismo ha fatto danni gravissimi, ma le classifiche sono sempre sgradevoli, anche quelle dei libri. Si dice: nel Corano il Profeta fa tutto, è giudice, guerriero, amministratore; nel Vangelo invece c’è scritto “date a Cesare…” e quindi, da qui, anche, la separazione, la laicizzazione, eccetera, eccetera. Sarà vero, ma l’uomo i libri li usa, li interpreta, li piega alla politica, li adatta ai tempi; l’uomo le tradizioni le inventa. D’altra parte: è un fatto che una parte di cristianità, non seconda a nessuno in fatto di religiosità, ha dato a Cesare gli stermini staliniani. E non sono passati secoli da quando serbi e croati segnavano con le rispettive croci le case da cui uscivano dopo aver commesso ogni sorta di nefandezza. E se parliamo di civiltà, la Shoah di chi è? Non è nostra? E subito a dire: “Ma il papa ha chiesto perdono”. Sì, ma la penitenza? S’è mai visto una confessione che porta onori e gloria? Questo papa, poi, lo ricordiamo anche sul balcone col dittatore cileno, e a beatificare franchisti e ustascia, e a far piangere di disperazione un vescovo amico di campesinos che di lì a poco sarebbe stato fucilato sull’altare dagli scherani di pii latifondisti. E hanno la Bibbia in mano i 500 coloni di Hebron, che costringono all’umiliazione di un perenne coprifuoco una città di più di centomila palestinesi.
Allora non possiamo credere che l’islam sia refrattario a ogni teologia modernista. Restiamo con quello che disse il muftì di Marsiglia: “Il velo nacque in epoca clanistica per difendere le donne; oggi, se si vuole rispettare lo spirito del Corano, il velo delle donne è l’istruzione”.
Sembra fra l’altro che noi queste cose le abbiamo da secoli… Padre Lagrange, dell’École Biblique di Gerusalemme, per aver sostenuto che i generi letterari della Bibbia non venivano da Dio ma dagli uomini e che era il genere “novella”, e non Dio, a far trovare un uomo nella stessa giornata in due posti lontani centinaia di chilometri uno dall’altro, fu guardato con sospetto per una vita; gli fu impedito di pubblicare e morì in amarezza. Correva l’anno 1938. Certo, oggi lo si beatifica.
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A proposito di relativismo e “superiorità”. Uno zingaro importante, portavoce di una famiglia di 400 persone sparse per l’Europa, ci disse: “Guardate, io ho 45 anni e non ho mai visto mia mamma sedersi a tavola con me; mi vergogno profondamente, qui devo imparare da voi e spero proprio di avere il bene in vita mia di cenare con mia madre”. Poi aggiunse: “Però noi abbiamo i nostri funerali, e su questo credo che non dobbiamo imparare nulla da voi, semmai il contrario” (i funerali per gli zingari sono un momento comunitario fondamentale e uno dei motivi per cui, anche volendo, non potrebbero fare lavori dipendenti: ai funerali devono andare assolutamente). Non diceva bene? Fra l’altro i suoi due figli, a cui imponeva il rom come lingua familiare, li aveva tolti dalla scuola pubblica per mandarli in un istituto privato qualificato; non si fidava della mentalità scolastica “democratica”, quella che fa sconti ai “poveri zingarelli”.
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Chi dice che la Palestina non c’entra nulla, perché Bin Laden è pan-islamista eccetera eccetera, evidentemente pensa che la testa e il cuore di milioni di diseredati non contino, che la politica la facciano i potenti. Beh, che vadano a chiederlo alla Casa Bianca: è facile immaginare che il bollettino seguito con più apprensione nei giorni scorsi sia stato quello del numero dei pakistani che partecipavano alle manifestazioni pro-Bin Laden.
La Palestina è decisiva. Noi speriamo che alla fine “i due terroristi” si siedano a un tavolo e trovino la soluzione. Sarà mai possibile? Non ci azzardiamo a dir nulla se non qualcosa che riguarda direttamente noi, sempre così zelanti a dar consigli a tutti. Forse tutta la questione ruota attorno a una parola sola: onore. La soluzione deve essere onorevole. Si fanno sempre errori fatali quando si pensa che chi sta male, chi vive in condizioni che per noi sarebbero intollerabili, abbia ben altro da fare che difendere il proprio onore (semmai, è il contrario; forse sta proprio lì il grande problema dell’Occidente). Allora, dovrebbero smetterla tanti commentatori nostrani di mettere la mano sulla spalla di Arafat e sussurrargli: “Accetta quello che ti danno, guarda che sono stati generosi, che altro puoi fare? Sì, sarà una specie di bantustan, ma non puoi fare altro”. Nessun uomo onorato può accettare di vivere sotto tutela. Punto.
Un ministro tedesco, per altro bravissimo, è andato da Arafat e dicono i giornali che abbia alzato la voce… Mah. Allora: perché non proporre ai cittadini europei di devolvere, in accordo con Israele, una decima volontaria una-tantum, la decima del proprio reddito di un anno, alla ricostruzione della Palestina? Si potrebbero costruire lì nuove case, al posto di quelle che in Israele non ci sono neanche più o in cui pochissimi vorrebbero ritornare. Forse si potrebbe riparare così al grande torto del ‘48: a noi europei l’onere del risarcimento; a Israele il dovere del riconoscimento morale; ai palestinesi, a quel punto, la possibilità del solenne benestare che chiude la ferita. Non sarebbe da parte nostra il miglior aiuto alla sicurezza di Israele? E anche il modo migliore per unire veramente l’Europa con la moneta?
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Il 21 maggio 1996 i fondamentalisti islamici algerini annunciavano: “Ai monaci abbiamo tagliato la gola”. I sette frati trappisti di Tibhirine erano stati rapiti un mese prima. Vogliamo ricordare il testamento di fratello Christophe, per contrapporlo a quello attribuito ad Atta, l’altro martire: entrambi contengono solo istruzioni, entrambi sono scritti da persone consapevoli della fine vicina, ma uno parla per la vita e in amicizia, l’altro per la morte e in odio. Di nuovo, non si tratta di far classifiche fra religioni: qualsiasi idea del genere avrebbe fatto orrore ai trappisti di Tibhirine; ammonivano a non usare contro i fratelli musulmani quello che sarebbe potuto succedere; e dicevano che restavano non per imitazione di Cristo ma dei tanti algerini che facevano altrettanto. Vogliamo ricordarlo, quel testamento, solo per ribadire che contro gli eroi della morte, ossessionati dalle purificazioni, e il cui esempio temiamo tanto affascinante, si ergono persone comuni, spesso sperdute, alle prese con il loro lavoro e la loro famiglia: sono pompieri che in pochi minuti decidono di salire la scala dell’inferno, sono mariti che dall’aereo telefonano a casa per salutare e dire che prima di morire tenteranno qualcosa, sono i frati di Tibhirine che, amanti del loro orto, del loro silenzio e dei poveri a cui offrivano cure senza evangelizzazione, scelgono di ignorare le inequivocabili minacce di morte; persone semplici ma all’improvviso indomite, grazie alle quali si vincono le battaglie. In realtà sono loro “le infermiere di prima linea” che Simone Weil voleva contrapporre alle terribili e abbaglianti SS, addestrate a dare la morte e a morire.
Nel servizio che dedicammo ai sette martiri di Tibhirine ricordavamo che secondo il Talmud in ogni generazione ci sono sempre trenta giusti nascosti che salvano il mondo. E i classici dell’arte militare insegnano che in ogni guerra c’è un turning point, inavvertito dai più, un momento in cui il vento cambia, impercettibilmente ma irrimediabilmente (nella seconda guerra pare che sia avvenuto addirittura in Africa, non alle porte di Mosca). Ebbene, chissà che quando questa guerra sarà finita, andando a riguardarla, non scopriremo che il turning point avvenne nel periodo più buio dell’Algeria, quando poche decine di giusti, in riunioni fra loro o con la famiglia o in solitudine con se stessi, decisero di non fuggire. E caddero uno dopo l’altro.
Il 30 maggio del 1996, sul ciglio di una strada sperduta, dei frati di Tibhirine si ritrovarono le teste. Forse allora qualcosa si mosse anche nelle coscienze tranquille della nostra sponda del Mediterraneo…
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Il testamento di fratello Christophe:

Il mio corpo è per la terra,
ma, per favore,
nessuna barriera
tra lei e me.

Il mio cuore è per la vita,
ma, per favore,
nessuna leziosità
tra lei e me.

Le mie braccia per il lavoro,
saranno incrociate
molto semplicemente.

Per il mio volto:
rimanga nudo
per non impedire il bacio,

e lo sguardo,
lasciatelo vedere.

P.S. Grazie.