15 maggio 2006
Curiosa l’idea di democrazia in voga, che, essendo democratici, ci si può comportare da fascisti.

20 maggio 2006
Perché mai non si poteva dar loro la presidenza della Camera? Qual è stato il grande ragionamento politico? Che loro si sarebbero comportati uguale? (E comunque è un fatto che loro, pur senza intenzione, hanno governato con un Presidente della Repubblica che veniva dallo schieramento opposto, il che creava un certo equilibrio). Quindi? La ragione è la minaccia di sciopero da parte dell’ex-sindacalista? E lui, che ragionamento ha fatto? Perché mai non s’è preso un ministero che avesse a che fare con il lavoro? Ha preteso la carica numero tre dello stato, dopodiché ha dedicato agli operai la sua grande vittoria. Nei giorni in cui uscivano i dati (impressionanti) del voto a destra fra gli operai.
Poi gli altri che non potevano restar senza una carica istituzionale, poi il numero dei ministri e la divisione di un ministero in tre per far vedere qualche donna e non smentire del tutto le promesse, poi il record dei sottosegretari... Loro pensano che la politica sia questo? Speriamo che leggano attentamente il messaggio sulla convenienza e sulla convivenza che un padre della Costituzione manda a loro e a tutti noi (pag. 2 e 3). (Qui poi, e sia detto fra parentesi, dove sarebbe stata la convenienza? Hanno idea di quanti, fra chi ha votato centrosinistra, sono rimasti disgustati?).

21 maggio 2006
L’errare infinito di Ayaan Hirsi Ali.
Martedì 16 maggio, Ayaan Hirsi Ali, olandese di origine somala, autrice di Non sottomessa e cosceneggiatrice del film “Submission” di Theo Van Gogh, ha annunciato l’abbandono del mandato di deputato del Partito popolare per la democrazia e la libertà (Vvd) per accettare un incarico a Washington. Il tribunale aveva da poco accolto l’istanza degli abitanti del quartiere residenziale dove viveva sotto protezione, riscontrando un reale rischio attentato e una limitazione della loro privacy, data la presenza costante di guardie del corpo dopo l’assassinio del cineasta Theo Van Gogh da parte di Mohammed Bouyeri (olandese di origine marocchina che in quell’occasione aveva lasciato un messaggio di cinque pagine destinato a lei). Contemporaneamente Rita Verdonk, ministro per l’integrazione e membro del suo stesso partito, ha annunciato che sarebbe stata privata della nazionalità olandese per aver mentito sul suo nome e sull’età nella domanda d’asilo, inoltrata 14 anni fa, dopo aver lasciato la Somalia in guerra. Già in passato aveva spiegato (alla direzione del partito, a giornalisti e alla tv) di aver intenzionalmente modificato i suoi dati per paura di rappresaglie, dato che a 23 anni aveva “disonorato” la famiglia, rifiutando un matrimonio imposto con un cugino canadese. Ayaan Hirsi Ali nell’estate del 2002 aveva raggiunto i Paesi Bassi perché voleva riprendersi la sua vita. “Non volevo più essere prigioniera di un avvenire che altri mi avevano destinato”, aveva scelto la libertà che credeva di aver trovato in quel paese. Dopo aver militato nel partito laburista, l’aveva lasciato delusa dalla difesa di un multiculturalismo ancora intriso di quel relativismo culturale “che consiste nell’accettare che uomini e donne di cultura musulmana siano privati del diritto all’eguaglianza, alla libertà e ai valori laici nel nome del rispetto per le culture e le tradizioni”.
All’Assemblea ha così concluso il suo discorso: “Sono Ayaan, la figlia di Hirsi, che era figlio di Magan. Lascerò l’Olanda. Triste e sollevata farò nuovamente le mie valigie. Andrò avanti”.
Hans Weisglas, presidente della Seconda camera ha definito “terribile” il comportamento degli abitanti del quartiere, che a loro volta hanno accusato le istituzioni di averli lasciati soli. “Tutte quelle macchine nere e le guardie del corpo con i loro auricolari hanno finito per farci paura”.
Convocata d’urgenza giovedì dal primo ministro Jan Peter Balkenende, la Verdonk all’uscita aveva già fatto marcia indietro ripromettendosi di individuare il modo per permettere a Hirsi Ali-Magan di conservare il suo passaporto. (Le Monde)

24 maggio 2006
Haiphong, Vietnam. I vicini capiscono cosa sta succedendo quando sentono scoppi di risa arrivare dalla casa di Pham Thi Hue: “Le donne morenti si sono di nuovo ritrovate assieme”.
Il Vietnam, con 250.000 persone infette, e solo il 10% in condizioni di ricevere il trattamento adeguato, è sull’orlo di una vera e propria epidemia. In assenza di un’assistenza sanitaria adeguata, qui una diagnosi di Aids è ancora una sentenza di morte. Uno dei maggiori ostacoli alla prevenzione e alla cura è la stigmatizzazione di chi contrae il virus.
Hue, 26 anni, contagiata dal marito tossicodipendente, è stata tra le prime a parlare pubblicamente alla tv. E tre anni fa ha fondato un gruppo di donne che si occupano appunto di chi è stato emarginato dalla malattia.
Ciò di cui paradossalmente riescono a parlare solo scherzandoci su è la certezza che di lì a poco loro stesse si ammaleranno seriamente e dovranno essere a loro volta alimentate, lavate, accudite, così come il gruppo dovrà occuparsi dei loro figli, man mano che non ci saranno più.
Occuparsi della sofferenza così come si manifesta, offrendo assistenza infermieristica, lavando e nutrendo gli ammalati, raccogliendo i corpi di quelli che muoiono soli in ospedale o per strada, presenziando ai funerali di coloro che sono stati abbandonati dalle famiglie, è la loro “terapia”.
Nguyen Thi Sau, 29 anni, che prima di essere licenziata lavorava in una fabbrica di calzature, è colei che spesso chiude loro gli occhi quando muoiono. Il senso del gruppo, aggiunge Sau, il cui marito è già morto di Aids, “è di morire un po’ meno sole”.
La maggior parte delle donne è stata contagiata dai mariti. In città la tossicodipendenza è molto diffusa. Molti dei loro uomini sono già morti. Una volta che la notizia della malattia diventa pubblica perdono il lavoro. Qualcuna si ricicla a vendere biglietti della lotteria o tazze di tè sui marciapiedi. Anche Hue e il marito hanno perso il lavoro così: lei faceva la sarta, lui il cuoco in un hotel. Ora che il marito è entrato nell’ultimo stadio della malattia, Hue si dedica a tempo pieno al gruppo, riceve aiuti che distribuisce per far fronte alle emergenze o per comprare riso a chi non ha più alcun reddito.
Negli ultimi tre anni sempre più donne si sono unite a Hue.
Molte sono morte ma il gruppo sta crescendo e viene preso a modello anche in altre aree del Paese. (International Herald Tribune).

28 maggio 2006
Il viaggio ad Auschwitz del papa.
Prendersela con Dio e sempre meno con gli uomini? Dov’era Dio? Mah, bella domanda, ma ormai quasi rituale. Molto più precisa quella su dove fosse il vicario. Forse, poi, la domanda sul vicario è una delle fondamentali nella vita di ognuno: dov’era? Dove eravamo? In fondo siamo tutti vicari, tutti vogliamo essere vicario di qualcuno, di qualcosa, tutti vogliamo ricevere un mandato e portarlo a compimento, vogliamo dare un senso. Dove eravamo? Dove siamo quando c’è bisogno?
Per l’altra questione, invece, noi ovviamente ci capiamo pochissimo, ma eravamo ormai abituati all’idea di un Dio impotente, ammutolito, fedele, pur nella condivisione più dolorosa, alla scelta “libertaria”. Ma visto che, stando ai diretti interessati, la Madonna sarebbe intervenuta a deviare un proiettile dalla traiettoria da lei stessa predetta novant’anni prima (e per salvare il capo della propria chiesa, neanche l’ultimo dei torturati a morte di questa terra) vien da chiedersi effettivamente dove fossero, tutti, dal ‘39 al ‘45.

29 maggio 2006
Il viaggio del papa ad Auschwitz.
Riceviamo da ecumenici@tiscali.it il commento di Daniele Garrone, Decano della facoltà valdese di teologia di Roma che volentieri pubblichiamo.
La lettura del discorso tenuto da papa Benedetto XVI ad Auschwitz-Birkenau suscita alcune considerazioni, sia per quello che ha detto, sia per quello che ha taciuto: i silenzi sono più eloquenti e più inquietanti delle parole; le cose dette sono accompagnate dall’omissione di parole che avrebbero dovuto essere dette.
1. “Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo? Dov’era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto?”. Il papa ha ripreso una domanda che i Salmi di Israele pongono a Dio, senza remore, da adulti nella fede. Un conto, però, è se questa domanda, anzi questa protesta, la pongono quelli che ad Auschwitz morivano o ad Auschwitz sono sopravvissuti, un conto è se la pone un cristiano sul luogo del loro patibolo, un tempo circondato da una massa di cristiani indifferenti, più spesso corrivi o direttamente complici. “Dov’è Dio?” non è stata la sofferta preghiera dei cristiani rispetto ad Auschwitz. Negli anni del nazismo le chiese cristiane non hanno invocato il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Gesù perché intervenisse a favore del suo popolo Israele e neppure lo hanno fatto per molto tempo dopo. Non “dov’era Dio?”, ma “dove erano i cristiani, in particolare i vertici delle chiese?”: questa è la prima e più drammatica domanda che ogni cristiano -tanto più il papa che pretende di parlare come vicario di Cristo e pastore della chiesa universale- doveva porre ad Auschwitz. Non dell’imperscrutabile segreto di Dio, ma delle scrutabilissime responsabilità dei cristiani doveva parlare. Doveva dire una parola sul rapporto tra il secolare e radicato antigiudaismo cristiano, virulento anche nella sua chiesa nei decenni che precedono la Shoah, e lo sterminio nazista. Avrebbe dovuto ricordare che l’odio antiebraico è uno dei risvolti sinistri delle da lui tanto celebrate radici cristiane dell’Europa e che è stato propagato da predicatori e teologi di ogni confessione, da vescovi, cardinali e papi, non da “figli della chiesa” sviati. Avrebbe potuto lasciarsi ispirare dalle voci significative di tanti cristiani della sua terra che hanno detto, ad esempio: “Dichiariamo che, con le nostre omissioni e con i nostri silenzi, siamo stati complici davanti al Dio della misericordia del crimine che è stato commesso contro gli ebrei da membri del nostro popolo” (Dichiarazione del Sinodo della Chiesa evangelica di Germania, Weissensee, 1950), oppure: “Riconosciamo la corresponsabilità e la colpa dei cristiani nell’olocausto, nella diffamazione, nella persecuzione e nell’assassinio degli ebrei nel terzo Reich” (Sinodo evangelico della Renania, 1980). Avrebbe dovuto dire, insomma, che il primo pensiero di un cristiano ad Auschwitz è quello della colpa della propria chiesa, non quello dei silenzi di Dio. Nulla di tutto questo si trova nel suo discorso.
2. Solo partendo dal riconoscimento delle colpe della propria storia, il tema della riconciliazione -una delle parole più ricorrenti nel discorso papale- avrebbe potuto avere una vera pregnanza e l’auspicata “purificazione della memoria” non avrebbe eluso i drammatici interrogativi che pone la storiografia. Come molti hanno già rilevato, la sua lettura della storia tedesca durante il nazismo come quella di un “popolo sul quale un gruppo di criminali raggiunse il potere mediante promesse bugiarde”, di un popolo “usato e abusato come strumento della loro smania di distruzione e di dominio”, è un’interpretazione revisionistica. Come se non sapessimo nulla della storia, come se non sapessimo che con quel “gruppo di criminali” un suo predecessore stipulò un concordato invece di condannarlo, come se non sapessimo che l’altra metà della cristianità tedesca, quella protestante, a quel “gruppo di criminali” diede il suo appoggio. Come se non sapessimo che, salvo poche, sparute eccezioni -che il Papa non ha menzionato, dalla Rosa Bianca al gruppo di cospiratori dell’ammiraglio Canaris- non ci fu una resistenza tedesca a quella che Bonhoeffer ha definito “la grande mascherata del male”. Se di tutto questo ci si ricordasse, “la Chiesa” non sarebbe risparmiata dal fango e dal sangue della storia umana e le sarebbe molto più difficile parlare ad Auschwitz. Invece, l’immagine che esce dal discorso del Papa ad Auschwitz è quella della “Chiesa” che può parlare a nome di tutti i popoli, per tutte le colpe, perché in fondo essa non ne ha, che può tutto riconciliare e purificare come se fosse super partes.
Il papa ha voluto parlare anche come “figlio del popolo tedesco”. Non si capisce perché, allora, ha parlato in italiano. Avrebbe dovuto avere il coraggio dell’ex presidente della Repubblica Federale di Germania, Johannes Rau, recentemente scomparso, un pio cristiano, predicatore laico nella sua chiesa, che in tedesco si rivolse alla Knesset, il parlamento di Israele, uditorio ben più difficile della paludata delegazione che ascoltava il Papa ad Auschwitz. La lingua che ad Auschwitz non può che suonare sinistra a memoria d’uomo avrebbe potuto esprimere con la massima pregnanza il no all’orrore che essa stessa ha veicolato. Oppure avrebbe potuto ricordarsi di Willy Brandt, che si inginocchiò in silenzio. Parla di più un tedesco ammutolito che un tedesco che parla italiano.

3 giugno 2006
... Il 9 marzo 1970 ci trasferiscono da La Cabaña a Guanajay, l’ex penitenziario nazionale femminile. Questo centro di reclusione viene usato da più di due anni e mezzo per i prigionieri politici. Qui ci sono delle celle da tre persone. Tony Lamas, Silvino Rodríguez ed io prendiamo una di queste. Ci troviamo nella zona D, la zona delle vecchie segrete “murate”. Si tratta di celle punitive, quasi ermetiche, buie, con un pannello d’acciaio come porta, che è stato ora sostituito da una griglia. Sono state utilizzate per torturare e terrorizzare le prigioniere plantadas. Oltre ai vari abusi, veniva loro razionata l’acqua per costringerle alla sporcizia e alla disperazione, spezzando, così, ogni volontá di resistenza.
La storia della resistenza merita un lungo capitolo segnato dall’eroismo delle prigioniere politiche cubane che hanno difeso la propria dignità individuale e i diritti del loro popolo. Grazie alla corrispondenza mantenuta con diverse di loro, siamo a conoscenza degli orrori che subivano e della dimensione tragica con la quale il sadismo castrista colpiva le loro famiglie.
Aracelis Rodríguez San Román era una giovane prigioniera politica. La sua modesta famiglia possedeva una piccola fattoria a Paso Real de San Diego, nella provincia di Pinar del Rio. Il 20 maggio del 1964, arrestano Aracelis e, dopo serrati interrogatori, le annunciano che suo fratello Gilberto era stato ucciso nella battaglia: “Abbiamo ucciso tuo fratello, che era venuto con altri controrivoluzionari degli Stati Uniti. Vieni a vederlo”. Di suo fratello non rimane che un ammasso insanguinato, irriconoscibile. Le dicono che suo zio Esteban faceva parte dello stesso gruppo e che si era ucciso prima di essere catturato. Dopo, la trasferiscono nella prigione Kilometro 5 1/2, dove viene rinchiusa con le più violente prigioniere comuni: criminali, drogate, prostitute, squilibrate. Aracelis passa nove mesi in un ambiente fatto di violenza, volgarità e terrore, prima di essere condannata a vent’anni di prigione per “crimini contro la sicurezza dello Stato”. Suo cognato, Lazaro Araya, che era stato imprigionato, viene giustiziato. I suoi fratelli Gerardo, Rodolfo, Tebelio e suo zio Ramòn sono condannati a lunghe pene di prigione. Il resto della famiglia, compresi i bambini, è espulso dalla proprietà di Pinar del Rio. Vengono condotti e “concentrati” in un tugurio nei dintorni de L’Havana.
Georgina Cid e Ofelia Rodríguez Roche, due giovani rivoluzionarie che hanno partecipato alla lotta contro la dittatura di Batista, anche loro vengono fatte prigioniere. Un fratello di Georgina era stato assassinato dalla polizia di Batista nell’ambasciata di Haiti a L’Havana. Dopo il trionfo della rivoluzione nel 1959, Ofelia sposa Francisco Cid, fratello di Georgina. Come molte famiglie cubane, i Cid hanno rifiutato il tradimento comunista e hanno dato il loro appoggio alla resistenza. Nel marzo del 1961, le due ragazze vengono portate nella prigione di Guanabacoa e, dopo essere state bistrattate e aver subito numerosi maltrattamenti, vengono condannate ad una pena detentiva. Ofelia lascia a casa un figlio di sei mesi. Francisco, il padre del bambino, sfugge all’arresto scappando negli Stati Uniti. Un giorno del 1967, dopo anni di reclusione abusiva, alcuni ufficiali della sicurezza dello Stato fanno uscire Ofelia e Georgina di prigione e le conducono, in macchina, in una camera ardente. Qui trovano Eladio Cid, padre di Georgina e suocero di Ofelia, morto misteriosamente a Villa Marista, il quartier generale della Sicurezza dello Stato, e non riescono a sapere né quando né perché fosse stato arrestato. Nell’agosto del 1969, alcuni agenti del G-2 vengono nuovamente in prigione a cercarle. Le portano a Villa Marista e le rinchiudono in celle separate. Verranno a sapere, tutte e due, che Francisco, il marito di Ofelia, era tornato clandestinamente dagli Stati Uniti attraverso la zona di Guantanamo ed era stato catturato.
A Villa Marista, viene proposto a Georgina di diventare la talpa della Sicurezza dello Stato all’interno della prigione; in cambio di un cambiamento delle sorti di suo fratello. Lei risponde: “Avete già deciso delle sorti di mio fratello. Inoltre, non posso rinunciare ad essere quello che sono, né per lui né per me”. Condotta davanti a Francisco, Georgina stenta a riconoscerlo. Cosa hanno fatto a suo fratello? Il suo corpo è poco più che scheletrico. Probabilmente gli hanno tolto troppo sangue. (In una nota Matos racconta che era una pratica della dittatura castrista prelevare sangue ai prigionieri prima della loro esecuzione. Ndr). Intuendo le pressioni che il G-2 avrebbe esercitato su sua sorella, Francisco la anticipa e le dice: “Non ti preoccupare per me, già non conto più”. Gli ufficiali dell’interrogatorio falliscono nel tentativo di abbattere il morale di Ofelia, anche portandola davanti a suo marito. L’incontro ha luogo in presenza di due agenti. Francisco dice ad Ofelia: “Non credere a niente di quello che ti diranno”. Manteneva il controllo, era irremovibile.
Qualche mese dopo, il 7 dicembre del 1967, Francisco Cid viene giustiziato.
Olga Rodríguez era una giovane insegnante nella città di Santa Clara. Era insorta, nelle montagne d’El Escambray, contro la dittatura di Batista. Lì aveva sposato William Morgan, un nordamericano, il comandante ribelle del gruppo d’Eloy Gutiérrez Menoyo. Al momento del trionfo della rivoluzione, la coppia gode della fiducia e della simpatia di Castro, che affida al comandante Morgan delle responsabilità amministrative all’interno di progetti di cui si occupa Che Guevara. Nell’ottobre del 1960, vengono arrestati e accusati di essere degli anti-rivoluzionari. Olga riesce a fuggire con le sue due bambine, ma viene arrestata di nuovo a marzo del 1961. Una settimana dopo, il secondino le dice: “Lei è la vedova di Morgan”. E’ così che viene a conoscenza della fucilazione del marito, senza sapere né quando né in che circostanze sia successo. “Il mio universo è precipitato, si è infranto in mille pezzi quando mi hanno dato questa notizia”, racconta Olga.
Marina García, la mia giovane assistente nella colonna 9, mi scrive per raccontarmi che è stata condannata a vent’anni di prigione. La lista delle prigioniere politiche è infinita e gli abusi commessi nei loro confronti sono inspiegabili. Molte di loro sono state arrestate e condannate perché si sono opposte attivamente al tradimento della rivoluzione; altre sono vittime delle circostanze, condannate sulla base di sospetti o a causa dei loro legami familiari con degli oppositori del regime. I Castro trattano le donne prigioniere con una crudeltà e un disprezzo tale da sminuire il trattamento che Batista destinava alle poche donne arrestate e condannate durante la sua dittatura. Le eroine sono numerose: Polita Grau, Luisa Pérez, Ana Lázara Rodríguez, Doris Delgado, Cary Roque, Sara del Toro, Carmina Trueba, Manuela Calvo, Reina Peñate, Gladys Chinea, Ana María Rojas e migliaia di altre sono state testimoni delle barbarie nelle prigioni castriste. (Tratto da Et la nuit est tombée di Huber Matos, Les belles lettres, Paris 2006).
Gli anni: 1961, 1964, 1970! Una prova in più della consustanzialità fra comunismo e totalitarismo. Speriamo che il libro di Huber Matos, uno degli artefici della rivoluzione cubana, che per essersi opposto alla svolta comunista dei Castro ha fatto vent’anni di carcere, venga presto tradotto anche da noi. (E che possa capitare sul tavolo anche di quel nostro ministro così facile alla commozione).

6 giugno 2006
Secondo il papa c’è l’eclisse di Dio. E di cosa si sta parlando? Di assicurare per legge a chi ha vissuto, casomai per trent’anni, accanto alla persona amata il diritto a poterla assistere in caso di malattia grave e accompagnarla alla morte. Questo è sensato? Ma poi l’aborto, che è un “delitto abominevole” (e per Auschwitz, poi, ne hanno ancora di aggettivi? Oppure l’aborto, come qualcuno ha detto, è uguale ad Auschwitz? E la donna che abortisce? E’ una criminale odiosa?). E poi il divieto a usare il preservativo per la coppia in cui uno è affetto da Aids. E in molti paesi africani la percentuale di contagiati è a due cifre... Che tristezza un cristianesimo gelido, spietato, disincarnato.

7 giugno 2006
Sul voto di Napoli e la sconfitta della lista “Decidiamo insieme” promossa da Marco Rossi Doria (18.460 voti, il 3,47%), pubblichiamo il commento di Cesare Moreno.
E’ stata sconfitta un’illusione, l’idea che si potesse conquistare una parte importante di consensi senza avere una precedente storia di radicamento sociale, specie nelle zone periferiche. La presenza è stata significativa in tre zone di ceto medio e alto in cui era possibile un voto pensato e dove c’era o si è creato in poco tempo un minimo di consenso sociale. Nelle periferie esistono potenti macchine organizzative che per anni hanno gestito aspetti minuti della vita delle persone, che dunque non possono sottrarsi, per motivi psicologici e materiali, al debito -che è preteso tale, anche se tale non è- contratto con i partiti.
Si possono usare parole sprezzanti o comunque stigmatizzanti per gli elettori che non hanno votato liberamente: cliente, sottomesso, suddito, servo… Preferisco usare l’aggettivo “vincolato” per evidenziare la doppia natura del legame con chi impone un voto poco libero: di natura psicologica in quanto ci si ritiene obbligati per un favore ricevuto; di natura materiale in quanto si ha bisogno ancora di quel servizio-favore. Se un gestore della cosa pubblica ha “fatto avere” tramite una sua mediazione una casa a 40 euro al mese, questo torna a suo disonore, ma mai possiamo associare la vittima di questa illegalità con colui che l’ha commessa. Dobbiamo stare molto attenti a non disprezzare il cittadino soprattutto quando in qualche modo è vittima -sia pure connivente- di cattiva gestione del potere.
Hanno tuttavia vinto un’idea e un metodo: si è riusciti a non piegarsi a logiche di mera agitazione e ad ottenere consensi in un numero significativo e superiore a tanti partitini che fanno la voce grossa nelle coalizioni vincenti. Ma soprattutto abbiamo vinto perché rimane in piedi una consistente rete di cittadini attivi che si sono incontrati e riconosciuti in questa occasione.
La paura. Lo hanno ripetuto tutti. E’ vero. Vorrei però dire che, oltre alla paura per Berlusconi, peraltro abbondantemente amplificata e usata a propri fini, a Napoli c’è stata prima ed insieme la paura di Marco e della lista: la paura di un nemico interno che evoca i fantasmi delle cattive azioni del potere che governa la città. I giornali non hanno mai smesso di chiamarlo “maestro di strada” che a sua volta ricorda la colpa di questa città verso i suoi giovani figli esclusi dall’istruzione e dai diritti civili. Noi sappiamo fin troppo bene che il maestro di strada è oggetto di sentimenti fortemente ambivalenti: la gratitudine per un lavoro difficile, ma anche il senso di colpa per un dovere incompiuto. Solo una visione paranoica e gelosa ha potuto far gridare nel comitato elettorale della Jervolino “Berlusconi e Rossi Doria a casa” (come ha riportato, non smentita, La Repubblica). La stessa ossessione di chiedere se il movimento fosse di sinistra o di destra rimanda al desiderio spasmodico di dichiararci fuori, di levarci quegli attributi di “famiglia” che evocano la colpa su cui si fonda una gestione gerarchica del potere: escludere rigorosamente dalla gestione della cosa pubblica il cittadino in nome del quale si governa. E’ un’ossessione antica e intrinseca a partiti che hanno visioni totalizzanti del mondo e che non digeriscono in alcun modo la possibilità della differenza. L’esistenza anche di un solo dissenziente, come dimostrano tutti i regimi, viene vissuta come un’offesa intollerabile. Ma bisogna capire anche perché le persone hanno paura, e di cosa: è la paura del padre-padrone, di dispiacergli e di cadere dalle sue grazie.
E’ una paura direttamente proporzionale al senso di isolamento e di vera anomia sociale che cresce laddove non esistono diritti agiti bensì “favori” dell’autorità, dove prevalgono i legami verticali -in ultima analisi di sudditanza- sui legami orizzontali di solidarietà e reciprocità. C’è una traduzione dell’Antigone che a proposito dello scontro tra il re Creonte e l’umile e sovrana ribelle Antigone riporta questa frase: “E tu non hai vergogna ad avere pensieri così distanti dagli altri?”. E lei di rimando: “Pensano anche loro come me ma la paura di te gli lega la lingua”. Se condividiamo quest’analisi sappiamo pure che l’antidoto alla paura non è il coraggio eroico o la guida di un capo carismatico, ma lo sviluppo di legami orizzontali tra le persone, che si costruiscono lentamente nella vita quotidiana.

12 giugno 2006
Il quotidiano iraniano Jomhouri Eslami, riportando le dichiarazioni del comandante delle forze di sicurezza, il generale Ahmad Alireza-Beigui, ha scritto che grazie alla “polizia di sicurezza sociale”, da questa settimana, le donne che non rispetteranno il codice di abbigliamento riceveranno un cartellino giallo, e a decorrere da luglio un cartellino rosso. E’ un’iniziativa su scala nazionale che differirà secondo le province.
Il giornale governativo Aftab già il 9 giugno aveva riportato una predica del venerdì del mullah Mohsen Mahdoudi: “E’ stato concluso un accordo sulla promozione della castità e del velo per le donne che lavorano negli organismi di Stato nella provincia”. Questa direttiva dovrà essere applicata in tutti gli uffici. I direttori dei diversi organi governativi dovranno organizzare controlli per assicurarsi che sia applicata. Il Consiglio supremo della rivoluzione culturale del regime di Teheran già da settimane stava studiando il cosiddetto piano “per la moda e gli abiti”. Negli stessi giorni 6000 donne hanno organizzato una manifestazione a Teheran. Decine di manifestanti sono state fermate e sono attualmente detenute. Uomini e adolescenti sono stati visti aggiungersi al movimento di protesta delle donne per sostenere la loro causa. Intanto, il 17 maggio, il Majlis (Parlamento) dei Mullah aveva abrogato una legge del 1935 che conferiva la cittadinanza iraniana a tutti i figli di madre iraniana e padre non iraniano. Quale conseguenza di tale provvedimento, migliaia di bambini nati in Iran da madri iraniane, saranno privati dei certificati di nascita e dei propri diritti. Milioni di afgani e iracheni, durante gli scorsi 27 anni, hanno sposato donne iraniane. I loro figli non avranno ora più accesso alla cittadinanza, all’istruzione, al trattamento sanitario e ad altri diritti. La presidentessa della commissione delle donne del Nrc (National Resistance Council), la signora Sarvnaz Chitsaz, ha denunciato come la repressione e la discriminazione delle donne formino ormai le basi dell’ideologia, delle leggi e della condotta di questo regime medievale. Del resto è durato solo due settimane il permesso accordato alle donne iraniane di recarsi allo stadio per assistere alle partite di calcio. Dopo aver inizialmente dato la sua autorizzazione il 24 aprile, il presidente Mahmoud Ahmadinejad il 9 maggio è infatti tornato sui propri passi decidendo di ristabilire il divieto. (www.donneiran.org)

15 giugno 2006
Impressionante la potenza che può sprigionare una reazione a catena innescata da un piccolo telefonino. Immaginiamo infatti che sia stato un telefonino a riprendere il marine che, su sottofondo di risate dei commilitoni, strimpella la chitarra canticchiando di aver, in giornata, sterminato una famiglia irachena. E se qualche centinaio di milioni di musulmani ha visto la scena in Tv, a tavola, la sera? Ma oltre a spaventarci del danno enorme (imputabile alle scelte di governanti malvagi e stupidi) vien da pensare con speranza a quanto la “pubblicità”, vera anima della democrazia, sia ormai non evitabile. Quale “potenza” potrebbe mettere in campo un’internazionale democratica?

17 giugno 2006
“Non mi è possibile descrivere in due righe le sofferenze e le torture che ho dovuto sopportare e, d’altra parte, paradossalmente non è neanche il peggio. Il peggio è scoprire, giorno dopo giorno, che qualsiasi cosa dicessi non faceva alcuna differenza. Ripetevo le stesse cose agli interrogatori della Cia o dell’Fbi... “Il tuo dossier sta avanzando”: la prima volta che ho sentito questa frase, ho fatto i salti di gioia, ma dopo mesi di delusioni ho provato a vaccinarmi contro la malattia più incurabile: la speranza. Mi ricordo di un interrogatore che, nel corso di varie sedute, aveva cercato di prepararmi psicologicamente al test poligrafo che dovevo superare e che, secondo lui, era infallibile. Dopo la prova sono rimasto da solo un’ora nella stanza, dopodiché lui è tornato dicendo: “Congratulazioni! Hai superato il test”. E mi ha dato una scatola di caramelle. Io ingenuamente pensavo che nel mondo esterno la differenza fra mentire o dire la verità, tra commettere o non commettere un crimine, è la differenza fra essere in prigione o libero. A Guantanamo è una scatola di caramelle. Per due anni e mezzo, a Guantanamo, sono stato testimone diretto di molti atti di ribellione, che andavano dalle urla allo sciopero della fame ai tentativi di suicidio. “Sono intelligenti, sono creativi, sono determinati” ha dichiarato l’ammiraglio Harris, che attualmente comanda il campo. “Non hanno nessuna considerazione della vita, che si tratti della loro o di quella degli altri. Credo che questo i tre suicidi avvenuti nello stesso giorno. Ndr non sia un atto disperato, ma un atto di guerra asimmetrica nei nostri confronti”. (A parlare è Mourad Benchellali, detenuto francese a Guantanamo dal gennaio 2002 al luglio 2005. Da Le Monde).

20 giugno 2006
Dati. L’amministratore delegato del gruppo Home Depot ha avuto una liquidazione di 245 milioni di dollari; Lee Raymond, amministratore delegato della Exxon Mobil, di 170 milioni di dollari. Le paghe dei dirigenti d’azienda nel 2005 sono 170 volte quelle di un salariato medio. Nel 1970 erano 40 volte.