Tra le molte fotografie che tengo sulla mia scrivania, una delle più importanti è la celebre foto, scattata nel 1947, nella quale Nicola e Miriam Chiaromonte sono seduti in compagnia dei loro amici di New York: Mary McCarthy, Dwight McDonald, Lionel Abel, Elizabeth Hardwick ed altri. Questa è una foto di amici, e quando penso ai Chiaromonte, li vedo così. Mary McCarthy ha scritto, in una lettera a Hannah Arendt, che i Chiaromonte con Ignazio Silone le sembravano “una parte della mia famiglia eterna”. Non cercherò qui di passare in rassegna le loro amicizie, anche se questo dovrebbe essere fatto. Parlerò di qualcosa di più limitato. Rispondo all’invito di partecipare a questo convegno su Nicola Chiaromonte, cosa di cui sono molto riconoscente, con un ricordo personale. Finora non ho mai parlato in pubblico della mia breve -soltanto due anni- conoscenza con Chiaromonte. Ma ricordare le persone alle quali dobbiamo gratitudine è un nostro dovere, è un modo di pagare il nostro debito. Non ha forse scritto, nel suo saggio su Albert Camus, che lo sforzo di ricordarsi la persona morta è compito vano? “Tutto è frammento, tutto è incompiuto, tutto è preda della mortalità”, scrisse. E ancora: “La storia di un uomo è sempre incompiuta”. Ma lui stesso fa uno sforzo e scrive su quell’uomo morto, perché tale è l’obbligo dell’amicizia: fare in modo che anche dopo la morte la storia di questa persona continui. La memoria è uno dei doveri dell’amicizia (e dell’amore).
Ed io, incoraggiata dal suo sforzo, cercherò di raccontare quello che Chiaromonte ha significato per me. E quanto gli devo.

E gli devo moltissimo, proprio a causa del suo dono d’amicizia e di ospitalità. Ma prima di parlare di questo, devo dire qualcosa su me stessa, e me ne scuso. Quando sono arrivata in Italia, nel novembre del 1969, ero giovane ma pensavo che la mia vita fosse finita. Sono arrivata dopo gli eventi del marzo 1968 a Varsavia -le manifestazioni degli studenti che terminarono con gli arresti, i processi, la distruzione della vita universitaria e politica alla quale appartenevo. Sono arrivata in Italia dopo l’invasione della Cecoslovacchia, che ha chiuso, o così sembrava, le possibilità di democratizzazione del sistema socialista di stato. Sono partita dalla Polonia, nella quale non credevo sarei mai più potuta tornare, con il cosiddetto passaporto ebraico, anche se, lo devo dire, non capivo il significato di questo fatto e non l’ho preso neppure in considerazione.
Oggi vedo me stessa di allora simile al Fabrizio del Dongo descritto da Chiaromonte nel suo saggio “Fabrizio a Waterloo”: una persona totalmente persa sul campo di una battaglia storica della quale vede soltanto i frammenti, senza cogliere il loro significato. La battaglia che si svolgeva allora sopra la mia testa è terminata con l’implosione dell’Unione Sovietica, ma allora nessuno se lo aspettava. L’impero sovietico pareva invincibile poiché la sola esistenza attribuisce a cose e fenomeni una sembianza di stabilità. Ho lasciato la Polonia perché non riuscivo più a starci. Era una fuga. Ho lasciato dietro di me le rovine della mia vita e del mio ambiente. L’Occidente non lo conoscevo affatto e non avevo progetti per il futuro.
Quando ho lasciato la Polonia il termine “dissidente” non era ancora in uso. Mi ricordo bene l’articolo di Jakub Karpinski, fratello maggiore di Wojciech Karpinski, che è autore di numerosi scritti su Chiaromonte. Jakub protestava contro questo termine dal momento della sua apparizione nella seconda parte degli anni ‘70. Il dissidente si dissociava da una religione ma sempre all’interno di una chiesa e Karpinski aveva in mente gente che non lottava dall’interno del comunismo per la democratizzazione del sistema. Ma il termine divenne di moda, anche se questo è accaduto ormai dopo la morte di Chiaromonte. Lui sicuramente pensava a noi -profughi e fuoriusciti dalla Polonia - in un altro contesto. Avendo lui stesso vissuto l’esperienza dell’esilio, ci ha accolti con naturalezza come alunni della stessa scuola. Devo riconoscere che neanche questo allora l’ho capito. Come Fabrizio del Dongo non sapevo di vivere e muovermi sul territorio della storia anche se, come nel suo caso, questo era il desiderio ardente del gruppo dei miei amici e mio. Non sapendo di vivere nella storia, non mi rendevo conto che altri ci erano già passati prima di me, e che ora vedevano nella mia fuoriuscita una certa continuità con la loro esperienza. Non avevo, essendo giova ...[continua]

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