C’è una cosa particolarmente nauseante nella brutalità americana. Non solo perché essa si accompagna a un discorso tanto ambiguo su democrazia, libertà e pace, ma perché è così scoperta, così grossolana, in un certo senso così fine a se stessa, uno sport, un affare tecnico. Potere Potere Potere.
Ma non sospettano che il potere può essere SPESO molto più rapidamente dei soldi?

Queste parole furono scritte nel 1965 da Nicola Chiaromonte, in una lettera all’amico Dwight Macdonald in cui commentava la follia dell’intervento americano nel Vietnam.
A dieci giorni dall’inizio dell’Operazione “Iraqi Freedom”, la prima guerra “preventiva” dell’America intrapresa dal presidente Bush e dai suoi consiglieri radicalmente unilateralisti, che operano senza alcun riguardo per l’opinione pubblica mondiale e per le migliori tradizioni della politica estera statunitense (anche di quella praticata dal padre del presidente nella prima guerra del Golfo), l’allarme di Chiaromonte riguardo agli abusi di potere riecheggia in modo ossessivo.
Nei primi giorni era sembrato che l’amministrazione potesse essere in grado, con l’appoggio entusiastico dei media, di far passare questo conflitto come in linea con le “guerre giuste” precedenti. Dominavano immagini trionfali nello stile della Seconda guerra mondiale, immagini da “crociata” vincente per sconfiggere il male (per usare il linguaggio evangelico tanto caro a Bush), la caritatevole missione degli americani e delle altre Forze alleate (anche se in questo caso solo gli inglesi sono con noi) confermata da un’accoglienza grata e festante da parte dei civili “liberati”.
La televisione mostrava foto convenzionali e confortanti di soldati che offrivano caramelle. Allo stesso tempo, questa doveva essere una replica dell’ Operazione “Tempesta nel deserto”, un breve attacco “pulito” contro un nemico ben conosciuto, portato avanti con un piano altamente sofisticato e una tecnologia in grado di provocare un’azione “colpisci e stupisci” tale che la controparte sarebbe crollata prima che si verificassero gravi perdite civili. La maggior parte delle truppe di Saddam avrebbero deposto le armi anziché combattere, secondo le previsioni del vice presidente Cheney.
Queste erano le aspettative degli strateghi militari, come pure di neoconservatori visionari come Paul Wolfowitz, che da dieci anni promuoveva il progetto di una seconda guerra contro l’Iraq, nell’ambito di un più ampio piano inteso a dare una nuova sistemazione al Medio Oriente e ad altre aree del mondo mediante un uso aggressivo della potenza militare americana.
Dopo l’11 settembre -che secondo i sondaggi circa metà della popolazione qui imputa, senza alcuna prova convincente, a Saddam- il progetto è diventato azione politica, e la spinta verso il conflitto ora in corso (dopo alcuni atti diplomatici del tipo prendere-o-lasciare) si è irrimediabilmente messa in moto, incurante delle critiche, dei rischi e dei costi.

Lo scenario ottimistico e l’estetica da video-game sono stati brutalmente interrotti il 23 marzo, una deprimente “domenica di sangue” in cui gli Americani hanno potuto vedere le immagini dei marine caduti e dei prigionieri di guerra umiliati. Da quel momento l’Amministrazione e i funzionari del Pentagono hanno lottato per contenere un pessimismo strisciante secondo il quale questa guerra si annuncia molto più lunga e problematica di quanto si auspicasse all’inizio, e tutta la memoria repressa e l’odore del Vietnam -la “sporca guerra” dell’America- hanno iniziato a farsi sentire. “Io pensavo che potessimo entrare là -bum, bum, bum- e venircene via”, diceva una donna dell’Ohio la scorsa settimana “ma ora sembra che le cose siano un po’ fuori dal controllo del nostro governo. Continuano a dirci: ‘È tutto ok, va tutto bene’, ma io non ci credo”.
Il Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, la cui sicurezza tecnocratica richiama alla memoria il Robert McNamara della metà degli anni ‘60, si è irritato per le critiche al suo piano perfino quando un ufficiale sul terreno, di fronte a una fiera resistenza e agli attacchi della guerriglia, ha commentato che questo non era l’avversario che i suoi uomini avevano “combattuto” nel “war game”. Abbiamo sufficienti truppe nel Golfo? Abbiamo sottovalutato la forza del nazionalismo, che può motivare le persone a difendere anche una tirannia di fronte a un invasore straniero? Come possiamo conquistare “i cuori e le menti” dei civili al nostro modo di vedere le cose? Queste sono le domande del Vietnam, che continuano a richiedere una risposta man mano che questa guerra procede. Ora si spera, ovviamente, in una soluzione rapida, ma quanto danno è già stato fatto, anche se una qualche forma di “vittoria” arrivasse nel giro di poche settimane, anziché mesi o anni?
Per quanto tempo le immagini del bombardamento di Baghdad -il “bum, bum, bum”, con i suoi inevitabili errori ed effetti “collaterali”- continueranno a riverberarsi in un mondo arabo già ribollente di sentimenti anti-occidentali? Addentrarsi in questa regione già instabile a suon di cannonate all’inizio può essere sembrata una cosa buona, e aver soddisfatto quel senso di destino mitico che qualcuno porta in sé, ma le conseguenze sul lungo periodo saranno probabilmente tanto dolorose quanto imprevedibili.

Tutto questo ci fa tornare in mente Chiaromonte, che per tutta la vita, durante un’epoca di totalitarismi e di guerre susseguitesi ininterrottamente, guardò con preoccupazione al problema degli uomini ebbri di potere materiale, convinti di poter controllare potenti forze storiche e metterle al servizio dei loro miserabili fini. In una serie di conferenze tenute all’Università di Princeton nel 1966 e raccolte nel volume Il paradosso della storia, egli osservava come, ogni volta, “la storia sembra sfuggire totalmente al controllo di quelli che sono ritenuti essere i suoi artefici”. Quando i leader agiscono con arroganza anziché con umiltà, quando ignorano i “fatti sul terreno” preferendo affidarsi agli schemi grandiosi e alle astrazioni ideologiche, essi provocano il disastro. Allora “le catastrofi sofferte da milioni di esseri umani diventano episodi di una sorta di film storico spettacolare in technicolor, il cui significato non sta nelle singole scene, ma nello svolgimento dell’intero film”.
Speriamo, per i soldati e i civili coinvolti, che questa smania di stravincere di Bush, Cheney, Rumsfeld e Wolfowitz non si svolga come un seguito epico del Vietnam.
Gregory Sumner*
Detroit, 31 marzo 2003

*Gregory Sumner è professore di Storia Americana presso l’Universita di Detroit. È autore di Dwight Macdonald and the Politics Circle: The Challenge of Cosmopolitan Democracy (Cornell University Press, Ithaca 1996).