Pier Paolo Fanesi è responsabile dell’Ufficio Democrazia Partecipativa del Comune di Grottammare (AP). Pubblichiamo il suo intervento al convegno “Il mutualismo oggi”, organizzato lo scorso gennaio a Forlì dalla Fondazione Alfred Lewin e da Una Città.

Da ormai dieci anni lavoro al municipio di Grottammare, piccolo comune dell’Ascolano, dove mi occupo di istanze e procedure partecipative, in primis il bilancio partecipativo.
Grottammare è un paese di quindicimila abitanti, situato nel sud delle Marche, ed è stato uno dei primi comuni italiani ad avviare una sperimentazione di bilancio partecipato, di democrazia partecipativa. Tanto che viene spesso paragonato a Porto Alegre.
Ovviamente gli amministratori sono i primi a prendere le distanze da questo tipo di paragone, perché è vero che ci rifacciamo in parte a quell’esperienza, da cui siamo stati positivamente influenzati, ma le realtà sociali e le dimensioni con le quali ci confrontiamo sono diverse. A Porto Alegre c’è un problema di favelas, disagi sociali radicali, a Grottammare il processo partecipativo ha preso piede su un tessuto socio-economico di benessere, fondato principalmente sul turismo. Da qualche anno otteniamo quattro “vele” e quest’anno abbiamo ricevuto il punteggio più alto dell’intera costa marchigiana.

La storia del bilancio partecipativo
Il bilancio partecipativo è un progetto nato in Sudamerica, a Porto Alegre, alla fine degli anni ’80, con la vittoria del Partito dei lavoratori, che giunto al potere lancia la scommessa del governo partecipato. La sfida era quella di decidere assieme alle persone, di trasferire il potere decisionale dalle istituzioni alla cittadinanza. Un processo iniziato a rilento, ma che negli anni ha guadagnato la fiducia e la legittimità generale, tanto è vero che la destra, uscita vittoriosa alle ultime elezioni, ha fatto proprio quel percorso e lo sta portando avanti.
In Italia quell’esperimento è salito alla ribalta grazie soprattutto ai social forum, quelli europei e quello tenutosi appunto a Porto Alegre, dove studiosi e amministratori italiani si sono incontrati, alcuni decidendo di adottare lo stesso approccio.
E’ difficile stabilire cos’è e cosa non è un bilancio partecipativo. Più che un documento contabile, un regolamento, l’articolo di uno statuto comunale, a me piace definirlo un percorso fatto di volti, persone, opportunità, vittorie e sconfitte, come pure di risultati inaspettati. Non è possibile quindi definire con una linea precisa quando si può (e quando invece non si può) parlare di bilancio partecipato. Proprio per avere delle indicazioni sono stati stilati alcuni parametri. Sono così usciti cinque punti fondamentali che ci permettono di distinguere un reale bilancio partecipativo da un’esperienza di altro tipo.
Quando parliamo di bilancio partecipativo? Quando abbiamo una dimensione finanziaria. Cioè parliamo di bilancio partecipativo quando parliamo di risorse, non solo di progetti.
In secondo luogo, il bilancio partecipativo non può fermarsi ad aspetti di “vicinato”, deve assumere un vero modello di sviluppo locale: bisogna portare le persone a decidere appunto su un paradigma di sviluppo della propria collettività e comunità. Non basta poter decidere sulle piccole cose. Sebbene rimanga un gioco a somma positiva, nel senso che va bene anche una partecipazione cittadina, dove talvolta si decide moltissimo, parliamo di bilancio partecipativo quando effettivamente c’è un processo di codecisione in termini di modelli di sviluppo, di scenari condivisi.
Dev’esserci poi la presenza di una ciclicità, nel senso che il bilancio partecipativo non può rimanere isolato all’interno di un’assemblea, di un momento. La partecipazione deve riguardare un percorso, non solo una tappa, altrimenti il rischio è quello di un ascolto “selettivo” da parte delle istituzioni: chiamo i cittadini in assemblea, li interrogo su una questione precisa, l’idea a me più consona, la realizzo e poi la cosa finisce lì. Questo non è bilancio partecipativo.
Il bilancio partecipativo inoltre deve avere alcuni momenti deliberativi: un percorso di questo tipo comporta una cessione di potere. La partecipazione deve andare a intaccare i meccanismi tradizionali; deve entrare nella “scatola decisionale” in un modo o nell’altro.
Infine devono esserci regole chiare e al contempo modificabili. La partecipazione si deve poter nutrire di partecipazione, quindi le modalità della partecipazione sono anch’esse soggette ...[continua]

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