Siamo già nel pieno del quarto anno. Non mi sento uno che festeggia, né sono in cerca di auguri, tuttavia voglio riassumere alcune cose, e se devo scegliere, dalla mia incredibile collezione, quello che più mi ha colpito, mi sorprendo perché non è il massacro al mercato, o quello della prima fila per il pane, in via Miskina, nemmeno la strage della scolaresca uccisa a scuola con la maestra. No, è un’immagine bizzarra dell’aprile ’92, quando è iniziata la guerra. Si tratta di una trasmissione della tv di Sarajevo, che ha fatto il giro del mondo: in quei giorni Sarajevo regnava in tutti i notiziari. I disordini in città erano già cominciati, i cecchini serbi, appostati sull’Holiday Inn, avevano sparato sui civili disarmati, cosa fino ad allora inimmaginabile. Hanno ucciso i primi sarajevesi, allora erano ancora così pochi che di loro si sapeva persino nome e cognome, la morte era ancora un evento straordinario. Dopo, i morti sono diventati un numero. Poi sono cominciate le prime rapine ai negozi. Ecco l’immagine che ho scelto, fra quelle della guerra. Una telecamera nascosta in un appartamento segue una rapina in un negozio specializzato di koka, di pollo, della catena di negozi Varazdin. Si direbbe: una rapina, niente di speciale, per quei giorni; però questa è stata qualcosa di diverso. Prima qualcuno ha rotto il vetro, prendendo ciò che gli serviva, poi la valanga dei passanti, che come avvoltoi si buttavano sui polli congelati, ha fatto il resto (d’altra parte, quando le regole non valgono più, non c’è ordine e la legge non funziona, si passa, come a Sarajevo ora, dalla civilizzazione alla pre-civilità, inevitabilmente). Tra i passanti che si affollano davanti alla porta rotta, la telecamera segue un disgraziato con l’ombrello, fermo davanti alla porta. Incomincia la lotta, comica, con l’ombrello che rifiuta di chiudersi. Infine, preso dal panico al pensiero che gli altri hanno le mani libere e portano via tutto il bottino, il nostro eroe entra nel negozio con l’ombrello aperto e si perde tra gli scaffali. Il commento del telecronista era indignato, il giorno dopo in tutta Sarajevo si rideva: l’unico episodio buffo nella valanga di sfortuna rotolata su Sarajevo. Eppure, oggi mi ricordo con tristezza di questa immagine: forse il disgraziato con l’ombrello è il prototipo del nuovo sarajevese, comico nella sua tragedia, costretto a rinunciare alla propra dignità per sopravvivere. Se la disgrazia si prolunga, come nel nostro caso, allora insistere sulla dignità diventa maleducazione.
Perché scegliere, quasi inconsciamente, un’immagine in fondo innocente, quasi a cancellare il male successo dopo? Ecco una domanda senza risposta.

Poi sono cominciati i bombardamenti che hanno coinvolto tutti, è seguito l’orrore che tutti vorremmo dimenticare, se potessimo. Alla fine di aprile si sono compiuti tre anni di assedio di Sarajevo, un progetto di strangolamento della città che dura da 1200 giorni, un progetto che sembra non avere fine, che è riuscito a soffocare la città al limite della sopportazione. E noi, oggi, siamo al limite della sopportazione. Vista dal di fuori, Sarajevo “città che resiste”, fa tenerezza. Dall’interno, l’immagine di Sarajevo è molto più tetra: la città sta per morire e sempre meno sono i cittadini che riescono a sognare, ad avere ideali. Quella che per altri è una magnifica resistenza, per noi è un peso terribile. Le parole, le idee più odiate oggi a Sarajevo sono: resistenza eroica, vita insieme, cultura, spirito di Sarajevo, multiculturale, multiconfessionale, multireligioso, Bosnia Erzegovina, Europa, comunità internazionale, giustizia, pace, tolleranza. Non hanno più significato né magia in questa città. Sono altre adesso le parole magiche: gas, acqua, luce, riso, lenticchie, cecchino, scatola, sigaretta, detonazione, fica, cetnik, mare, Onu, Consiglio di sicurezza, America, Canada, Australia, tunnel, morte. La classifica è strettamente legata alla situazione politica. Tutto ciò in cui avevamo tanta fiducia e speranza nel 1992, oggi non lo sopportiamo più: è sempre doloroso scontrarsi con le proprie delusioni.
Qualche stima tenuta accuratamente nascosta calcola che dei sarajevesi di prima della guerra solo il 27% sia rimasto oggi in città. E’ difficile controllare questi dati, ma è abbastanza facile convincersi che siano veri e doloroso accorgersi del pericolo che vi è celato. Sarajevo è oggi la somma dei disgraziati profughi della Bosnia orientale, dell’Erzegovina, del Sandzak, della Krajina più quel 27 % originari, sempre più marginalizzati, sempre più spaventati. Gli altri, il 73 %, sono sparsi nel pianeta: Croazia, Nuova Zelanda, Australia, Canada, America, Svezia, Norvegia, Pakistan, Turchia, Germania... In città, occasionali segni d’intolleranza s’accendono, molto raramente, tra i “vecchi” e i “nuovi arrivati”. Una delle occasioni è nei tramvai. Karadzic e Koljevic hanno distrutto metà dei mezzi pubblici, così adesso la decina rimasta non è sufficiente per trasportare una cittadinanza appiedata. Quando il tramvai si riempie c’è sempre qualcuno cui viene pestato un piede e che accusa il resto del tramvai di essere “provinciale, contadino”. La Sarajevo più bella sembra vivere solo nei ricordi della gente che l’ha lasciata. Il popolo disperso cerca di conservare il ricordo del mondo di ieri. A Sarajevo arrivano le lettere piene di lacrime, patetiche, della gente che considera la sofferenza della lontananza più grande della sofferenza reale nella città. Nelle loro lettere Sarajevo diventa una città modello, diventa la città che non è mai stata. Questo fa star male chi è rimasto e conosce meglio di tutti i difetti della città in cui è imprigionato. In contrasto con la Sarajevo dei ricordi c’è l’altra Sarajevo, quella della realtà. Ancora cadono granate. Il suono delle granate che s’avvicinano è un’esperienza che porta male. “Per nessuno dovrà ripetersi”, dicevano i Sarajevesi nel 1992, non pensando che si sarebbe ripetuto per loro. C’è una cosa peggiore dell’esperienza del bombardamento: l’esperienza del bombardamento ripetuto. Non esiste resistenza, non c’è abitudine, prende forma la sensazione di un orrore maggiore. Nel 1995 la gente fa più fatica di prima a sopportare le esplosioni perché conosce bene l’orrore che producono. I serbi di Pale sfogano la loro passione per i bombardamenti in modo intelligente. Come i drogati, conoscono bene qual è la dose da non superare, sanno bene qual è la quantità sopportabile dalla comunità internazionale: dalle quattro alle dieci granate, all’improvviso, quattro morti, dieci-dodici feriti. E’ la norma e nessuno si agiterà più di tanto. Non lo farà il generale Smith, che ha avuto una sessantina di occasioni per chiedere l’intervento degli aerei della Nato per colpire le postazioni intorno alla città, ma ha resistito alla tentazione... Ma se i bosniaci si muovono per liberare Sarajevo, allora il generale Smith, il generale Rose reagiranno in un lampo. Il loro scopo non è applicare le risoluzioni dell’Onu e proteggere Sarajevo, il loro compito è proteggere gli interessi del loro paese, che oggi sono definiti senza ombra di dubbio: Serbia fino a Grbavica ad ovest e fino all’Adriatico a sud.
Ma questa è la sfera più alta delle contemplazioni. I sarajevesi hanno perso interesse per questo molto tempo fa. I nostri problemi sono molto più terra terra di quanto ci si possa aspettare da chi “offre un’eroica resistenza all’aggressione”. Di tutti i segreti a noi interessa questo: come prevedere quando e dove cadrà la prossima granata?

Ai primi di aprile le schegge di una granata hanno ucciso nel centro della città Maja Djokic, diciotto anni. Dire che Maja era serba sarebbe maleducato se non ci fosse il resto della storia. Perché a Pale non si sono accontentati di averla uccisa, ma il giorno dopo in tv hanno trasmesso un servizio di dieci minuti sulla “ragazza serba assassinata dai mussulmani”. L’uso della propaganda è senza scrupoli e non si sono vergognati di dire che Maja tentava di fuggire per rifugiarsi a Grbavica, ma è stata catturata, torturata e violentata dai soldati di Izetbegovic, assetati di sangue e che odiano tutto ciò che è serbo. Poi, questi soldati hanno sparato una granata sulla città e infine hanno messo il corpo di Maja nel luogo dell’esplosione. Provate a guardare questo episodio con gli occhi di quegli sfortunati genitori, il cui dolore dopo la morte era già estremo ed oggi, dopo il massacro televisivo, è insopportabile, senza paragoni. Il disgusto provocato dall’uso dei mass media da parte di Pale in questo episodio ha indignato lo stesso portavoce dell’Unprofor Alexander Ivanko, che è sobbalzato dalla sua posizione neutrale, si è scandalizzato e poi è ritornato nella sua benedetta neutralità.
Tutte queste storie sono ferite nell’anima tormentata di Sarajevo.
Questa di Maja è emotivamente insopportabile, ma è dall’inizio della guerra che altri ci raccontano la verità, ci informano e ci spiegano cosa ci sta succedendo e a noi tocca solo la condanna di ascoltare e di subire. Non ci succede da ieri, ma dal 1992, da quando c’è stato questo dialogo fra un uomo che telefona da Belgrado e sgrida la sorella perché non è scappata da Sarajevo.
-E perché devo lasciare la città? Starò qui con gli altri e quello che accadrà loro accadrà a me.
-Sei normale? Lo sai che lì accoltellano i serbi?
-Ma non è vero, nessuno mi ha toccata. Tutta la notte sto con i miei vicini, facciamo la guardia al condominio, beviamo il caffé, chiacchieriamo. Nessuno mi ha neppure guardata male, altro che accoltellarmi!
-Sei una stupida! Cosa ne sai tu se ti accoltellano o no. Karadzic l’ha detto in tv che lì ti accoltellano.

I sarajevesi in questi 1200 giorni hanno passato diversi stati emotivi, il più profondo è stato quello dell’attesa, attesa di una liberazione che non è mai arrivata. Il risultato è che l’attesa è ancora lo stato dominante, ma non si attende più la liberazione, né un accordo di pace che è così lontano da non poterlo neppure indovinare per caso. Si aspetta il prossimo massacro, il prossimo mercato Markale, la prossima fila del pane o dell’acqua. Lo sappiamo e non possiamo evitarlo. Le autorità lo sentono e hanno imposto le norme di sicurezza più rigide, siamo in una condizione di allarme generale permanente: il mercato Markale è stato chiuso, sono vietate le manifestazioni pubbliche, l’allarme suona spessissimo, la via principale è chiusa al traffico e là adesso muoiono solo i soldati francesi. Eppure le strade sono piene di gente, perché in questa perversa realtà è come un codice d’onore dimostrare di non avere paura.

Si ritiene che il test più difficile di civiltà sia vedere quante differenze un ambiente è in grado di accettare. Sarajevo, la città che è cresciuta sulle differenze, è in grado di sopportarle dopo tutto quello che è successo? Supererebbe il test di civiltà? La risposta è affermativa. Il fatto che ai serbi della città non sia accaduta una Banja Luka, né ai croati una Mostar est qualcosa vorrà dire. Una risposta la danno anche le feste religiose, che in questa città sono più numerose di quanto un organismo affamato possa sopportare. Esistono feste che ormai sono multiconfessionali perché tutti le festeggiano e anzi i più rumorosi e allegri sono gli atei. Anche quest’anno, s’è cominciato con il Natale cattolico, in una situazione idilliaca: tutto bianco di neve, senza traffico, senza smog, con le strade piene di gente invece che di auto. I caffé erano pieni, il profumo di marijuana di ottima qualità coltivata sulle terrazze predominava sugli altri odori. Diverso è stato il Natale ortodosso, perché i serbi di Trebevic lo festeggiano sparando granate sulla città e allora si raddoppiano le misure di cautela individuale, si esce meno volentieri, domina la paura. Ci siamo rifatti in marzo con Bajram, la più grande festa mussulmana. Come per il Natale, chi l’ha atteso l’ha fatto in segno di ritorno alla fede, di commiserazione e ricordo di una disgrazia comune. Per tutti, credenti e non, è stata l’occasione eccezionale per dimenticare in quale città vivono e concedersi una fuga collettiva dalla realtà.
Tutte queste immagini restano, ma stanno perdendo di significato, perché Sarajevo è una città che sta svuotandosi in fretta. Il suo contenuto più importante, la sua essenza -la gente che vi viveva prima della guerra- va via per sempre. E’ un processo doloroso e sempre più attuale, più delle granate. Sarajevo grida per la gente, ma loro vanno via. La città non è mai stata così bella come adesso, così ferita e indifesa, e mai come adesso avrebbe avuto bisogno della sua gente. Andare o rimanere, questo è il dilemma più drammatico di ogni sarajevese che è ancora in città. Non puoi fermarti con uno per la strada che il discorso non cada su come scappare, su dove andare. C’è sempre qualcuno che conosce un posto in Canada dove lavare i piatti per otto ore al giorno ed essere più felice di quanto sia mai stato a Sarajevo negli ultimi tre anni. E alla fine morirà con la nostalgia del suo paese.
-E’ meglio lavare i piatti là, che essere un signore qua!-
Sono state le ultime parole di un amico che in febbraio mi ha salutato. Dopo di lui ne ho salutati altri due. Poche parole. Ci siamo salutati in silenzio, perché abbiamo capito che è l’unico modo di salutarsi con dignità. Forse una parolaccia all’ultimo secondo, come ricordo dei vecchi tempi e segno della passata intimità. -Ma sì, vaffanculo, ne ho abbastanza di te qui!-
Chissà, forse Sarajevo è la città stregata dove sbagliano quelli che combattono per il proprio diritto di rimanere e di fronte agli altri si vergognano della propria scelta.