5 agosto 2006
“Invisibili ma onnipresenti” i militanti di Hezbollah sembrano muoversi come ombre nel Sud del Libano: identificarli è pressoché impossibile; “Nessuno li conosce, sono come degli spettri” è il commento ricorrente. E tuttavia la loro presenza incide radicalmente nella vita delle persone. Coprono i costi dell’assistenza sanitaria ordinaria, e talvolta di interventi chirurgici straordinari, pagano le tasse scolastiche e finanziano piccole attività; assolvono anche a una funzione di “polizia silenziosa”, sorvegliando e garantendo l’ordine pubblico dei quartieri. Nelle ultime settimane si sono occupati anche di procurare le bare; loro hanno stilato le liste, loro sono andati negli ospedali a recuperare i morti. Offrono, insomma, quei servizi elementari a cui il governo libanese non è stato capace di provvedere in questi anni di guerra. Gli sciiti, da sempre discriminati, hanno maturato un forte senso di lealtà, se non di identificazione, nei loro confronti. Il gruppo funziona grazie a una forte decentralizzazione e a un’ottima organizzazione.
“Hezbollah ha pagato il parto cesareo della moglie. Ha portato olio d’oliva, zucchero e noci quando lui ha perso il lavoro e ha anche coperto le spese di un intervento per il suo naso rotto”.
Ahmed Awali, sciita, ha 41 anni e vive, in miseria, nel Sud del Libano. Hezbollah provvede alle sue necessità da anni eppure lui dice di non farne parte, né di conoscere l’identità di chi lo aiuta.
Awali, che guadagna 170 dollari al mese, trovatosi in difficoltà dopo la nascita della seconda figlia, si è confidato con un vicino. Di lì a pochi giorni nel mezzo del suo monolocale c’erano diverse borse della spesa piene di generi alimentari. A salvarli dal tracollo comunque è stata un’assicurazione sanitaria. Al peggiorare delle condizioni della moglie, hanno fatto domanda presentando alcune fotografie e compilando un modulo. Un membro di Hezbollah, senza identificarsi, si è presentato nel loro appartamento, ha fatto le verifiche del caso, ha chiesto della loro situazione economica e se n’è andato. I 1500 dollari necessari all’intervento della moglie sono stati pagati grazie a una tessera utilizzabile in qualsiasi ospedale del Libano. Si tratta di un’assistenza parallela, accessibile ai poveri al costo di circa 10 dollari al mese.
Per il signor Fayadh l’aiuto di Hezbollah si è invece concretizzato nella cancellazione di una bolletta dell’elettricità. Qualche mese fa al suo locale era arrivato un conto inverosimile, che lui non poteva permettersi. Già aveva dovuto trasferire i suoi quattro figli da una scuola privata a una pubblica. Hezbollah, quando è intervenuto, non si è limitato a ridimensionare il conto, ha detto che quanto accaduto era “offensivo”. La bolletta arrivava da Beirut, luogo-simbolo di un governo arrogante e corrotto, in cui i libanesi del Sud non si sentono affatto rappresentati.
Il radicamento di Hezbollah in queste zone risale all’invasione israeliana del 1982. All’inizio gli sciiti avevano accolto a braccia aperte gli israeliani arrivati per combattere i palestinesi, ma di lì a poco le cose erano radicalmente cambiate.
Oggi il braccio militare e quello sociale di Hezbollah sono separati (gli aspiranti vengono addestrati anche per cinque anni prima di diventarne membri a tutti gli effetti) ma in origine erano uniti. L’ala militante-militare vive in un tale livello di segretezza e clandestinità, che spesso nemmeno i familiari sospettano qualcosa.
E’ lo stesso Haidar Fayadh, il proprietario del caffè dove troneggiano le foto di Hassan Nasrallah, a chiarire il concetto: “Solo perché sono qui seduto a bermi un caffè non significa che io non sia un militante di Hezbollah”. (New York Times)

20 agosto 2006
Quando Jane diventa Jack
Nell’ultima stagione del serial “The L world”, un nuovo personaggio, Moira, ha annunciato alle amiche che, grazie a un intervento chirurgico e a una terapia ormonale, presto sarebbe diventata “Max”. La notizia non è stata esattamente ben accolta.
Sui vari blog o siti lesbici nelle settimane seguenti si è aperto un dibattito dai toni molto aspri. Molte hanno chiesto che Max fosse eliminato la stagione successiva. Una ha suggerito di farlo morire con “un’overdose di testosterone”.
Nella reazione al nuovo personaggio pare si siano coagulate tutta una serie di tensioni legate al tema della cosiddetta “assegnazione di un nuovo genere”. Tra le lesbiche, il crescente numero di donne che sceglie di vivere “da uomo” può provocare risentimento, ma anche una sorta di ansia esistenziale, legata a questioni come la “fedeltà al genere”, ma anche a un’identità politica. Il dibattito ha investito la stampa specialistica, ma anche quella accademica e qualcuno si sta chiedendo se non si stia assistendo alla fine del lesbismo.
A San Francisco, l’unica città del paese a coprire le spese mediche per il cambiamento di sesso, il tema era già presente. Del resto al Michigan Womyn’s Music Festival, da anni sono invitate solo le “donne nate donne e che vivono come donne”. Il cambio di sesso viene vissuto come un tradimento della causa. Si passa dall’altra parte. Ma al di là delle implicazioni politiche, è nelle relazioni personali che la scelta può essere drammatica.
“Sono lesbica perché sono attratta dalle donne, non dagli uomini” ha spiegato Natasha. Quando la sua partner da sette anni, Sharon, è diventata un uomo, il suo orientamento sessuale ha creato un cortocircuito nel rapporto: non poteva avere una relazione con un uomo.
La parola che indica il processo è “transition”, un’espressione molto prosaica per identificare ciò a cui le donne devono sottoporsi: una doppia mastectomia e dosi massicce di ormoni che cambiano la fisionomia del viso, abbassano la voce, allargano la parte superiore del corpo, stimolano la crescita dei peli del viso e in qualche caso provocano la calvizie.
Uno studio europeo condotto 10 anni fa riporta che un totale cambiamento di sesso si verifica per un uomo ogni 11.000 e per una donna ogni 30.000. Tuttavia queste statistiche non prendono in considerazione il numero crescente di persone, soprattutto giovani che, pur definendosi “transgender”, fanno resistenza a una parte o a tutti gli interventi chirurgici disponibili, incluso, per le donne che vogliono diventare uomini, la creazione di un pene.
Il dottor Michael Brownstein, chirurgo a San Francisco, dice di aver reso uomini più di 1000 donne negli ultimi sette anni. I numeri restano piccoli se si pensa che negli Stati Uniti ci sono 5 milioni di gay e 5 milioni di lesbiche.
Molte lesbiche temono tuttavia che la loro categoria si stia in qualche modo “svuotando”. La relazione tra lesbiche, ex lesbiche e giovani donne che preferiscono definirsi “gender queer” è ancora un tema irrisolto. C’è un diffuso senso di disagio che fa riemergere antiche insicurezze femminili sul fatto di non essere “abbastanza brave”.
Koen Baum, terapista familiare a San Francisco e transessuale sostiene che l’ansia che provano alcune lesbiche ha radici complicate. Alcune pensano che le donne che diventano uomini, facendoli propri, in qualche modo legittimano i privilegi maschili.
Del resto la questione dei privilegi maschili era anche al centro della trama di “The L world”: quando Max scopre che gli viene offerto un lavoro che era stato negato a Moira, promette di rifiutarlo, ma alla fine lo accetta.
Una donna che diventa uomo è quindi un’alleata in meno nella guerra contro il sessismo. E poi ci sono le questioni pratiche, legate ai confini tra un sesso e l’altro, oltre che all’appartenenza politica al movimento lesbico.
Laura Cucullu, redattrice freelance, ha formulato la questione in questi termini: “Quand’è che ti buttiamo fuori? Quando cambi il nome in Bob? Quando cominci a prendere gli ormoni? Quando ti crescono i baffi? Quando fai una doppia mastectomia?”.
Il fatto che non ci sia un parallelo nella comunità gay verso gli uomini che diventano donne solleva qualche riflessione. Tuttavia, le coppie lesbiche tengono più di quelle omosessuali, quando uno dei partner cambia sesso.
Dopo che Susie divenne Jacob, qualche anno fa, lui e la sua partner da 15 anni Diane (editrice di Curve, un magazine lesbico), decisero di sposarsi. Il loro matrimonio era in realtà una seconda unione. La prima era stata una cerimonia per l’unione civile tra le due lesbiche. Il secondo era un matrimonio tra un marito e una moglie con tutti i crismi. (New York Times)

23 agosto 2006
Deliberata distruzione o “danni collaterali”?
[...] Durante le più di quattro settimane di bombardamenti via terra e via aria sul Libano da parte dell’esercito israeliano, le infrastrutture del Paese hanno subito una distruzione di proporzioni catastrofiche. Le forze israeliane hanno bombardato gli edifici riducendo in macerie interi quartieri, e rendendo paesi e città dei luoghi fantasma, mentre gli abitanti fuggivano dai bombardamenti. Le strade principali, i ponti e i distributori di benzina sono stati fatti esplodere. Intere famiglie sono rimaste uccise a causa di attacchi aerei contro le loro case, o nelle loro auto mentre cercavano di sfuggire agli assalti aerei contro i loro villaggi. Molti sono rimasti sepolti sotto le macerie delle loro case per settimane, dato che agli uomini della Croce Rossa e di altri organismi è stato impedito l’accesso alle aree per via dei continui attacchi israeliani. Le centinaia di migliaia di libanesi scampati ai bombardamenti, tornando alle loro case, ora corrono il rischio di imbattersi in munizioni inesplose.
Le forze armate israeliane hanno lanciato più di 7000 attacchi aerei contro circa 7000 obiettivi in Libano tra il 12 luglio e il 14 agosto, mentre la Marina a sua volta ha condotto circa 2500 bombardamenti. Gli attacchi, per quanto diffusi, si sono concentrati in particolare su alcune zone. In aggiunta ai costi umani -circa 1.183 morti, di cui un terzo bambini, 4.054 feriti e 970.000 libanesi sfollati- le infrastrutture civili sono state gravemente danneggiate.
Il governo libanese stima che circa 31 “punti vitali” (come aeroporti, porti, impianti per la distribuzione dell’acqua, per fognature e rifornimento di elettricità) sono stati in parte o del tutto distrutti; così è avvenuto per 80 ponti e 94 strade. Sono state colpite circa 900 imprese commerciali e più di 25 stazioni di rifornimento. Il numero delle residenze private, degli uffici e dei negozi completamente distrutti, supera i 30.000. Due ospedali pubblici -a in Bint Jbeil e Meis al-Jebel- sono stati completamente distrutti dagli attacchi israeliani e altri tre sono stati gravemente danneggiati.
In un paese di meno di quattro milioni di abitanti, più del 25% è stato costretto a sfollare. Nella sola Beirut hanno cercato rifugio circa 500.000 persone, molti in parcheggi o luoghi pubblici senz’acqua e il necessario per lavarsi.
I delegati di Amnesty International di stanza nel Sud del Libano hanno riportato come, villaggio dopo villaggio, la formula fosse la medesima: le strade, specie le principali, sfregiate da crateri provocati dall’artiglieria. In alcuni casi sono stati individuati segni di bombe a grappolo. Le case venivano inviduate e poi colpite da missili di precisione, con il risultato della loro distruzione, parziale o totale. Le attività locali, come supermercati, negozi di alimentari, stazioni di servizio e distributori, sono state ugualmente prese di mira . Con il taglio dell’elettricità e l’impossibilità di far entrare nei villaggi cibo e altre provviste, la distruzione di supermercati e distributori ha giocato un ruolo cruciale nel costringere i locali ad andarsene. Il venir meno del carburante inoltre ha impedito ai residenti l’approvvigionamento d’acqua, dato che le pompe vanno a elettricità o a generatori alimentati a carburante.
I portavoce israeliani hanno insistentemente replicato che il loro target erano le postazioni e i mezzi di supporto di Hezbollah. E che i danni alle infrastrutture civili erano incidentali o dovuti al fatto che Hezbollah stava usando la popolazione civile come “scudo umano”. Tuttavia, il modello e gli obiettivi degli attacchi, come pure il numero delle vittime civili e l’entità dei danni provocati fanno suonare poco credibile tale giustificazione. Le prove suggeriscono piuttosto che la distruzione massiccia di opere pubbliche, sistemi energetici, abitazioni e industrie civili sia stata deliberata quale parte integrante della strategia militare, e nient’affatto un “danno collaterale”.
Gli obiettivi militari sono quelli che: “per loro natura, locazione, scopo o uso costituiscono un contributo effettivo a un’azione militare e la cui totale o parziale distruzione, cattura o neutralizzazione, nel contesto del momento, offre un preciso vantaggio militare”. Gli obiettivi civili sono “tutto ciò che non è obiettivo militare”. Cose che normalmente vengono considerate “obiettivi civili” possono, a certe condizioni, diventare legittimi obiettivi militari se “usati per offrire un concreto contributo all’azione militare”. Ad ogni modo, in caso di dubbio rispetto a questo uso, l’obiettivo va presunto civile.
Attacchi diretti contro obiettivi civili sono proibiti, come pure aggressioni indiscriminate. Le aggressioni indiscriminate sono quelle che colpiscono indifferentemente obiettivi militari e civili. Una forma di attacco indiscriminato è considerare obiettivi militari chiaramente individuabili e separati, posti in un centro, in una città, in un paesino o comunque in un agglomerato di civili, come un unico obiettivo militare. Se in una zona residenziale, due edifici vengono identificati come luoghi per ospitare dei combattenti, il bombardamento dell’intera area resta illegale e illegittimo.
Attacchi sproporzionati, ugualmente proibiti, sono quelli in cui i “danni collaterali” risultano eccessivi rispetto al vantaggio militare eventualmente ottenuto. (Rapporto Amnesty International. Israel/Lebanon Deliberate destruction or "collateral damage"? Israeli attacks on civilian infrastructure).

2 settembre 2006
Un cittadino singolo di fronte alle scelte di politica estera, anche del suo paese, il cui parlamento contribuisce ad eleggere, si trova nelle condizioni di Aladino nei confronti del jin che si è sprigionato dalla lampada.
Esprime un desiderio, ma deve aspettarsi che il potere che lo realizza ignori il contesto, le qualificazioni ovvie, i limiti impliciti e trasformi il risultato in un incubo. Nel caso reale, del governo, non solo perché il potere vuole ingannarti, mostrare la insensatezza dei tuoi desideri di onnipotenza, ma perché il mondo materiale è duro, opaco, e può mettere il potere stesso nelle condizioni di Aladino di fronte al jin. Il governo cerca di raggiungere un fine, quello dichiarato o uno recondito, ma può non riuscirci ed essere travolto dalle conseguenze indesiderate di ciò che fa.
Io avrei votato a favore dell’intervento italiano in Kossovo, perché ero sotto lo shock di Srebrenica e ne temevo una ripetizione. Ma non sapevo che le trattative avrebbero potuto essere condotte molto meglio, come è risultato da testi che ho letto in seguito e non è il caso di citare qui, e mi aspettavo un intervento sul campo, non una guerra totale ad un paese che fu condotta secondo il criterio del massimo danno, almeno materiale, al paese attaccato, senza nessuna possibilità di influire sugli eventi immediati nell’area che si voleva difendere -tutta, non solo le case e le chiese degli albanesi.
Oggi ci siamo trovati di fronte a una riedizione della guerra totale, con molti meno morti ma una asimmetria senza precedenti. Il bomber command ebbe più di 60.000 morti volando sulla Germania, difesa dal miglior cannone contraereo che sia mai stato costruito. Ci sarà stato un motivo per chiamare in inglese la contraerea flak, che è l’acronimo del nome tedesco: fligen abwehr kanone.
Beyruth non ha contraerea. E anche i missili ciechi degli Hezbollah erano guerra ai civili. Perciò, per una volta, mi trovo a condividere gli atti di un ministro degli esteri e le parole di un ministro della difesa della Repubblica italiana: missione difficile, costosa, pericolosa, doverosa.
Speriamo che la politica e l’opacità del mondo risparmino a noi -e al governo- la sorte di Aladino. In bocca al lupo. (Francesco Ciafaloni)

3 settembre 2006
Cosicché pubblicare su un giornale le foto dei bimbi libanesi rimasti uccisi in seguito ai bombardamenti dell’aviazione israeliana sarebbe un gesto dettato da una tradizione giudeofobica cristiana secondo cui gli ebrei uccidevano bambini durante i loro rituali. L’ha detto Samuel Trigano.

6 settembre 2006
Per rimanere vivi, gli iracheni cambiano nome.
In Iraq, agli uffici dell’anagrafe da qualche tempo ci sono file di Saddam, e non solo, in attesa di poter cambiare nome.
Quando l’ennesimo Saddam Hussein si è presentato, l’impiegato non ha potuto trattenere il sorriso:
“Ma qui addirittura tutti e tre i nomi coincidono con il suo, incredibile!”. Il signor Saddam Hussein al-Majid ha alzato le spalle: “Che ci posso fare?”. Il nome non se l’è scelto lui e ora stava semplicemente cercando di evitare di pagare con la vita quella decisione non sua.
Ha scelto il nome “Sajad”, amato dagli sciiti. In realtà poi lui è sciita, ma temeva che quel nome traesse in inganno qualche malintenzionato.
L’uomo dietro di lui nella fila, un altro Saddam, ha invece cambiato il suo in “Jabar”, uno dei 99 nomi di dio nell’Islam.
Gli ufficiali locali, a disagio nello svolgere questo compito, vanamente invitano i cittadini ad aspettare. Il pericolo, replicano gli interessati, è troppo grande. Così, nei primi sette mesi di quest’anno circa 1000 iracheni hanno cambiato nome, la maggioranza arabi sunniti. Dover nascondere il proprio nome è considerato come qualcosa di veramente vergognoso. Del resto è come seppellire la vera essenza della propria identità. Ma con l’ondata di queste violenze settarie, gli iracheni temono che il loro nome sulla carta d’identità, passaporto o altro documento possa diventare un’immediata sentenza di morte se finisce nelle mani sbagliate. Abbondano le storie di civili iracheni fermati ai checkpoint da miliziani o uomini in uniforme che, in base al nome o alla targa, decidono se lasciarti andare o procedere con un’esecuzione sommaria. A Baghdad molti dei posti di blocco illegali sono controllati da vere “squadre della morte” sciite. L’episodio più grave è avvenuto a luglio, quando alcuni criminali sciiti hanno allestito un finto checkpoint e in una giornata hanno ucciso 50 persone dopo aver controllato le loro carte d’identità. Ormai si è creato un clima di autentica paranoia rispetto alla propria appartenenza etnica e a quanto questa possa essere individuabile, visibile. In realtà, dal punto di vista fisico, non è possibile distinguere un sunnita da uno sciita, così accade sempre più spesso che i miliziani uccidano per un poster o un adesivo di un martire sciita, o per la targa di una provincia sunnita.
I falsari di carte di identità ammettono che c’è un boom. Ne fanno anche 6-7 al giorno. In genere la richiesta è di avere un nome “neutro”; tra questi i più gettonati sono Ahmed e Muhammad. Da evitare invece Ali, Hussein e Abbas, tradizionalmente sciiti, e Omar, Othman o Marwan, popolari tra i sunniti. (New York Times)

7 settembre 2006
Un libro da tradurre: Emilio Silva, Las Fosas de Franco, Ediciones Temas de Hoy, 2006.
“In questo paese ci sono più morti fuori dal cimitero che dentro”. L’anziano si era protetto gli occhi dal sole con la mano distesa sulla fronte e mi aveva guardato dall’alto in basso prima di rispondere alla domanda che gli avevo fatto per sapere se in quel paese vi fossero fosse comuni della Guerra Civile. Rimase a contemplarmi in modo fisso, in attesa di una reazione. Lo ringraziai e continuai a camminare, convinto che esagerasse; forse aveva solo provato a impressionarmi. Continuai a cercare altri possibili testimoni senza immaginare che quell’uomo sugli ottanta anni che camminava trascinando i piedi si era limitato a descrivere una dura realtà di cui fino ad allora non sapevo nulla. Né lui né io sapevamo che la mia vita e quella di molte famiglie sarebbe totalmente cambiata da quel preciso istante.
Era una domenica, il 5 marzo del 2000. La Spagna si trovava sulla dirittura d’arrivo della campagna per le elezioni generali che una settimana più tardi avrebbero dato la vittoria per maggioranza assoluta al Partito Popolare. Avevo viaggiato fino a El Bierzo in cerca di documentazioni per un reportage. Volevo mettermi in contatto con alcuni anziani che avevano vissuto la guerra e il dopoguerra nella zona di Pereje, il paese della mia famiglia paterna, dove mia nonna dovette rifugiarsi con i suoi sei figli dopo l’assassinio di suo marito.
Quella mattina partii molto presto da Madrid. Una volta arrivato a Ponferrada mi avvicinai fino alla casa di Arsenio Marcos, un vecchio amico di mio padre che ogni volta che mi vedeva, tra una vacanza e l’altra, mi raccontava qualche storia su mio nonno.
I morti della guerra erano sempre stati presenti nella mia famiglia; più per il silenzio che avvolgeva i loro nomi che per le storie che li riguardavano. Il corpo di mio nonno non era mai stato recuperato. Mia nonna cercò aiuto tra le autorità politiche e religiose, ma non ottenne risposta. Arsenio aveva alcune piste riguardo al luogo dove si sarebbe potuta trovare la fossa nella quale lo avevano interrato. Mi parlava di un paese vicino a Ponferrada, sulla vecchia strada di Orense. L’uomo con cui ci eravamo accordati per parlare nel pomeriggio chiamò per dire che una questione familiare gli impediva di venire all’appuntamento. Quel piccolo incidente stravolse il programma della mia visita e comportò un cambiamento insospettato nella mia vita. Dedicammo il resto del pomeriggio a cercare di localizzare il luogo dove era stato interrato mio nonno.
Secondo Arsenio la fossa si trovava a Villalibre de la Jurisdicción, un paese che, come dicono da quelle parti, non è né una villa, né è libero, e non ha neppure giurisdizione. Attraversammo un ponte sul fiume Sil e davanti ai nostri occhi apparve il cartello con quel lunghissimo nome. Parcheggiai la macchina vicino a un bar, dove vedemmo diversi anziani che forse avrebbero potuto aiutarci. Eravamo disposti a chiedere al primo paesano che ci avesse incrociato. Fu allora che uno di quegli anziani ci spiegò la realtà: la guerra aveva lasciato molti uomini nel cimitero, ma in quegli avvallamenti ne erano rimasti molti di più.
Alcuni ci dissero di avere una fossa con due o tre persone nel proprio orto, e diversi si offrirono addirittura di andare ad aprirle con un piccolo trattore, ma noi cercavamo una fossa più grande che doveva contenere tredici o quattordici corpi. Sapevamo che il camion dove salì mio nonno trasportava quindici prigionieri e che almeno uno era riuscito a fuggire.
Visitammo diversi cimiteri clandestini fino a che ci imbattemmo in un uomo che ricordava perfettamente il 16 ottobre del 1936. Allora aveva appena dodici anni, quella notte si era svegliato angosciato dal rumore di numerosi spari e assieme al fratello era corso al letto dei genitori. L’uomo si avvicinò a noi sulla strada e ci segnalò un punto all’entrata di un altro paese, Priaranza del Bierzo, che si trovava ad appena 300 metri da lì. “Appena prima di arrivare alla prima casa, vedrete uno svincolo sulla destra. Gli spararono proprio nel podere che si trova tra le due strade. I miei genitori non mi lasciarono andare, però molti bambini della scuola ci andarono con il maestro per vedere come li interravano”. Un paesano ci accompagnò, e mentre raccontava ad Arsenio alcune storie su altre esecuzioni che conosceva, io camminavo davanti e sentivo un’ansia crescente di fronte alla possibilità di trovare il corpo di mio nonno. Proprio arrivando all’incrocio delle due strade, vidi un uomo sulla settantina che arrivava passeggiando, con le mani incrociate dietro la schiena. Gli dissi: “Lei mi deve aiutare”. Lui mi rispose con tranquillità: “A fare cosa?”. “Vedrà, è che sto cercando una fossa comune della Guerra Civile dove si trovano i resti di mio nonno, assieme a quelli di altre tredici persone”. Allora l’uomo liberò le mani che teneva incrociate dietro la schiena, e segnalò verso l’avvallamento, proprio all’incrocio delle due strade, e disse: “E’ lì che si trovano, proprio sotto quel noce”.
Provai un’emozione immensa. Mi avvicinai all’albero e appoggiai le mani sul tronco, come se in quel modo potessi comunicare con quegli uomini che erano morti assassinati in una notte spaventosa, ormai molti anni prima. Cercai di immaginare quello che poteva esserci sotto terra. La reazione di Arsenio fu più rabbiosa della mia e maledisse gli assassini che avevano lasciato quei poveretti “buttati lì, come fossero cani”. Chiedemmo al vicino chi era il proprietario di quel podere. Ci disse che il proprietario era morto e ci raccontò che dal giorno in cui erano stati interrati lì, avevano smesso di coltivare quella terra per rispetto ai morti. Pensai che, in una zona così vicina alla Galizia, la superstizione era un fattore importante nel rapporto tra gli abitanti di quei paesi e le fosse comuni. Poi appuntai il nome e i cognomi dell’erede, e dopo essere rimasto qualche minuto in silenzio, ce ne andammo.

8 settembre 2006
Domestiche, badanti, rifugiate, medici, prostitute, studentesse, vittime del traffico di esseri umani - sono milioni le donne che lasciano il proprio paese, a volte per scelta, a volte perché costrette. Oggi le donne costituiscono circa la metà di tutti i migranti del mondo: 95 milioni, pari al 49,6%.
Ogni anno mandano centinaia di milioni di dollari nei loro paesi d’origine, per permettere ai loro bambini di mangiare, vestirsi, andare a scuola, e per migliorare il tenore di vita di chi rimane. Nei paesi ospitanti queste donne rappresentano un tassello essenziale al funzionamento della società. Nel 2005 le loro rimesse sono state stimate intorno ai 232 miliardi di dollari (183,5 miliardi di euro), di cui 167 (132 miliardi di euro) destinati ai paesi in via di sviluppo, una cifra notevolmente superiore a quella degli aiuti allo sviluppo. Da una parte, infermiere, ostetriche e medici si orientano sempre più verso l’emigrazione come mezzo per migliorare la propria vita e quella della famiglia. Dall’altra parte, i paesi di origine si trovano ad affrontare un’emergenza sanitaria senza precedenti per effetto di questa “fuga di cervelli”. La carenza di medici e infermiere è particolarmente drammatica nell’Africa Sub-sahariana, dove l’Aids continua a diffondersi. Sono molti i pericoli a cui le donne migranti vanno incontro: il traffico di esseri umani -l’80% costituito da donne e bambine- è oggi terzo per volume di profitti, dopo la droga e il contrabbando di armi, con una cifra di affari annua tra i 7 e i 12 miliardi di dollari.
La migrazione si è tuttavia dimostrata un’esperienza positiva per milioni di donne sul piano dell’emancipazione, dell’accesso a nuovi diritti, della possibilità di mettere a frutto le proprie competenze e capacità, di raggiungere una nuova autonomia. (Lo stato della popolazione del mondo 2006: In movimento verso il futuro. Donne e migrazione internazionale. Rapporto Unfpa, 2006).

9 settembre 2006
In Francia, nel 2001 è stata varata una legge che permette di abortire fuori dagli ospedali, così evitando la trafila di telefonate, appuntamenti, spiegazioni a segretarie, medici, infermiere e aiuti infermieri.
Sonia è una delle tante donne che ha deciso di abortire a casa, con il compagno. Così un venerdì, alle 11, due giorni dopo aver preso il mifepristone (l’RU486) per interrompere la gravidanza, ha assunto il misoprostol per favorire le contrazioni. “Qualche ora dopo sono arrivati dei dolori simili a quelli delle mestruazioni, ho perso molto sangue in quei giorni, ma il medico mi aveva rassicurato che in caso d’urgenza potevo recarmi in ospedale, dove c’era una copia della mia cartella clinica. E’ stato triste, angosciante, ma tranquillo”. Oltre alle complicazioni, la sua paura era di individuare l’embrione. Avendo già un bambino sapeva che questo l’avrebbe molto turbata.
Nel 2005 sui 200.000 aborti praticati in Francia, circa 10.000 sono stati “interruptions volontaires de grossesse en ville” (secondo la terminologia usata dal Ministero per la Salute), ovvero sono stati praticati fuori dagli ospedali.
Queste interruzioni volontarie della gravidanza, rimborsate al 70% dallo Stato Sociale, sono il frutto dei progressi della medicina. Una circolare del 2004 stabilisce cinque fasi: un primo incontro interlocutorio con il medico di base o il ginecologo; un secondo in cui la donna dà il consenso scritto; al terzo incontro la donna prende una compressa che blocca l’azione degli ormoni necessari a portare avanti la gravidanza. Dopo due giorni assume un farmaco che provoca l’espulsione dell’embrione. C’è infine un consulto per verificare che l’aborto sia andato a buon fine.
Per quanto fondamentalmente si tratti di prendere due pastiglie a distanza di due giorni, gli incontri preparatori sono piuttosto lunghi. La donna deve avere il tempo di riflettere, di sentirsi pronta, di modo che non ci siano pentimenti. Françoise Chadrin, ginecologa al Planning Familial di Saint-Denis, racconta di tenere sempre a portata di mano dei fazzoletti, perché le donne piangono. Il momento più difficile è l’espulsione dell’embrione. Durante l’aborto propriamente detto, le donne generalmente sono a casa propria. L’invito allora è ad avere qualcuno accanto, il compagno, un genitore; se si tratta di minorenni che hanno nascosto la gravidanza ai genitori, un’amica…
Le interruzioni di gravidanza “en ville”, cioè non ospedalizzate, restano marginali. Le donne del resto non sono tutte uguali, c’è chi si sente maggiormente rassicurata dall’ambiente asettico e medicalizzato dell’ospedale e chi invece preferisce l’intimità e la discrezione della propria casa. Del resto, come sottolinea Laurence Roussel, coordinatrice del Planning familial di Nantes, e membro del comitato nazionale: “Non c’è un metodo buono e uno cattivo di abortire. Ciò che conta è poter scegliere”. (Le Monde)

11 settembre 2006
Srebrenica. Marcia della morte 2006.
E’ la seconda volta che centinaia di persone attraversano a piedi, per circa 100 chilometri, le colline che separano Tuzla da Potocari, vicino a Srebrenica... E’ la seconda volta anche per alcuni degli stranieri presenti, una ventina di persone, poche: l’anno scorso eravamo ben di più... Nonostante le difficoltà di comprensione dovute alla lingua, mi è stato anche questa volta possibile entrare in sintonia con le emozioni di chi a distanza di anni passava per gli stessi posti e rivedeva boschi, casali e villaggi nei quali aveva cercato rifugio e scampo dalla furia animale dei cetnici; così come mi è stato possibile intuire i sentimenti di queste persone quando si soffermavano di fronte alle numerose fosse comuni in cui sono stati ritrovati i loro parenti e amici che a tale furia allora non erano riusciti a sottrarsi. Dei ragazzi presenti sentivo invece la grande determinazione ed energia, la voglia di esserci e la fierezza di essere depositari di una importante memoria...
Solo che quest’anno ho potuto osservare alcuni aspetti nuovi. Uno su tutti, la presenza molto più massiccia della componente religiosa durante la marcia. Non solo erano presenti molti religiosi che non c’erano l’anno scorso, ma erano numerosi anche i momenti di preghiera; la preghiera si dipanava non più solo davanti alle fosse comuni come l’anno scorso, ma anche la sera nei campi montati per passare la notte.
Non contesto la presenza della religione, ciascuno è libero di essere se stesso e di manifestare la propria fede. Ma questa manifestazione in alcune occasioni è andata un po’ fuori misura e mi ha fatto pensare che fosse in parte esterna e strumentale. Per esempio mi sono parsi fuori misura i cori che inneggiavano “Allah è grande”, soprattutto mentre ci stavamo avvicinando a Potocari, passando accanto ai pochi e isolati poliziotti serbi che erano stati messi a protezione della marcia in territorio della Repubblica Srpska. Ho avuto l’impressione che si trattasse di una eccessiva provocazione. Era fuori misura anche la competizione che si creava la sera nei campi e sotto i tendoni tra chi voleva pregare e chi invece voleva distrarsi o riposarsi. La sera in cui su un piccolo schermo è stata proiettata la finale dei mondiali di calcio questo contrasto è stato più forte ed evidente. Ma la cosa che mi ha lasciato più perplessa è stato il fatto che molti dei religiosi che guidavano la preghiera non erano bosniaci e molti non parlavano nemmeno bosniaco. Da dove venivano?
Un episodio in particolare mi ha dato fastidio: in prossimità di un campo serale mi lavavo i piedi in un ruscello e un mullah che, poco distante da me, faceva altrettanto, mi ha detto (in perfetto italiano!) di allontanarmi perché io, in quanto donna, ero da considerare immonda e disturbavo la sua preparazione alla preghiera. Al di là della mia opinione su questo postulato della religione musulmana, e lungi dal considerarmi offesa personalmente per il commento, ho colto in questa manifestazione una totale assenza di rispetto per le persone che, a diverso titolo, partecipavano alla marcia. Ho risposto al mullah che ero donna, certo, ma avevo comunque bisogno di rinfrescarmi perché avevo percorso 30km su per le colline, e lo avevo fatto per portare modestamente la mia solidarietà alla gente bosniaca; la mia presenza doveva essere rispettata esattamente come quella di tutti gli altri, così come io rispettavo le preghiere dei musulmani. E infatti me ne sono andata solo dopo aver finito di lavarmi i piedi. Ma al di là dello scambio personale con il mullah, ciò che secondo me è da notare è che questo concetto (“la donna è immonda”) veniva portato in Bosnia da un uomo che bosniaco non era.
Per finire, in un paio di altre occasioni durante la marcia sono stata avvicinata da religiosi che, questa volta in inglese, mi chiedevano un parere sulla attuale organizzazione della marcia, cercando palesemente critiche; con l’occasione mi informavano che l’anno prossimo la marcia sarebbe stata organizzata meglio con un maggiore coinvolgimento delle comunità religiose.
L’insieme di tutti questi episodi, nuovi rispetto al clima dell’anno scorso, mi ha dato l’impressione di un tentativo di appropriazione da parte della religione.
Come ho detto, io vorrei fare la marcia tutti gli anni. Credo nel senso della partecipazione straniera; rispetto le religioni e le loro manifestazioni; però mi auguro di cuore che esse rimangano nei limiti del rispetto degli altri, ma soprattutto che siano espressione del reale sentire della comunità bosniaca. (Luisa Morfini).

12 settembre 2006
Notizie da Israele.
-“Negli ultimi due mesi, luglio e agosto, 251 palestinesi sono stati uccisi a Gaza e nel West Bank, tutti per mano delle forze armate israeliane. Circa la metà erano civili, inclusi donne, bambini e anziani. Sono stati uccisi più palestinesi che israeliani durante la guerra in Libano”. (Danny Rubinstein, Ha’aretz).
-“Quello che abbiamo fatto è stato folle e mostruoso, abbiamo coperto intere città di bombe a grappolo”, così il capo di un’Unità lanciarazzi in Libano. L’esercito ha lanciato circa 1800 bombe a grappolo, contenenti all’incirca un milione e 200.000 “bombette”. Di queste il 40% ha resistito all’impatto. Oggi nel territorio libanese restano così circa 500.000 munizioni inesplose (Ha’aretz).
-All’inizio di settembre il Ministero israeliano dell’Edilizia ha annunciato un bando per la costruzione di 690 nuove abitazioni, tutte oltre la “Linea Verde”. Di questi 342 verranno costruite nell’insediamento di Ma’aleh Adumim, 348 in quello di Betar Illit (Ha’aretz).
-Ad agosto, nel pieno della calura estiva, agli abitanti di Gaza è stata tagliato il 60% dell’elettricità. “Senza sistemi di refrigerazione è impossibile conservare il latte fresco per i bambini”. (Gideon Levy su Ha’aretz)

13 settembre 2006
Numeri sull’acqua.
Più di due terzi (71%) della superficie della Terra sono ricoperti d’acqua (1.4 miliardi di km3) che per il 97% forma oceani e mari salati. L’acqua dolce rappresenta il 3% del totale. Di questa, il 69% è conservata nelle calotte polari e nei ghiacciai, il 30% invece giace in falde sotterranee, troppo profonde per essere utilizzate. Solo lo 0,3% dell’acqua dolce scorre in superficie e per gli usi umani (70% per l’agricoltura, 20% per l’industria, 10% altri usi) è disponibile appena lo 0,008 % del totale dell’acqua presente sulla Terra.
Il consumo di acqua nel mondo negli ultimi 50 anni è aumentato di 6 volte, più del doppio del tasso di crescita della popolazione. L’Oms stabilisce la soglia minima del fabbisogno per persona in 1700 m3 di acqua all’anno, non meno di 50 litri al giorno. Nel mondo si passa da una disponibilità media di 425 litri d’acqua al giorno di un abitante degli Stati Uniti ai 10 di un abitante del Madagascar (237 per un italiano, 150 per un francese, 260 per un israeliano, 70 per un palestinese). Quotidianamente, per un bagno si consumano più di 100 litri d’acqua, 30 per una doccia, 100 per un carico di lavatrice, 20 per lavare i piatti (a mano), 15 litri quando si tira lo sciacquone, 6 per bere e cucinare, 2 per lavare i denti, 1,5 per lavare le mani.
Le 5 nazioni più povere d’acqua sono: Kuwait (10 m3 l’anno per abitante), Striscia di Gaza (52 m3), Emirati Arabi Uniti (58 m3), Bahamas (66 m3), Qatar (94 m3). Le 5 nazioni più ricche d’acqua sono: la Guyana Francese (812.121 m3 l’anno per abitante), Islanda (609.319 m3), Guyana (316.689 m3), Suriname (292.566 m3), Congo (275.679 m3). L’Italia (3.325 m3) è al 107° posto.
Attualmente, 1,4 miliardi di persone non hanno acqua potabile a sufficienza, 1 miliardo beve acqua malsana, 3,4 milioni muoiono ogni anno per patologie trasmesse dall’acqua. Mentre le riserve diminuiscono, la domanda cresce. Tra 20 anni, ogni persona disporrà in media di un terzo d’acqua in meno. Nel 2050 ci saranno a soffrire di scarsità d’acqua da 2 a 7 miliardi di persone in più: dipenderà dalla crescita della popolazione e dall’efficacia delle politiche di salvaguardia ambientale. Il 20% di riduzione della disponibilità d’acqua sarà dovuto ai cambiamenti climatici, la qualità peggiorerà con l’aumento della temperatura e l’inquinamento.
L’impegno per invertire questa tendenza è scarso. Numerose conferenze internazionali hanno individuato gli obiettivi per una corretta gestione dell’acqua, ma di questi “quasi nessuno è stato raggiunto (...) siamo di fronte a un’inerzia politica, che esacerba la crisi”, della cui entità la popolazione mondiale non è pienamente consapevole (Unesco). (Enzo Ferrara)

20 settembre 2006
Riceviamo da Luigi De Paoli, di We are church, il seguente messaggio che giriamo:
Carissimi/e, in merito alla discussa “lectio” di Benedetto XVI, mi domando come sarebbero andate le cose se avesse citato “anche” il testo di San Bernardo di Chiaravalle, “dottore della Chiesa” e predicatore delle Crociate (con testo latino). Pace e bene, Gigi.
“I soldati di Cristo combattono senza esitare le battaglie del loro Signore, non avendo timore né del peccato per l’uccisione dei nemici, né del pericolo di venire uccisi essi stessi: talvolta, per la gloria di Cristo, la morte deve essere accettata, talvolta inferta, e non ha nulla di criminale, ma merita molto onore, ché, per un verso, è un guadagno per Cristo, e, per l’altro, si guadagna Cristo: il quale infatti riceve con gioia la morte del nemico a titolo di vendetta, e con gioia ancora più grande offre se stesso al soldato come consolazione.
Il soldato di Cristo, credetemi, è sereno quando uccide, e ancora più sereno quando viene ucciso. Fa un guadagno morendo. Procura un guadagno a Cristo uccidendo. Non per nulla impugna la spada. Infatti è servitore di Dio quando, mentre esercita la vendetta sui malfattori, procura gloria ai buoni. Certamente quando uccide un malfattore non deve essere considerato un omicida ma (per così dire) un malicida, e, chiaramente, vendicatore di Cristo nei confronti di coloro che si comportano male, e difensore dei Cristiani.
Si comprende così che quando egli stesso viene ucciso non è morto, ma è giunto al porto. Dunque, la morte che egli somministra, è un guadagno per Cristo, e la morte che riceve è un guadagno per lui. Della morte di un pagano il Cristiano può gloriarsi perché Cristo ne è glorificato: per la morte di un Cristiano si manifesta la regale liberalità, dal momento che gli si presenta un soldato da decorare”.
(Bernardo di Chiaravalle, De laude novae militiae ad milites Templi, 1128 ca.).

21 settembre 2006
In America scherzando non scherzano.
“Papa Benedetto si è scusato con i musulmani. I chierichetti, invece, le scuse le aspettano ancora. Ma questa è un’altra storia...”. (David Letterman Show).

24 settembre 2006
Gaza come Sarajevo?
Da vent’anni, settimana dopo settimana, Gideon Levy racconta “la realtà dei palestinesi sotto occupazione” ai suoi compatrioti: le case bombardate, gli olivi sradicati, il coprifuoco, le umiliazioni, i chilometri da percorrere per andare al lavoro, da un amico, da un medico.
Alla fine di agosto, mentre in Israele i media non parlavano che della guerra in Libano, lui è partito per fare un reportage a Gaza. “Sarajevo è a Rafah” ha denunciato al ritorno. E lui ne sa qualcosa essendo stato là inviato durante la guerra in Bosnia. Ma chi “di noi” si è recato a Rafah? “La deliberata ignoranza della realtà dell’occupazione, l’autogiustificazione e la convinzione di essere, loro, le vittime”. E’ a causa di questo e contro questo che scrive.
“I nostri ragazzi non sono dei mostri. La maggior parte è pronta a mettere mano al portafoglio per le vittime di un terremoto in Messico. Perché allora di fronte ai palestinesi, si disumanizzano? E’ la routine dell’occupazione che li rovina, li porta a smettere di vedere negli arabi degli uomini come loro... questo cancro che ci rode, più minaccioso di tutti i terrorismi: l’occupazione di un altro popolo”. ... (Le Monde).